Come dice ai suoi studenti che picchettano il liceo dove lavora, Nathalie non va a scuola per fare politica, ci va per insegnare. Anche Mia Hansen Løve, giunta al suo quinto lungometraggio, dimostra di avere lo stesso scopo nei suoi film. Per questo ogni critica infastidita dal suo incessante ritrarre storie autobiografiche (personalmente vissute da lei o da membri della sua famiglia) e dunque ermeticamente chiuse nel milieu alto-borghese e intellettuale della capitale francese è comprensibile – addirittura condivisibile – ma inevitabilmente out of focus.
La trama de Le cose che verranno – L’avenir (vincitore dell’Orso d’argento alla Berlinale 2016 per la miglior regia) ha al centro l’insegnante di filosofia Nathalie, quasi sessantenne, che si trova ad affrontare nello stesso momento la morte della madre, l’abbandono del nido da parte dei figli, e il tradimento e conseguente separazione dal marito. Non da ultimo, a peggiorare la sua situazione, ci sono le difficoltà che incontra nella pubblicazione dei suoi saggi per la piccola casa editrice con cui ha lavorato per anni. Il “caos calmo” dell’elaborazione della perdita ci viene mostrato attraverso la narrazione ellittica a cui Hansen Løve ci ha abituati, interessata da sempre a costruire un arco temporale che dia spazio a momenti di vita indagati con meticolosa attenzione a gesti e mutamenti impercettibili, in un naturalismo che ambisce a mostrare il tempo esistenziale in modo simile a quanto fatto da Kechiche in La vita di Adele o, per certi versi, da Linklater in Boyhood.
Come in Clouds of Sils Maria del ben più impegnato maestro e compagno Olivier Assayas, la regista mette in scena il tempo anche in senso storico, e più precisamente il conflitto tra modernità e postmodernità: il mondo contemporaneo è fatto di strategie di marketing editoriali che puntano più su una forma appealing che non sul contenuto, di scelte irrazionali come la sbandata del marito per una donna più giovane, delle radicalizzazioni velleitarie dell’allievo prediletto Fabien, che abbandona il dottorato e si rifugia sulle montagne a studiare i francofortesi. La quotidianità ordinata di Nathalie ne esce scandalizzata oltre che destabilizzata. Ma il mondo nuovo in cui Nathalie si sente inadatta è solo in apparenza fatto di conflitti e contraddizioni, ha una sua precisa logica che Nathalie scopre nel corso del film. In fondo anche la scelta di Fabien e amici non ha niente di radicale, è una fuga, letteralmente, a curare il proprio orticello. Una scelta individualista che nei momenti peggiori appare una posa superficiale quanto il comunismo giovanile di Nathalie, per stessa ammissione di Hansen Løve, che in un’intervista ha affermato, riguardo alla recente moda francese di creare comuni agricole: “It’s not a recreation of a utopia, it’s not a movement – these people are seeking new ideals individually”.
Anche il “ribelle” Fabien è in fondo un figlio dei suoi tempi neoliberali. Nathalie, invece, con i suoi proverbiali cachemerini, è un retaggio del passato, un passato fatto di conflitti molto più definiti, di barricate in cui c’era una parte giusta e una parte sbagliata in cui posizionarsi. Di questo passato, Nathalie rappresenta proprio la parte sbagliata, il “nemico”: la borghesia. Sembrerebbe impossibile quindi non liquidare la visione del mondo veicolata da Le cose che verranno come reazionaria. Il mio professore di filosofia del liceo (appunto) soleva dire che la nostalgia è un sentimento adolescenziale. Se Mia Hansen Løve aveva identificato con l’ancoraggio al passato la Camille di Un amore di gioventù (ma in fondo anche l’eterno presente privo di progettualità di Eden trasmette la stessa impressione di stallo), è al suo personaggio più maturo (e convincente) che affida il compito non facile di immaginarsi un futuro, di fare i conti con la necessità del cambiamento. Ma mentre Nathalie accetta la sfida, la forse ancora troppo giovane Hansen Løve confeziona un film che rischia di apparire un’altra volta nostalgico, che ricorda con malcelato rimpianto i vecchi valori, le piccole gioie quotidiane, la capacità di accogliere un gatto o un nipotino, di farsi da parte e sacrificarsi per il prossimo, come si conviene a una signora per bene di una certa età. La componente autobiografica è fondamentale per interpretare l’opera come un omaggio commosso della regista alla capacità di sacrificio di sua madre, rischiando di finire nell’apologia del ruolo di cura che è tutto ciò che può salvare la figura femminile, come tradizione impone.
Tuttavia, l’ironia di una Isabelle Huppert in stato di grazia salva il personaggio e il messaggio dal rischio di diventare stucchevole e riesce a farci vedere la potenzialità di un film che non usa certo la filosofia come accessorio, o come nota di colore per delineare un certo ambiente socioculturale. Più che lo stoicismo e la compostezza con cui Nathalie affronta la nuova fase della vita – che ricorda il dignitoso contegno di Colin Firth di A Single Man – sono invece i momenti di crisi e umana fragilità l’autentico tesoro messo in scena dall’attrice. La sua nevrosi, il piglio mascolino, il suo sopracciglio alzato in bilico tra giudizio e imbarazzo. Un elemento che emerge anche tramite il confronto con l’iperfemminilità seduttiva, narcisistica e dipendente dallo sguardo dell’altro di sua madre, da un lato, e della femminilità remissiva e inoffensiva della giovane ragazza di Fabien. Proprio questo confronto ci ricorda che Nathalie è un individuo a sé stante, prima di essere una donna. Un individuo indipendente, e che la sua lezione (di filosofia) può essere esemplare per tutti.
Il suo diventa quindi un invito a costruirsi con le proprie mani un destino diverso da quello atteso, meno certo, meno riparato, ma autonomo – non da ultimo nella capacità di negoziare il desiderio e le esigenze dell’altro. I due rapporti più significativi per questo suo sviluppo sono quello con la gatta Pandora, ereditata dalla madre, e con Fabien, che diventa a un certo punto il cuore della narrazione. Anche in questo caso, facili scappatoie sono precluse, e la regista monta sapientemente le attese nella speranza di una liaison tra i due, che puntualmente non si realizza frustrando personaggio e spettatore.
Aprirsi all’altro, rinunciando però alla speranza di potervi dipendere per la propria salvezza, è la sfida a cui Nathalie è chiamata: quella di diventare responsabile di se stessa. In tempi in cui il ritorno al privato, a causa delle incertezze che il mondo del lavoro e la dimensione sociale impongono, sembra l’unica soluzione, la storia di Nathalie aiuta a intendere questa riscoperta di sé non come una pretesa narcisista e prepotente (la richiesta imperiosa di essere salvati dall’altro), bensì come l’assunzione della responsabilità che, da sola, può garantire un ritorno al mondo consapevole, costruttivo e progettuale.
Certo, si tratta di un imperativo morale, e la morale è un privilegio di classe. Ma forse è anche l’unica premessa per un avenir possibile.