Quando mi capita di conoscere qualcuno a un festival, di solito mi chiedono se lavoro per un ufficio stampa, se sono un’assistente personale o la compagna di qualcuno. Se sono vestita bene e ho dormito tanto, mi domandano se sono un’attrice. Se sono in fondo alla sala da sola per riprendere un po’ di fiato, presumono che sia l’organizzatrice dell’evento. Mi è capitato di andare a cena con persone che, non sapendo come presentarmi, avevano preferito sorvolare. Sono stata a riunioni i cui partecipanti pensavano fossi lì per redigere il verbale. Altre volte sono stata sufficientemente “fortunata” da avere capi o amici che spiegavano agli altri presenti che non ero lì come accompagnatrice di nessuno né come appendice amministrativa. Nonostante sia grata agli uomini che hanno parlato in mia difesa, sono profondamente risentita per questo aspetto della mia vita professionale. È snervante constatare come il riconoscimento da parte degli altri uomini arrivi solo dopo che un altro uomo ha legittimato la mia presenza. È angosciante percepire il momento in cui da invisibile diventi visibile, e lo è ancora di più sapere che questo processo non dipende da te. Mi hanno sempre insegnato che sono perfettamente in grado di essere in controllo della situazione, ma la realtà è diversa: in contesti dominati da uomini, il mio genere conta più di me, e lo dico pur sapendo di essere comunque privilegiata, essendo bianca, eterosessuale, cisgender e benestante.
Nell’epoca di internet, questo tipo di rigetto repentino è diventato noto come “pregiudizio inconscio”: la valutazione basata su razza, genere, classe e abilità psicofisica che tutti mettiamo in atto non appena incontriamo qualcuno. Recentemente, tale categoria interpretativa è stata largamente applicata al mondo del cinema, specialmente quando si tratta dello sguardo dietro la macchina da presa. Radheyan Simonpillai ha sollevato la questione nel contesto canadese in un recente articolo su NOW Magazine, in cui l’attrice Tatiana Maslany afferma: “Non dovrebbe nemmeno più essere argomento di discussione. Come può esserci ancora reticenza riguardo al cambiamento? Non dovremmo più arrabbiarci, semplicemente perché non dovrebbe più accadere. Penso che le persone abbiano davvero paura di cambiare paradigma. Quello attuale è un paradigma maschilista. E funziona: crea profitto”. Nel 2016 molti festival cinematografici (incluso il TIFF) e svariate pubblicazioni si sono interrogati sul perché siano quasi sempre gli uomini a gridare “Azione!” sul set.
Ma c’è un altro settore dell’universo cinematografico ad essere altrettanto affetto da una disparità di genere, anche se non viene discusso così di frequente: la critica cinematografica. Nel 2016, uno studio della State University di San Diego dimostrava che solo il 27% dei “top critics” su Rotten Tomatoes sono donne. Una disparità già denunciata da Meryl Streep, che ha contato il numero di donne presenti sul famoso sito aggregatore di recensioni, giungendo alla conclusione che delle firme presenti, 760 sono di uomini e solo 168 femminili. Ci sono certamente state donne-critico famose, da Judith Crist a Pauline Kael, e anche accademiche di rilievo come bell hooks e Susan Sontag. Ma se guardiamo in avanti, quello che lo studio dell’università di San Diego e Meryl Streep cercano di evidenziare è un costante fallimento nell’ecosistema cinematografico. Oggi, portare donne dietro la macchina da presa è l’obiettivo di moltissimi discorsi riguardo l’inclusione, ma si tende ancora a ignorare che anche in caso di successo, queste registe hanno bisogno di voci e firme che le considerino e le supportino. Se il mondo della critica cinematografica assomiglia a una confraternita, il pregiudizio inconscio di questi uomini rischia di influenzare la selezione di film di cui si scrive e si discute, e la maniera in cui lo si fa.
È facile, sulla carta, ammettere l’esistenza di un problema, ma la vera domanda è: che fare? Dopo varie discussioni con donne del campo, tre sono le parole d’ordine che emergono costantemente: smantellare il canone cinematografico, esaminare il panorama mediatico, e mettere in discussione l’autorità, in particolare quando si tratta di capire chi si suppone la detenga e chi vi ha accesso.
La conoscenza è potere, ma ciò che spesso si trascura di considerare nell’ambiente del cinema è a quale tipo di conoscenza si garantisca potere. E la conoscenza che conta è quella che riguarda il canone cinematografico attorno al quale molti curricula accademici si concentrano. Vale a dire: insegnare i fratelli Lumière e non Alice Guy-Blaché, studiare le innovazioni tecniche di D. W. Griffth senza considerare il suo ruolo nell’iscrizione di un immaginario razzista, tenere interi corsi monografici su Alfred Hitchcock invece che su Med Hondo o Agnès Varda. Il fatto che sia questo tipo di canone a formare la critica cinematografica determina le regole del gioco: cercate di mettere sul tavolo una carta a cui non sia stato assegnato preliminarmente il ruolo di asso e tanti auguri nel cercare di vincere la mano.
Questo crea uno sbarramento, in cui non si tratta più di esprimere un’opinione, ma di dover dimostrare il proprio merito per il semplice fatto di averne una. “C’è differenza tra vedere criticato il proprio lavoro nel merito, e veder messa in questione la propria conoscenza”, dice Angelica Bastièn, autrice e critica residente a Chicago. Può essere estenuante per una donna doversi impegnare a difendere non solo il proprio punto di vista su una questione ma anche il proprio diritto a esprimerlo.
Il ruolo del canone, inoltre, informa e influenza il gusto e la selezione di ciò che è ritenuto meritevole di riflessione critica. Come ha detto Sophie Mayer, autrice di Political Animals: The New Feminist Cinema e critico per Sight & Sound, la predominanza del “grande canone delle opere falliche” conduce al fatto che “il gusto personale viene considerato innato e sacrosanto invece di riconoscere che esso è un prodotto dalle nostre esperienze e riflessioni”. Mentre il “libretto di scena” della critica è pensato per favorire alcune esperienze, coloro che hanno una professionalità in altri ambiti vengono relegati alla nicchia o alla specializzazione in campi ritenuti “minori”. E “minore” o “di nicchia” sono appellativi che diventano sinonimi per “da/di donne” o per indicare tutto ciò che riguarda e proviene da esperienze marginali.
A livello pratico, tutto ciò significa che il discorso contemporaneo è spesso modellato attraverso una lente prevalentemente maschile. Simran Hans, autrice freelance di base in Inghilterra, ha fatto notare come ciò sia emerso con evidenza l’anno scorso: “Pensate a tutti quelli che hanno visto Lemonade di Beyoncé cogliendovi l’influenza di Terrence Malick invece di quella di Julie Dash, di Kasi Lemmons o di Zora Neale Hurston”. Questo non implica che le autrici dovrebbero ignorare i Malick, i Godard e i Truffaut che hanno fatto la storia del cinema, ma che abbiamo bisogno di un’espansione radicale della nostra conoscenza cinematografica. Come ha detto chiaramente Hans: “Più prospettive diverse significano meno pensiero unico, e quindi una critica più intelligente”.
La soluzione per espandere il canone potrebbe non essere “semplicemente” quella di riscrivere la storia. Nella nostra epoca digitale, la questione diventa anche una guerra di decibel. Nathalie Atkinson, che ha una rubrica su The Globe and Mail e si occupa da freelance di arte e cultura, osserva: “Il contesto della critica è cambiato moltissimo con internet. Il mercato libero si sta autocorreggendo, ma le testate invece di vedere in questo un’opportunità per rinnovarsi, tendono ad assumere chi grida più forte”.
Questo problema è stato alla base, circa quattro anni fa, della mia creazione, assieme ad altre donne, di cléo, rivista di cinema e femminismo. Volevamo ideare uno spazio in cui le donne potessero scendere in campo e iniziare la propria scalata a diventare firme riconosciute. Uno spazio in cui scrivere di genere, razza e politica non fosse visto come “marginale” o “non abbastanza mainstream” e in cui occuparsi di film vecchi e ignorati dai più fosse incoraggiato. 12 numeri più tardi, penso che abbiamo fatto molti progressi. Sono sempre molto rigida sulla qualità di quello che viene pubblicato, ma allo stesso tempo non trascuro la quantità: numero dopo numero, pezzo dopo pezzo, stiamo intenzionalmente opponendoci a un’industria molto maschile e molto bianca. Purtroppo, è un lavoro lento e difficilmente remunerativo (abbiamo sempre raccolto fondi per pagare i contributi che compaiono sulla rivista, ma è solo dall’anno scorso che siamo in grado di offrire un piccolo onorario alle nostre autrici, grazie a un finanziamento dell’Ontario Arts Council). E mentre diminuiscono le posizioni redazionali full-time, cresce la pressione a pubblicare da parte delle testate, con il risultato che queste sono sempre meno interessate a rischiare puntando su voci nuove, o anche solo a impegnarsi nella loro formazione (quello che era un tempo il lavoro principale di un bravo editor). “Quando Variety vuole assumere un nuovo critico, deve giustificare la sua scelta”, dice Atkinson. Quindi si è più pronti a includere firme che “sono già forti e influenti e che determinano il tenore della conversazione. Di norma, quindi, uomini”. Nonostante le grandi novità (pur innegabili) offerte dal contesto digitale, sulle piattaforme più grandi è ancora l’arroganza a pagare.
Tutto ciò provoca una segmentazione sfavorevole: “Mi vengono assegnati quasi sempre gli stessi temi (“donne” o “persone di colore”)”, dice Hans, “il che non è necessariamente un problema, tranne quando l’intervista che vorrei fare a David Fincher viene assegnata a un maschio”. Questo tipo di assegnazioni editoriali toglie alle donne la possibilità di essere viste come autorità in ambito generalista, dato che la loro autorevolezza è riconosciuta in relazione alla propria esperienza personale e non al loro giudizio. Inoltre, come dice Hans “può essere frustrante e sfiancante, a livello emotivo, essere chiamati a parlare per tutte le donne o le persone di colore: crea molte aspettative, ed è una responsabilità non indifferente.”
Anche se tutto questo avviene nella sfera digitale, ha un impatto anche nel mondo reale. “Twitter ha reso praticamente impossibile andare al cinema senza una qualche percezione del consenso critico attorno a un film”, afferma Hans. “Talvolta può essere difficile trovare il coraggio di offrire un’opinione contraria e mi è capitato di domandarmi se avevo interpretato un film correttamente perché non ero d’accordo con le voci più ‘autoritarie’” (per non parlare del fatto che Twitter non è esattamente uno spazio sicuro per una presa di parola delle voci marginalizzate). Nonostante sloggarsi possa sembrare una soluzione, si tratta comunque di un rischio: “Si ha la sensazione di sparire, se non sei più parte della conversazione”, ammette Atkinson. Inoltre “Questa pressione non è nuova, per le donne. Sappiamo cos’è il lavoro sui social che si aggiunge a quello di critico: per secoli ci siamo fatte carico noi di tutto il carico emotivo”.
E dunque? Come mi ha detto Bastién, “La critica cinematografica necessita di un serio risveglio”. Ma se la storia ci ha insegnato qualcosa, questa presa di coscienza non accadrà senza uno sforzo preciso volto ad affrontare discorsi spinosi: quelli che riguardano il razzismo, il sessismo, il pregiudizio e il potere. Questioni che necessitano di una comunità intellettuale che si fregia di essere progressista e deve essere in grado di assumersi il compito di svolgere un’operazione di introspezione e autocritica. “I critici maschi si sentono liberal solo perché ritwittano donne e persone di colore”, continua Bastién, “ma nella pratica, chi raccomandi per dei lavori? Che film promuovi nella tua opera di critico?”. Hans rilancia: “Assumete più persone che non siano maschi bianchi! In effetti, sta tutto qui. Non c’è sicuramente penuria di donne (e persone di colore) brillanti e incisive dotate di professionalità nel campo del cinema”.
Fino a che la comunità di critici non inizierà a esaminare il suo pregiudizio, ci sarà la sensazione che alcuni individui siano ammessi nel circolo chiuso della cinefilia e altri no. Ci vorrà del tempo per cambiare questo status quo, ma personalmente ho dato troppo al cinema, e mi piace troppo, per rinunciare a questo compito. Come sostiene Mayer, “il pregiudizio inconscio può essere un’accusa che si rivolge a un uomo. Ma io faccio questo lavoro in qualità di donna bianca e cis: devo imparare a lasciare parlare altre persone meno privilegiate e ammettere la mia ignoranza”. Possiamo partire tutti da qui, e nel frattempo prendere esempio da Bestién: “Invece di perdere tempo a litigare su Twitter, intendo alzare il livello della discussione, guadagnarci, e dimostrare che sono un’autrice migliore”.
(testo originariamente pubblicato sul sito ufficiale del TIFF, per gentile concessione dell’autrice e degli editori; traduzione di Elisa Cuter)