El futuro perfecto, primo film di Nele Wohlatz, regista tedesca residente in Argentina, è stata una delle rivelazioni della 69a edizione del Festival di Locarno. La vicenda di Xiaobin, diciassettenne cinese a Buenos Aires alle prese con l’apprendimento dello spagnolo, è oggetto di una trasfigurazione della materia documentaria che si rivela nel corso del film come una riflessione sul potere del linguaggio e i suoi limiti. Premiata come miglior opera prima alla rassegna ticinese, ha avuto la sua première italiana al Carbonia Film Festival, dove ha conseguito il premio di Miglior film di finzione.
Filmidee: Ci interessa in primo luogo conoscere il tuo percorso: che cosa ti ha spinto dalla Germania a diventare una cineasta in Argentina?
Nele Wohlatz: Ho studiato in una piccola scuola di arte e media a Karlsruhe, il mio corso di laurea era ufficialmente in scenografia, ma durante gli studi ho scoperto il cinema documentario. Ho avuto l’opportunità di svolgere un interscambio studentesco a Buenos Aires, e mi sono trovata a mio agio. Ciò che mi piace di Buenos Aires è la cultura indipendente: il cinema, il teatro, la letteratura, e la maniera di lavorare trasversalmente alle discipline. Ovviamente reperire i fondi per finanziare il film non è stato così facile, ma c’è qualcosa che mi piace nell’etica del lavoro. Qualcosa che non ho percepito in maniera cosciente dall’inizio, ma mi ha fatto sentire a mio agio: è la maniera in cui si tratta la relazione tra realtà e finzione. Ho co-diretto un lungometraggio, il mio primo film in Argentina, che si chiama Ricardo Bär. Abbiamo girato nella provincia di Misiones, a 1000 km da Buenos Aires, vicino alla frontiera col Brasile, una zona tropicale che tempo fa era una colonia di tedeschi trasferitisi nella zona nel XIX secolo. Quello fu il mio primo progetto, e una volta terminato non avevo nuove idee e, dato che reperire fondi diventava sempre più complicato, decisi di non girare più lontano da Buenos Aires e scrivere un progetto da girare nella capitale. Era il 2013, vivevo in Argentina già da quattro anni ma mi sentivo ancora un po’ confusa sulla mia identità. Non capivo il perché, dato che mi sembrava comunque un po’ troppo solenne definirmi un’“immigrata”, ma allo stesso tempo ero una straniera e non mi sentivo del tutto parte di ciò che mi circondava. Quest’aspetto mi ha sempre creato parecchi problemi: per esempio con la lingua, sentivo di avere una comprensione limitata rispetto a ciò che avveniva intorno a me. Avevo la sensazione che mi sfuggisse sempre qualcosa, le sfumature, sentivo un handicap come regista.
FI: Fu in quel momento che cominciò a prendere vita l’idea de El futuro perfecto?
NW: Esatto, è stato quello il punto di partenza: pensai che la cosa migliore sarebbe stata filmare una straniera a Buenos Aires e il nostro punto di vista sulla città in qualità di stranieri. In quel momento stavo lavorando come professoressa di tedesco in una scuola di lingue, e come primo tentativo mi sembrò che la cosa più logica fosse avvicinarsi agli studenti di spagnolo. Mi autorizzarono a chiedere loro la disponibilità di partecipare a un’intervista, e in quel momento si svolgevano corsi di spagnolo per cinesi. Mi sembrò molto interessante perché non avevo mai avuto alcun contatto con la comunità cinese. Feci alcune interviste e Xiaobin, la protagonista, che era una delle studentesse del corso. Già dal primo incontro mi resi conto che funzionava benissimo in camera. Era arrivata in Argentina appena tre mesi prima, diciassettenne, senza quasi parlare lo spagnolo: venni a sapere da altri studenti con un dominio maggiore della lingua che i genitori l’avevano lasciata sola a 12 anni in Cina con alcuni parenti per aprire una lavanderia a Buenos Aires e che non si erano visti per tutto quel tempo. Xiaobin coltivava una profonda rabbia dentro di sé: doveva chiarire la relazione coi suoi genitori, dato che per tutta la sua adolescenza aveva sviluppato un grande senso di colpa di fronte al denaro che questi le mandavano lavorando duramente. Allo stesso tempo però voleva definire la sua indipendenza e trovare un accordo con la famiglia. È un qualcosa che è riuscita ad ottenere, ma per il quale ha dovuto lottare duro, mentre giravamo il film. I genitori di Xiaobin vivevano in isolamento rispetto agli argentini, parlavano uno spagnolo stentato e mantenevano quel sogno proprio dell’immigrante povero di prima generazione: guadagnare i soldi sufficienti per poi tornare in patria e costruire una casa dove godersi la pensione. Avevano peraltro un’immagine molto negativa dell’Argentina. Lei invece pensava che a Buenos Aires avrebbe avuto la possibilità di vivere una propria vita, imparare lo spagnolo, frequentare il liceo per adulti e entrare all’università.
FI: Dopo che Xiaobin superò questa fase, diciamo, di casting, come avete continuato a lavorare per avvicinarvi alla sua realtà?
NW: È stato un processo molto lungo e molto strano, abbiamo dovuto inventarcelo da soli perché praticamente non avevamo un modello: non avevo mai lavorato così prima di allora e non avevo particolari riferimenti cinematografici. Avevo in mente una sorta di tono, un tipo di immagine, ma non sapevo bene come ottenere quel risultato. Ho passato quasi due anni prima di capire come fare: in primis, trascorsi molto tempo con lei, uscivamo in città e raccontavamo le nostre esperienze. Non è stato un avvicinamento di tipo oggettivo, non mantenevo distanze di sorta, abbiamo semplicemente cominciato a passare del tempo insieme in cui lei condivideva ciò che le era accaduto da quando aveva messo piede in Argentina. Fu allora che cominciai a mettere insieme aneddoti e racconti per scrivere una specie di sceneggiatura. Chiesi aiuto a un amico che ha studiato nella Escuela de Cine Nacional, uno che aveva un’educazione molto classica: si chiama Pio Longo, e mi ha aiutato a far funzionare la struttura narrativa del film. Per noi era logico che Xiaobin avrebbe dovuto interpretare se stessa, ma non essendo attrice in che modo avrebbe potuto farlo? Il problema era rendere rappresentabile ciò che stavamo scrivendo. In quel momento mi diede una mano un’amica attrice, che mi svelò i metodi dei corsi di recitazione, e così cominciai a lavorare con Xiaobin e Pio per esplorare le possibili forme espressive del personaggio. Lentamente abbiamo cominciato a mettere in pratica dialoghi, situazioni possibili: è stata una maniera di applicare un mix abbastanza libero tra realtà e finzione. Credo che da allora il film si sia allontanato realmente dalle categorie tradizionali del documentario per trasformarsi in un mutuo processo in cui entrambe siamo cresciute tantissimo.
FI: È interessante questo aspetto del percorso, chiamiamolo così, di emancipazione di cui gode il personaggio nel corso del film. Di fatto pone delle questioni centrali: il mondo che ci circonda non è nient’altro che linguaggio, idee, concetti. A un più alto grado di dominio su di essi corrisponde un maggiore dominio sul mondo, e così sul nostro stesso destino di persone.
NW: Esatto, ed è ciò che mi interessa del cinema: il cinema è uno spazio di idee, è reale ma allo stesso tempo non è nient’altro che un fascio di luce che si proietta. Esiste solo nel momento in cui lo vediamo, e ogni volta l’esperienza è differente. I film sono ogni volta diversi, dopo averli raccontati poi cambiano di nuovo… Per me il cinema è uno strumento per lavorare sulle idee. Pur seguendo la tradizione propria del cinéma-vérité, provo a cercare di togliere il personaggio da quel ruolo di puro oggetto di fronte alla camera, filmata da un’altra persona che ha il potere di dirigere, gridare. Voglio usare la ripresa al contrario come strumento di emancipazione, in cui la persona filmata ottenga una voce propria. In questo senso penso che il mio film sia politico: si cancella la frontiera autoriale, e anche il personaggio si appropria del film. Per esempio, a un certo punto dissi a Xiaobin che avrei voluto filmare il momento in cui in classe studiano il condizionale e scrivono i periodi ipotetici: le chiesi di scrivermi quattro scene possibili sul suo futuro, e mi rispose con proiezioni dal tono decisamente drastico, che riflettevano la sua idea sul cinema, un cinema melodrammatico in cui deve sempre succedere qualcosa. Erano tuttavia delle scene che trattavano il conflitto coi sui genitori, parlavano del suo desiderio di indipendenza, del coming of age, di aspetti centrali in quel periodo della sua vita: perché non avrebbero dovuto essere reali? È ciò che a lei importava: in quel modo, facendo parte di un film, prendeva posizione rispetto al suo futuro scrivendo e divenendo autrice delle proprie idee. Forse per questo l’ultima delle quattro scene si apriva all’happy ending.
FI: Seguendo il tuo discorso ripenso a una sequenza che rappresenta in un certo senso un punto di svolta, e che sorprende lo spettatore invitandolo a prendere una posizione attiva di fronte al film: parlo della scena del fiume in cui compare l’attore. All’inizio parla in cinese, poi in spagnolo, sembra una sorta di deus ex machina che offre ai personaggi delle nuove parole e nuovi strumenti per dare una svolta alle proprie vite e intraprendere nuovi percorsi…
NW: Certamente, nel corso del film Xiaobin va conquistando nuovi strumenti linguistici. All’inizio non parla spagnolo, e il film è girato in maniera molto semplice per accompagnare questa condizione. Tutte le scene si risolvono in maniera immediata, il dialogo è pressoché assente, il montaggio ridotto all’osso, le situazioni schematiche. Corrisponde un po’ a quello che mi raccontava della sua esperienza: aveva gli strumenti per comprendere ciò che accadeva intorno a lei, ma allo stesso tempo si dimenticava ogni cosa nuova che imparava. Non aveva una memoria a breve termine. Se pensiamo che parte della nostra identità risiede nella nostra lingua materna, una volta che la perdi trasferendoti in un altro paese entri in una specie di limbo, e hai bisogno di ridefinire la tua identità. Nel corso del film, grazie alle lezioni di spagnolo, Xiaobin comincia a conquistare gli strumenti basilari e da lì in poi le sue possibilità crescono, così come le possibilità del film: la trama, la messa in scena prendono una nuova dimensione, una nuova durata, un maggiore sviluppo: si ricorre ai campi e controcampi della finzione, ai raccordi, a diversi livelli del suono. Il tentativo era proprio questo, abbiamo preso il rischio di cominciare con un dato linguaggio, più semplice e povero, per poi svilupparlo nel corso del film, e sono molto contenta che si noti questa evoluzione. La scena del fiume, in cui compare l’attore, è in realtà il risultato del processo di apprendimento delle lezioni di spagnolo. Cosa sono i corsi di lingua straniera? Sono molto simili ai corsi di recitazione, o alla pratica abituale di un attore: quest’ultimo riceve un testo, interpreta per esempio il ruolo di Amleto, e in vista della prima non deve solamente imparare a memoria il copione, ma trovare, grazie al lavoro del regista o attraverso la propria tecnica, una maniera, un senso nell’essere Amleto. Per gli attori è una pratica comune: mettersi in gioco, convincersi, e ogni volta superare la propria paura sottomettendosi all’ignoto. Una persona che comincia a vivere la propria vita in un’altra lingua fa la stessa cosa. In qualche modo, per non deprimersi o per non rimanere intrappolati in una sorta di buco nero, bisogna cominciare a mettersi in gioco, convincere se stessi del nuovo testo e del nuovo ruolo da interpretare. L’ingresso dell’attore nella scena del fiume porta avanti questo parallelismo tra le lezioni di lingua e di recitazione, elevandolo, sottolineandolo. Non mentirò su questo: nel film tutti interpretano se stessi, e così anche l’attore, che è un amico argentino, interpreta se stesso in quanto attore di professione. Ho avuto lì l’idea del pianto, che è un concetto tipico della recitazione amateur: io stessa, che ho una visione molto basilare sulla recitazione perché non ho mai imparato a fare l’attrice, vedevo nel pianto un motivo di ulteriore sviluppo della narrazione.
FI: Il momento del pianto è anche quello in cui vediamo per la prima volta i personaggi aprirsi e svelare la propria sofferenza attraverso un gesto. Non è solo una questione di linguaggio, ma anche di gesti…
NW: Sì, infatti credo che buona parte dell’apprendimento linguistico risieda nella gestualità. Per questo in una delle scene del futuro ipotetico, quando Xiaobin immagina di scoprire che il suo fidanzato ha un’altra donna, piange a dirotto, ma non sappiamo se pianga per davvero o se stia fingendo. Xiaobin usa la gente conosciuta nella vita reale per immaginare il proprio futuro. All’inizio del film, per esempio, osserva gli argentini al supermercato e vede una donna piangere. Così quando anche lei piange, allo stesso tempo sta recitando il proprio futuro, ossia una finzione. Mi divertiva l’idea di creare questa specie di confusione sulla gestualità, tra realtà e fiction. Credo che in un film si debba abbattere questa distinzione per tornare a un’idea originaria, in cui non c’erano finzione e documentario ma unicamente il cinema.
FI: A proposito della distinzione documentario/finzione, il film compete a Carbonia nella sezione dedicata alla fiction, ma la settimana successiva parteciperà in un festival dedicato ai documentari (Jihlava). Di fronte a questa differenza, tu parli piuttosto di “cinema delle idee”: cosa significa?
NW: È qualcosa che ho cominciato a pensare poco tempo dopo aver terminato il film. Mi sono resa conto di aver portato avanti un processo particolare: partire da una necessità personale, filmare la sensazione di essere straniera, per arrivare a un concetto, l’idea che cominciare a vivere parlando un’altra lingua sia come interpretare un nuovo ruolo. Partendo da questo concetto abbiamo costruito il film. È una maniera di seguire un pensiero, e da lì abbiamo usato il cinema e le sue forme di rappresentazione per vedere fino a che punto si può arrivare scommettendo su quest’idea. Nel cinema apparentemente puoi fare qualsiasi cosa una volta riuscito a costruire un sistema chiuso. Allo stesso modo però puoi provare a rompere questo sistema, creando un nuovo senso. Quest’aspetto mi affascina tantissimo perché significa che si può provare a flettere la realtà, estenderla, così come allo stesso tempo si possono estendere le proprie idee, la propria mente. Credo che sia una pratica simile a quella dei filosofi, la filosofia è un qualcosa che va al di là della questione realtà/finzione, è qualcosa che ha a che fare con la flessibilità delle idee, che successivamente possono fare una sorta di eco sulla realtà. Mi affascina ad esempio il cinema di Kiarostami, che a mio modo di vedere opera in questo senso. Un’opera che mi ha ispirato mentre sviluppavo il film è il romanzo L’infanzia di Gesù, di J.M. Coetzee. Racconta l’arrivo di un bambino in un nuovo paese, con molti altri rifugiati e immigranti provenienti da non si sa bene dove perché tutti hanno perso la memoria. Tutti devono cominciare da zero e imparare la nuova lingua. All’inizio il mondo è molto rudimentale e va costruendosi lentamente, tutte le necessità sono essenziali e la lingua è così ridotta da limitare le possibilità dei personaggi al dormire, mangiare, bere, svolgere qualche lavoro basilare e imparare a comunicare con gli altri. Da lì in poi, lentamente, cominciamo a scoprire l’amore, le relazioni con gli altri, cose più complesse. È quello che ho cercato di fare con il mio film, volevo che tutti gli spazi corrispondessero a bisogni essenziali (casa, supermercato, ristorante, scuola…), senza luoghi specifici. Ho provato tra l’altro ad evitare tutta la parte pittoresca di Buenos Aires, il tango e il calcio: la cosa importante era raccontare la storia di una ragazza cinese che arriva in città, e poteva essere qualsiasi città del mondo, perché la città è sinonimo di possibilità. Il film, pur essendo girato in un quartiere specifico di Buenos Aires, lascia la città in una sorta di anonimato. Volevo che gli spazi fossero essenziali, e con le nostre risorse cercavamo di trovare spazi più asettici possibile, che avessero solamente gli elementi necessari a caratterizzarlo: più che uno spazio, l’idea di uno spazio. Ritornare a un’idea essenziale del mondo, perché è lì che si gioca l’esperienza del migrante.
FI: Il linguaggio è una maniera di perseguire le idee, per definirle: sembra che Xiaobin consegua nuovi strumenti man mano che va imparando la nuova lingua, ma in questo movimento le idee rimangono sempre più in là. Alla fine in linguaggio non può che essere un qualcosa di limitato.
NW: Sì, è un po’ quello che diceva Wittgenstein: possiamo pensare qualcosa solo nel momento in cui il linguaggio ci permette di farlo. Il linguaggio limita ciò che possiamo fare e pensare. Ma non deve sembrare un ostacolo insormontabile alla nascita di nuove idee. Con lo sceneggiatore infatti cercavamo sempre di fare in modo che il personaggio uscisse vincitore da ogni scena, affermando di volta in volta la propria voce. È una caratterista propria della “vera” Xiaobin: una forza di volontà incredibile, la capacità di avvantaggiarsi in qualunque situazione senza lamentarsi o rattristarsi. È un grandissimo dono.
(intervista realizzata nel corso del Carbonia Film Festival, ottobre 2016)