Già autore del lungometraggio Volcano (2011), inedito in Italia, e di svariati cortometraggi tra cui occorre citare almeno The last farm (2004), nominato all’Oscar con un notevole successo mondiale, il quarantenne Rúnar Rúnarsson ha sempre legato i propri lavori alle atmosfere della natia Islanda, ritraendo l’indole solitaria e esclusiva della comunità che la abita. Anche Passeri, suo ultimo film, non fa eccezione, immergendoci nella natura dell’isola nordica attraverso lo sguardo dello studente sedicenne Ari. Sua madre, separata dal marito, deve lasciare l’Islanda con il nuovo compagno per andare a lavorare in Uganda, e al giovane tocca abbandonare la capitale Reykjavik per fare ritorno dal padre e dalla nonna, nel paese a nord-ovest dell’isola dove ha trascorso la sua infanzia.
Nel raccontare il ritorno più che difficile del ragazzo e la sua nuova vita, Rúnarsson realizza un film delicato e allo contempo traumatico. Non senza ragione lo stesso regista afferma, parlando del proprio lavoro: “Nel mio film ci sono uno o due eventi che possono essere scioccanti, la mia intenzione non è quella di impressionare gratuitamente ma di far provare la bellezza che ne segue”. Questa dimensione dialettica tra shock e delicatezza sta alla base dello spirito dell’opera, quella ricerca di una verità superiore troppo spesso offuscata dall’ormai abusata “etichetta” del racconto di formazione, dove sempre più facilmente la costruzione degli eventi non è che un piatto affastellamento cronologico di fatti. Attento al contrario a esplorare la profondità, il sentire sensibile del giovane ragazzo, il film non risparmia la descrizione dei suoi sentimenti delle aporie dell’adolescenza e dalla loro crudeltà, e proprio attraverso questi inevitabili aspetti perturbanti conduce il suo percorso verso la consapevolezza e la verità dell’età adulta.
Nonostante la linearità minimalista e l’apparente semplicità di una scarna messinscena, le questioni messe in discussione da Rúnarsson sono molteplici. Uno degli elementi da cui partire potrebbe essere la dialettica tra la figura della madre e quella del padre. Lei cosmopolita, interessata pare più ai problemi dell’Africa che all’adolescenza del figlio; lui freddo e apparentemente insensibile abitante del Nord, isolato e straniato nella continua luce invernale dell’estate islandese, anch’essa in paradossale antitesi col clima equatoriale ugandese. È all’interno di questa separazione che si gioca la crescita del giovane Ari. Le primissime inquadrature della chiesa di Reykjavik, della casa durante il trasloco e del saluto alla madre in aeroporto, segnate da un eccessivo rigore geometrico, da un’insistente staticità, tratteggiano una realtà artificiosa, individualista (si veda Ari, che a differenza di ciò che accadrà col padre, appare costantemente alienato con le cuffie alle orecchie), una gabbia ideologica plasmante le esistenze, priva di reali contraddizioni. Queste ultime invece emergono all’uscita del tunnel (di nuova costruzione, inesistente quindi durante l’infanzia di Ari) che porta, quasi non fosse una scorciatoia ma una sorta di passaggio mitico attraverso le Colonne d’Ercole della sua esistenza, in quel mondo nuovo, affascinante, ma complesso e insormontabile (come la montagna che attraversa) della maturità.
La comunità che lo attende non è affatto accogliente, eccezion fatta per la nonna e la giovanissima Lara, l’unica dei vecchi amici a riconoscerlo. Ben presto anche queste due ancore risulteranno inefficaci, in una realtà dove Ari cade in balia degli eventi, del padre, degli amici, dei colleghi di lavoro. La sua adolescenza è ancora caratterizzata da estrema passività, gli accadimenti lo controllano e l’unica sua forma di reazione è una sorta di migrazione passiva nel tempo: tornare nella vecchia casa della sua infanzia (ora in vendita) e telefonare alla madre.
La crudezza di quel mondo non tarda a manifestarsi, a partire dal rito dell’iniziazione sessuale, accettato passivamente da Ari in un inatteso rapporto con l’adulta amica del padre. Rúnarsson indugia, in questa sequenza, sulle riprese strette dei volti dei protagonisti, sull’impercettibilità dei loro micromovimenti. La ripresa si fa più larga solamente grazie allo specchio posto dietro ai loro corpi, a sottolinearne l’esigenza di filtrare ulteriormente l’intimità e lo stravolgimento interiore del ragazzo, lasciato poi solo (come lo spettatore) davanti al proprio riflesso. La dimensione di questa crudeltà “vitale” della nuova comunità, in cui Ari continua a muoversi in modo goffo e impacciato, si ritrova anche nel rapporto esclusivamente mascolino tra padre e figlio, ottimamente sintetizzato dalla scena della caccia in mare, condotta col fucile, anch’essa rito iniziatico affascinante ma spietato. Riemerge l’ironica contraddizione rispetto a quanto lasciato: il nuovo compagno della madre si dichiarava vegetariano (oltre che essere uno straniero incapace di interagire linguisticamente in modo corretto), ottimo esempio della figura aderente alla cultura dominante, al di fuori della comunità.
Il secondo momento riguarda la strepitosa scena finale, che sancisce definitivamente la maturità del ragazzo. Sempre restìo a farsi coinvolgere dai sentimenti per la giovane Lara, ma passivamente disponibile ad assumere la chetamina, Ari si guarderà intensamente ancora una volta allo specchio prima di perdere i sensi. Senza troppo rivelare, basti segnalare il ribaltamento che si verifica in questa scena tanto pregevole quanto dilatata nel tempo, circa otto minuti. La capacità di rendersi finalmente risoluto in una scelta importante: è in questo che risiede la verità che rende sopportabile il compromesso con la menzogna che la accompagna.
Capace di squarci folgoranti, anche di pochissimi secondi, come nell’immagine tragica e insieme pornografica dei ragazzi che abusano della ragazza drogata, Passeri non si ferma alla superficie che la rappresentazione porta con sé, ma raggiunge la tremenda, improvvisa e definitiva presa di coscienza che lo spettatore può carpire, e fare propria, attraverso gli occhi del protagonista.
Ari, sulla strada della responsabilità matura, può quindi finalmente tornare fra le braccia del padre, certamente un uomo sofferente, forse addirittura un fallito (come dallo stesso figlio precedentemente apostrofato), ma al contempo un uomo fedele alla bellezza delle proprie radici e che, come i passeri del titolo, non migrerà mai.