In un cinema che sfugge alle maglie della produzione e del mercato (sia esso quello più massificato dell’industria o quello sofisticato – ma altrettanto omologante – dei lab legati ai festival), è ancora possibile incappare in piccole opere che abbiano il coraggio di andare al cuore del linguaggio cinematografico, estremizzandone alcune espressioni e facendo intuire nuovi percorsi ancora da esplorare. La sezione Onde del Torino Film Festival assolve pienamente a questo compito, raccogliendo ogni anno una serie di film – anteprime assolute o solo italiane poco importa – capaci di tracciare una nuova geografia dell’arte cinematografica, che ancora oggi si rinnova in campi diversi (dalla finzione al documentario, passando per opere più puramente metariflessive).
Così anche in tempi in cui a dominare la scena non è certamente un cinema di “relazioni” (che dapprima si era rifugiato nel documentario, e ora sembra del tutto scomparso), frequentando assiduamente le proiezioni serali di Onde riscopriamo il piacere di seguire giovani autori che ancora si interrogano sul racconto dell’amore e, inevitabilmente, sul rapporto tra chi narra queste storie e i corpi grazie ai quali esse prendono vita.
Esemplare in questa scelta è uno dei più acuti e poetici autori della scena francese, Damien Manivel, già vincitore di Cineasti del presente a Locarno con Une jeune poète, racconto di una giornata di vagabondaggi vissuta alla ricerca di una sognata ispirazione artistica. Dopo il successo festivaliero del primo lungometraggio, Manivel stupisce nel restare ancorato a una dimensione “casalinga” di cinema, lontana da tante opere seconde di suoi coetanei incapaci di tenere testa alle proprie ambizioni e alle sirene di un certo tipo di film d’autore (ancora – fortunatamente, dobbiamo dirlo – diffuso Oltralpe). Le Parc è interamente ambientato nel parco del titolo, un luogo qualunque in cui si danno appuntamento due ragazzini (il primo appuntamento, e su questa unica scelta peculiare ruota tutto l’asse del film): i due adolescenti non hanno nulla di particolare, le loro storie familiari – che emergono a tratti nella conversazione – sono comuni a tanti, i loro volti risplendono di un’età acerba, sospesi tra le rotondità dei bambini e le spigolosità degli adulti. Al regista sembra servire ben poco per rendere speciale questa passeggiata, in cui a dominare è puramente il desiderio, quello più apparente del ragazzo, quello più schivo ma forse più radicato di lei, in un inseguirsi di occhiate e passi falsi che costruiscono una danza elegante e sinuosa dei due corpi, nascosti e svelati nel rigoglio della vegetazione.
Eppure, colpo da maestro, nel momento più alto, quando dopo il bacio avviene la separazione, qualcosa inizia a incrinarsi in questo balletto di prefigurazioni e speranze: lasciata sola nella radura, mentre la luce del sole si affievolisce, la ragazzina non riesce a trattenersi dall’inviare un messaggio. Sul suo primo piano, nel succedersi di una comunicazione stentata ma puntuale, ci viene restituita un’altra immagine del ragazzo protagonista: il sentimento a cui abbiamo voluto credere si dissolve nell’arco di un tempo che diventa puro cinema. Il tramonto di un sogno, il declino di un ritratto ideale, l’inconsistenza del primo amore: quanti film hanno cercato di cogliere questo momento? Eppure Manivel riesce a passare a una dimensione superiore, scegliendo di mostrare un sentimento incarnato, in un volto e in un corpo, per poi svelarci la sua dissoluzione attraverso la mediazione di una comunicazione scritta, a cui manca ogni possibile sfumatura data dalla presenza fisica dell’altro. La commedia romantica racchiusa in quadri che coniugano perfettamente la figura umana nel paesaggio (raccogliendo la regia umanista di Rohmer), lascia spazio a uno squarcio di reale: lo scorrere del tempo sul volto della protagonista, il suo offrirsi nella sua mutevole fragilità, riconnette lo spettatore con una dimensione intima e delicata, troppo trascurata dal cinema contemporaneo. L’amore 2.0 diventa ancora più assoluto e bruciante, tanto che non si può più credere alla favola finale (rêverie cinefila in cui si naviga su un fiume notturno che rimanda a La morte corre sul fiume di Laughton), cura dello spirito, per ritornare intatti a quel sogno riassunto nello sbocciare di un bacio.
Apparentemente opposto è l’altro bel film della sezione, Muito romântico di Melissa Dullius e Gustavo Jahn, registi brasiliani che avevano già frequentato il festival con i loro corti Triangûlum (2008) e In the Traveler’s Heart (2013). Il loro primo lungometraggio si configura sotto le sembianze di un pastiche, molto distante dalla pulizia plastica della regia di Manivel. Il film inizia con un viaggio in cargo, dal Brasile alla Germania, ripreso dall’obbiettivo di una Super8 che i due registi (anche protagonisti del lungometraggio) si scambiano, mantenendo inalterato il gusto per le inquadrature ricercate che esaltano i volumi della nave e la vastità di un orizzonte a cui stanno andando incontro. Le immagini in pellicola, il commento poetico fuori campo, l’introduzione delle loro figure come presenze fantasmatiche, collocano il film in una dimensione tipica del documentario in prima persona. Eppure, a dieci minuti dall’inizio, il tono cambia: il viaggio non era l’obbiettivo, ma solo il colpo d’inizio per dare il via a una vita insieme, vissuta all’insegna del cinema e dell’amore. E questo film, cangiante come sono i lunghi innamoramenti, prova a tradurre l’esperienza di un rapporto amoroso tra i venti e i trent’anni in linguaggio cinematografico. Melissa e Gustavo cambiano, si trasformano, rischiano di allontanarsi, si ritrovano e nel frattempo crescono nella loro passione: e il loro film non ha paura di prendere le forme della commedia romantica, del videoclip, della performance artistica, del cinema che gioca con il passato per intravedere il futuro.
Muito romântico è soprattutto un film che non ha paura di osare, mescolando registri molto distanti, permettendosi di scontentare i puristi del cinema sperimentale come chi cerca la commedia giovanilista, esibendo i suoi difetti e le sue ripetizioni come segno di indipendenza. Andando contro all’idea di un cinema perfetto e anestetizzato, Melissa e Gustavo affondano nel proprio vissuto e riescono a tradurlo in una recita straniata e lunare, che a sua volta – come in un gioco di scatole cinesi – contiene altre vite di altre coppie, legate da un’unica folgorante visione: il disegno di un cerchio nero, che si trasforma in un collegamento tra dimensioni distanti, un flickering disturbante e allucinato che conduce a una nuova percezione dell’altro (e di conseguenza di se stessi). Un primo film che è anche il compimento di un percorso di formazione, e proprio in questo sta il suo più grande pregio: Muito romântico racchiude in sé la precarietà del divenire.