È ancora possibile scrivere su Rohmer e avere la pretesa di dire qualcosa di nuovo? Quanto questa ricerca sconvolgerebbe l’ordine – l’essenza – del suo cinema? Eppure, spesso evitando riferimenti diretti alla sua filmografia, ci s’imbatte in analisi che tentano di inquadrare (o liquidare) l’opera di autori contemporanei con l’aggettivo “rohmeriano”.
Nel 2013 avrebbe avuto luogo addirittura «l’estate di Rohmer», in corrispondenza all’uscita di Frances Ha, Exhibition e Before Midnight [1]. Forse, allora, sarebbe più opportuno parlare di “anno di Rohmer” se alla lista si aggiungessero i due film di Hong Sang-soo (Nobody’s Daughter Haewon, Our Sunhi) e il terzo lungometraggio di Fukada Kōji dal titolo programmatico Au revoir l’été. Ma se queste opere rivelano, più o meno intenzionalmente, affinità con il corpus rohmeriano, è pur vero che pare poco agevole rilevare una certa tendenza e limitarla a una stagione cinematografica; poiché, se tutto è riconducibile a un fenomeno di costume esaminabile in termini sociologici, non sempre i risultati di tali analisi sono chiarificatori.
Essere rohmeriano, infatti, potrebbe al più suggerire un gusto comune per la libertà, la stessa che il regista, protagonista di Like You Know It All (Hong Sang-soo, 2009), reputa la cosa più importante nel proprio lavoro: «L’iper-riduzionismo di un sistema di spiegazione determina sempre un impoverimento del mondo» nonché a una «perdita di libertà» [2]. Occorrerebbe allora inquadrare lo stile di Rohmer che, nel corso della sua lunga carriera, ha sempre provato ad aprirsi alle novità – sia tematiche sia tecnologiche – e alle nuove generazioni, dimostrandosi un cineasta tutt’altro che pleonastico o austero ai limiti dell’anaffettività nei confronti dei propri personaggi. Fin da Il segno del leone (1959), suo primo lungometraggio, si precisa la sua etica professionale che lo spinge ad affrontare argomenti vicini nel tempo e nello spazio ricorrendo quasi esclusivamente a vicende individuali, all’apparenza lontane dall’universale e, dunque, dal pubblico. Persino nei suoi cinque film storici/letterari (La marchesa Von…, Perceval le Gallois, La nobildonna e il duca, Triple Agent, Gli amori di Astrea e Céladon) la Storia autocosciente – quindi prolettica – fa irruzione attraverso le scenografie, i costumi e le vicissitudini dei protagonisti: esemplare, in tal senso, la sequenza de La nobildonna e il duca (2001) in cui lo sgomento di Grace Elliott alla vista della testa della principessa di Lamballe, esibita come un vessillo durante un corteo, proietta lo spettatore negli anni del Terrore, senza che il tumulto lo allontani dall’esperienza della protagonista nonché dal mondo contemporaneo.
Così, in un film costruito attraverso l’animazione digitale di tele dell’epoca entro le quali vengono fatti muovere gli attori, Rohmer prosegue con coerenza il proprio percorso, sfidando le riserve del pubblico e la frettolosità fagocitante della critica, condannata a lambire soltanto la patina più superficiale dell’opera. Commettendo un errore fatale, infatti, il dato immediato, subito presente alla vista, è pressoché dimenticato, messo da parte come un ente del quale si sia compresa la funzione. Ci si dimentica come la piattezza possa esprimere la profondità. Dal punto di vista dello sguardo – rileva Blanchot – «l’essenza dell’immagine è di essere tutta esteriore […] e ciononostante più inaccessibile e misteriosa dell’idea dell’interiorità; di essere senza significato pur evocando la profondità di ogni possibile senso; non rivelata e tuttavia manifesta» [3].
In tal senso, il “rohmerismo” affliggerebbe molti autori francesi accusati – com’è accaduto, ad esempio, ad Arnaud Desplechin – di realizzare un cinema borghese, settario nella propria critica dei costumi perché imbolsito da interminabili dialoghi intello che precluderebbero la partecipazione di spettatori avulsi dal milieu che si finge di attaccare.
L’austerità verbosa e l’algida compostezza si ergono come totem minacciosi solo negli occhi precipitosi, poiché esse non chiedono che di essere stropicciate e ri-mediate: «I film ti insegnano a vivere, come rifare il letto», afferma Alexandre in La maman et la putain. Bisogna però concedere ai film la possibilità di parlare, praticando «l’arte di “lasciar essere” i fenomeni», così da garantire «la “salute” della spiegazione» [4] e, al contempo, la loro libertà. Attraverso un’analisi a posteriori è possibile ricondurre gli intrecci a uno schema logico ben determinato: essi offrono una dimostrazione dell’assioma teorico di Rohmer che, con la leggiadria di un compositore forbito, imbastisce molteplici variazioni su un tema – o finanche su un tono – che lasciano ampio spazio alla polimorfia. Nascono così delle opere inafferrabili nella loro unicità, taglienti come il barattolo di vernice tempestato di lame de La collezionista (1967): «Chi si rifiuta di guardare dentro di sé è un lercio conformista che rifiuta la realtà delle cose. Chi scava dentro di sé deve avere le armi per difendersi da verità che possono ferire. […] Il pensiero [è] circondato da… lamette per barba. Il che significa una realtà che esiste in quanto esiste il suo contrario, il nulla; che in questo caso è espresso da lame affilatissime».
Si riscopra, all’opposto, la lezione rohmeriana nel continuum filmico sviluppato tramite la collisione di esprit de géométrie ed esprit de finesse che raggiungono un’armonia disforica negli interventi delle voci fuori campo e, a un livello più generale, nell’articolazione della filmografia – nella quale si distinguono Racconti morali, Commedie e proverbi, Racconti delle quattro stagioni e produzioni intervallate spesso in bilico tra adattamento letterario ed heritage film – da cui traspare, sin dai titoli, un “brio acronico” incuneato tra plaisir e jouissance, tra euforia acculturata e contro-la-cultura. Gli interventi delle voci fuori campo risaltano – come nel caso de La mia notte con Maud (1969) per la loro pressoché totale assenza – sull’intera costruzione (filmica e mentale/intradiegetica) in quanto espressione di una volontà di eludere l’ordinarietà del reale, abbandonandosi all’imprevisto, al guizzo vitale ineluttabilmente transeunte che si vorrebbe in qualche modo irreggimentare.
L’hasard per eccellenza mostra la propria carica misteriosa tramite gli incontri, fortuiti o programmati, ai quali può corrispondere una breccia affrancante, fuori quadro [5], che dovrà tuttavia reinserirsi fra le trame del reale: un po’ come accade nelle sequenze oniriche di Hong Sang-soo, introdotte senza alcuna marca di enunciazione – e perciò apparenti propaggini della realtà – che, al loro termine, esibiscono la loro qualità depistante. Il desiderio non può che esprimersi ricorrendo al linguaggio, solo garante della rêverie più dolce e dolente, destinata a svanire in un istante che, paradossalmente, converge col momento dell’azione che dovrebbe condurre al piacere, ma di rado all’altezza delle aspettative dei personaggi. Linguaggio e desiderio permettono l’estrinsecazione di progetti irrealizzati e, dunque, sperimentano sia lo scacco sia l’inebriante promessa della possibilità, abbracciata, perlomeno dal cineasta, con la piena consapevolezza della minaccia del nulla a essa sottesa. Ad ogni modo, quando la catastrofe sembra vicina o già avvenuta in un altrove rispetto alla giurisdizione mentale del protagonista, un equilibrio è ancora possibile.
Da qui la magia del cinema di Rohmer che scaturisce sempre – eccezion fatta per L’amore il pomeriggio (1972), dove fa irruzione un talismano – dall’aderenza alla realtà, cui il cineasta rifiuta di voltare le spalle. Nel caso dei Racconti morali, lo stesso Rohmer dichiara di non avere avuto «l’intenzione di filmare degli avvenimenti allo stato puro, bensì il racconto che qualcuno faceva su di essi», difatti «una ragione per cui questi racconti si dicono “morali” è che essi sono quasi del tutto privi di azioni fisiche: avviene tutto nella testa del narratore» [6]. Nei Sei racconti morali prevale il discorso indiretto libero che costruisce una cornice sfaccettata ove i pensieri di narratore e personaggi possono sovrapporsi lasciando poi all’ironia rohmeriana di soffermarsi sui corpi recalcitranti, cui “appartengono” viceversa le parole creatrici, intensificando l’imprevedibilità del testo filmico. Ma, anche in opere appartenenti ai cicli successivi, capita che le scelte dei protagonisti accadano semplicemente, come se non avesse avuto luogo un’evoluzione interiore: parole e azioni costruiscono mondi separati: il primo circoscrivibile entro uno spazio-tempo ben scandito – il «giudizio sintetico a priori» di cui avrebbe bisogno Jeanne nel Racconto di primavera (1990) – nel suo taglio diaristico; il secondo, traslucido, emerge a brandelli prelevati dal diario interiore.
Se è vero che il realismo sartriano ha dei limiti, al movimento dello sguardo – del corpo –, portatore di eccedenza e quindi desideroso di oltrepassare le percezioni consuete, segue un ritorno alla ragione attraverso un gesto inconsulto, rapidissimo, all’apparenza antitetico a essa. La realtà promette di permeare ogni azione, dalla quale si lascerebbe anche deformare e, allo stesso modo, orna i pensieri, le aspirazioni e persino gli pseudo-complotti rivettiani de La moglie dell’aviatore (1980).
«Quale mente non divaga? Chi non fa castelli in aria?», è il proverbio in esergo a Il bel matrimonio (1982), e il messaggio sembra chiaro: per quanto puro sfilacciamento, frutto di un’esistenza immaginata, il matrimonio che non sarà celebrato appartiene, di fatto, sia alla quotidianità di Sabine sia al reale filmico. Entrambi i registri sono sottoposti a un regime di «affabulazione realizzante» [7], necessario alla psiche della protagonista e all’esistenza del più mondano meccanismo cinematografico. Afferma Nishida che «intuizione [attiva] è cogliere gli oggetti come corpo»: dunque l’increspatura interiore e soggettiva è anch’essa creante, «percezione storica» [8]. Allo stesso modo, per Rohmer è possibile realizzare un film solido come L’albero, il sindaco e la mediateca (1993) pur reggendosi su una concatenazione di ‘se’.
Non è un caso, allora, che il cinema di Rohmer abbia trovato terreno fertile in Estremo Oriente, tradizionalmente attento al nulla dei movimenti della vita: «Ciò che si può esprimere a parole è il grosso delle cose; ciò che si può raggiungere con le idee è il sottile delle cose. Tutto ciò che non si può né esprimere a parole né raggiungere con le idee è al di là sia del sottile sia del grosso» [9], sostiene Zhuang-zi. Non sarà più così azzardato rintracciare una consonanza di pensiero con il Rohmer de Il raggio verde (1986) in cui la logorrea di Delphine si arresta durante i ritrovamenti delle carte – accompagnati dal medesimo inserto musicale – e nella sequenza finale; e, ancora, nei momenti di solitudine l’inquadratura si riempie del verde della vegetazione sferzata dal vento: la poetica del Kore-eda di Maborosi (1995) non è poi così distante.
Il vuoto (in quanto concetto diacronico ed estetico) è in relazione costante con il corpo, poiché attraverso il nulla si rappresenta l’irrappresentabile e attraverso il senza-forma si giunge all’assenza di trasformazione. Le figure comportano la congiunzione di presenza e assenza, piacere e dispiacere, senso letterale e carnale. Noah Baumbach, difatti, esalta la perizia di Rohmer, il quale riesce quasi a far credere di «non stare facendo nulla», come un maestro taoista che pratichi il wu wei, l’azione del vuoto dal quale si realizza ogni pieno, l’equilibrio perfetto raggiungibile soltanto attraverso la riduzione drastica dell’intervento; o, come accade in Reinette e Mirabelle (1987) attraverso l’indeterminazione implicita nel silenzio, con il quale si conclude sia il primo segmento, all’arrivo dell’ora blu, sia l’ultimo, in cui l’apparente mutezza di Reinette ricompone l’ordine tra urbano e campestre, arte e natura, etica e morale. Così l’equilibrio di ogni suo film pare intonso, come un libro letto con ardore ma il cui dorso non reca alcun segno di usura: «che dal successo o dall’insuccesso non nasca nessuna conseguenza disastrosa, di questo è capace solo il saggio» [10].
Difficile concordare con chi sostiene che la sua ultima opera, Gli amori di Astrea e Céladon (2007), sancisca il definitivo distacco da una gioventù che non riesce più a raccontare e giustifichi l’ineluttabile ripiego sulla rilettura di un testo antico, quando invece la sequenza finale disvela un erotismo trionfale dal tratteggio quasi queer. Come intendere (e attendere) allora un “revival rohmeriano” se, in un universo cinematografico che si vorrebbe distinguere in aderente o meno al reale, la sua presenza, senza età e indiscutibile come le montagne, non è mai stata così necessaria?
[1] https://www.theguardian.com/film/2013/aug/29/eric-rohmer-influence-before-midnight, consultato il 14 dicembre 2016.
[2] J. Needleman, Critical introduction to existential psychoanalysis of Ludwig Binswanger, in U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 349.
[3] M. Blanchot in R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 2003, p. 106.
[4] J. Needleman, op. cit., p. 349.
[5] Si pensi a Incontri a Parigi (1995) in cui agli eventi presentati ne corrispondono altrettanti – tenuti però fuori campo – d’importanza analoga per l’esito delle vicende.
[6] É. Rohmer, La mia notte con Maud: Sei racconti morali, S. Toffetti (a cura di), Einaudi, Torino 1988, p. 10.
[7] M. Vidal, Les contes moraux d’Éric Rohmer, Lherminier, Parigi 1977, p. 127.
[8] K. Nishida, Il corpo e la conoscenza: L’intuizione attiva e l’eredità di Cartesio, M. Cestari (a cura di), Cafoscarina, Venezia 2001, pp. 38-44.
[9] Kia-Hwai Liou (a cura di), Zhuang-zi, Adelphi, Milano 2013, p. 146.
[10] Ivi, p. 41.