In un’annata che passerà alla storia come una delle più irrilevanti dal punto di vista della produzione cinematografica mainstream americana, le tv via cavo hanno assestato un altro colpo letale a Hollywood, segnando un ulteriore scarto in avanti per quantità e qualità dei prodotti. Lasciando da parte i returning show che hanno confermato o persino innalzato un livello già molto alto (la sesta stagione di Game of Thrones, la quarta di The Americans, la quinta di Girls, la terza di Transparent…), basterebbe un excursus nemmeno troppo approfondito tra le novità proposte dai vari canali per dare un’idea dell’abisso che sta conducendo sempre più spettatori (e non solo i giovanissimi) dal grande al piccolo schermo. Fermo restando che il buon cinema lo si continua a vedere, ma altrove, e che le modalità di racconto e messa in scena che caratterizzano i due formati solo raramente sono comparabili (ne abbiamo ampiamente scritto qui), è innegabile che solo per snobismo, pigrizia o partito preso si può restare indifferenti di fronte all’offerta del panorama seriale di questi anni.
The Night of (HBO)
Ci ha messo poco, HBO, a trovare un degno erede per Show Me a Hero (2015): fin dal pilot, eccezionalmente teso, The Night of si configura come una delle produzioni televisive più incisive degli ultimi tempi, seppur nata come rielaborazione della prima stagione dell’inglese Criminal Justice (2008). Lo scenario si sposta al Queens di New York, dove lo studente universitario Nasir “Naz” Khan, figlio di pakistani, si impossessa del taxi del padre per raggiungere una festa a Manhattan. Lungo il percorso rifiuta le richieste di passaggio da parte di svariati avventori ma non sa resistere alle grazie di una bella fanciulla, materializzatasi come un fantasma sul sedile posteriore. È l’inizio di una notte sulla quale è d’obbligo sospendere qualunque informazione ulteriore, come da titolo. Una lunga notte della ragione al termine la quale il mistero si fa sempre più fitto, in una spirale di dubbio che allontana progressivamente da ogni possibile svelamento. Ad affiorare è la lenta e inesorabile trasformazione del protagonista, un Riz Ahmed dai grandi occhi acquosi, imperscrutabili, specchio ambiguo di un’identità sfuggente. E mentre ci si interroga sul suo essere vittima o carnefice, emerge al suo fianco il memorabile avvocatucolo delle cause perse interpretato da Turturro, devastato dalla psoriasi, che svia il mystery sui territori di una quotidianità gravata da tutt’altro tipo di problemi. Coerentemente, la regia di Steven Zailian (sue sette puntate su otto) decentra l’attenzione elaborando simmetrie visive difformi che relegano i personaggi ai margini dell’inquadratura (si veda il bel videosaggio analitico di Zachery Ramos-Taylor), in maniera molto più rigorosa di quanto non abbia fatto Mr. Robot con il suo fin troppo programmatico tentativo di fornire un corrispettivo visuale all’incertezza cognitiva del suo protagonista. Per compattezza formale, rigore narrativo e finezza psicologica, The Night of risalta sul resto della produzione seriale del 2016, e buona parte del merito va alla penna affilata di Richard Price, romanziere di culto grazie a The Wanderers (1974), Clockers (1992) e Lush Life (2006), già sceneggiatore per Scorsese (Il colore dei soldi) prima di approdare in TV alle vette di The Wire. A lui si deve l’inesorabile progressione dai tempi perfetti di un noir asciutto e spiazzante che giostra abilmente tra police procedural, legal e prison drama. Ecco dove la televisione sta dando i punti a un cinema americano sempre più incapace di rinnovare i generi e affrontare i meandri oscuri del vivere sociale, e dove The Night of, così come aveva fatto Show Me a Hero, ci ricorda in che modo si può parlare di politica, di giustizia, di integrazione razziale, senza facili manicheismi o scorciatoie narrative, alla stessa maniera in cui un tempo a farlo erano i Coppola, i Pollack, i Penn o i Pakula all’ombra del Watergate. Finché il cinema americano non ritroverà l’ambizione e il coraggio di farsi specchio critico dei tempi, la televisione sarà la nuova Hollywood. [Alessandro Stellino]
Atlanta (FX)
Appuntate su un taccuino, cartaceo o virtuale, il nome di Donald Glover (e quello del suo pseudonimo musicale Childish Gambino): il 2016 è stato l’anno della definitiva affermazione del talento di questo attore\musicista\scrittore americano e c’è da scommettere che nel 2017 il suo estro multiforme arriverà a un pubblico ancora più ampio, complice l’imminente exposure globale legata al coinvolgimento nel capitolo della saga di Star Wars dedicato a Han Solo nei panni del giovane Lando Calrissian e alla performance in qualità di doppiatore dell’imminente versione live action di The Lion King ad opera di John Favreau. Atlanta, comedy-drama creata, scritta e interpretata da Glover, è un progetto che questo trentenne nato in una base militare in California aveva in cantiere da tempo e che è arrivato sugli schermi americani con un tempismo fra il comico e il drammatico nell’anno della fine del sogno dell’era Obama e dell’esplosione della blackness, fra Police Brutality e il movimento Black Lives Matter. Le disavventure di Earn, thirtysomething di Atlanta ritornato alla città natia dopo aver abbandonato l’università di Princeton, raccontano con humor e amarezza l’odissea di un’anima black persa fra un universo di affetti precario ma profondo e il bislacco desiderio di riscatto che prende la forma di un improbabile carriera da rapper del cugino pusher Paper Boy. Con una regia asciutta ma piena di invenzioni, una tessitura musicale straordinaria e una qualità della scrittura che alterna senza soluzione di continuità introspezione e satira, Glover ha portato sullo schermo in modo originalissimo sogni, aspirazioni, cazzeggi e amarezze di un’intera generazione di ragazzi neri che nel 2017 si trovano ad affrontare come in dormiveglia il pitch black dell’America dell’era Trump. [Francesco Giai Via]
The Crown (Netflix)
I reali inglesi sono una garanzia per il grande e piccolo schermo, quindi non stupisce la scelta di puntare sull’ascesa al trono di Regina Elisabetta per confezionare una serie ad altissimo budget (100.000 sterline). Prevedibilmente, The Crown doveva raccogliere consenso diffuso e presentarsi come un prodotto capace di mescolare l’andamento narrativo proprio della serialità (con temi e personaggi dominanti a ogni episodio) alla spettacolarità del cinema (ricostruzione storica impeccabile, esemplari scene di massa nelle ex-colonie, costumi che già fanno presagire il trionfo glamour di Margaret nelle prossime stagioni). Già così sarebbe stato un ottimo risultato, ma dietro alla confezione “regale” di The Crown sta un’idea più raffinata di storytelling: Elisabetta (interpretata con la giusta dose di compassatezza da Claire Foy) detiene una tradizione del potere al femminile ma è anche intrappolata nel proprio tempo. Alla morte di re Giorgio, è soprattutto una figlia (educata ma ben poco istruita), una moglie e una madre e, a differenza della sorella minore, in lei la funzione della “cura dell’altro” è molto marcata, sia nel rapporto con il marito Filippo sia in quello con i suoi familiari: proprio questa energia, così tipicamente legata al femminile, sarà la fonte di un riorientamento delle dinamiche di potere, a iniziare dal rapporto con il magnifico Churchill interpretato da John Lithgow, cui sono dedicati i migliori episodi della stagione. Solo all’apparenza un’elegante riproposizione della vita privata della famiglia Windsor, a una lettura più attenta la serie si delinea come un’analisi sottile della rivoluzione silenziosa portata avanti dalla sovranità al femminile. [Daniela Persico]
Easy (Netflix)
Liquidata talvolta frettolosamente come l’ennesima esplosione del racconto de ”l’amore ai tempi di Netflix” sui nostri Mac prima di andare a dormire, Easy è invece una delle più brillanti esplosioni seriali seminascoste del 2016. Nata dalle più antiche radici del mumblecore – le preferite del regista Joe Swanberg, vera e propria voce leader del genere – la serie, composta da otto puntate autoconclusive da 30 minuti l’una, è un viaggio ironico nelle complessità per nulla “easy” dell’amore, del sesso, della vita di coppia, della relazione del singolo immerso nelle dinamiche amorose e delle dinamiche amorose immerse a loro volta nella società e nell’arte. Il cast è tentacolare e include divi e vere e proprie figure cult del mondo della cultura indie USA: da Orlando Bloom, Emily Ratajkowski e Jake Johnson di New Girl allo stand up comedian e autore Marc Maron che condivide la scena con la divina apparizione su schermo di Chris Ware. Recitazione semi-improvvisata su canovaccio e un’immersione assoluta nella contemporaneità con il coinvolgimento di misure e mezzi che vanno da Tinder alla più violenta e magica esplorazione del rapporto che intercorre tra arte, autofiction e relazioni umane – il solo episodio Art and life vale l’intera seria – fanno di Easy un luminoso specchio rotto che riflette, in frammenti disinibiti, tutto il nostro ragionar d’amore e non amore oggi. [Giulia Cavaliere]
The Girlfriend Experience (Starz)
Tratta dall’omonimo film di Steven Soderbergh con Sasha Grey, la serie creata e diretta da Kerrigane e Seimetz percorre la parabola di Christine (l’ottima Riley Keough), studentessa di legge che si reinventa escort di lusso. Pur senza puntare sullo shock value di tale scelta, la storia presenta la strada della prostituzione come una scalata al successo, diversamente da quanto avviene solitamente al cinema. Si tratta solo all’apparenza di un drama/thriller: la narrazione fa studiatamente implodere ogni potenziale snodo drammaturgico (dall’iniziale rischio di sfruttamento all’impeachment con il principale di Christine nello studio legale dove lavora, passando per il rapporto con la famiglia e lo stalking di clienti pericolosi) al fine di offrire il ritratto di un personaggio esemplare. Come dimostra l’allegorica ambientazione, The Girlfriend Experience è in tutto e per tutto simile ai vetri dei grattacieli di Chicago in cui si svolge la trama: trasparente, perché non ci sono traumi né segreti a motivare le scelte di Christine; gelida e asettica, perché tutto (anche il sesso, abbondante) si basa su una logica di scambio e sul semplice calcolo; affilata e tagliente, perché il disagio che provoca nello spettatore è innegabile. E soprattutto, come il vetro, è riflettente: la high society che vediamo sullo schermo non è che l’apice del mondo capitalista in cui viviamo, le cui pervasive tendenze antisociali sono state introiettate in varia misura anche da chi ne vive ai margini, così che l’inquietante si trasforma in perturbante, ed è proprio questo a fare della serie un prodotto sinistramente coinvolgente. [Elisa Cuter]
Horace & Pete (Louisck.net/Hulu)
Ideata dal comico Louis CK, Horace & Pete si distacca dal classico format seriale televisivo: non solo per la fruizione atipica, che avviene esclusivamente attraverso l’acquisto diretto dal sito dell’autore; ma soprattutto per il contenuto, volto a una rappresentazione cruda e teatrale di vite umane in bilico tra tragicità e comicità. Protagonisti tre fratelli, proprietari di un pub irlandese a Brooklyn, New York, proprietà di famiglia da generazioni: l’assertivo Horace (Louis CK), il sensibile e disturbato Pete (Steve Buscemi), la più decisa Sylvia (Edie Falco). I rapporti interpersonali, fagocitati all’interno del bar, si manifestano in flussi verbali discontinui, garbuglio di metastasi interiori e situazioni sconvenienti che sfociano nei serrati botta e risposta con dialoghi a sfondo politico e sociale nelle opinioni della variegata fauna del locale (dal bigotto Alan Alda nel ruolo del barista Uncle Pete e Jessica Lange, donna navigata ex compagna del padre defunto di Horace, al comico Steven Wright, alcolizzato tipo, e Tom Noonan, attore fallito). Louis CK, noto per i suoi esilaranti standing up, qui ripercorre alcune delle sue tematiche in chiave drammatica, ampliandole e strutturandole su più livelli, come nel caso del difficile rapporto padre-figlia, ripercussione dei crudeli legami famigliari i quali vengono messi in discussione nella loro autenticità e che determinano anche la serenità dei rapporti con gli altri. Menzione speciale per la sigla iniziale composta da Paul Simon: una melodia tenue, ripresa saltuariamente in alcuni stacchi di scena, capace di definire perfettamente l’ambiente. [Carlo Persico]
Love (Netflix)
Lui è Gus, boyscout fuori tempo massimo col sogno del cinema e un impiego da insegnante di giovani star sul set della serie tv Witchita. Lei è Mickey, programmatrice radiofonica con un passato di alcool e droga e una biografia sentimentale indissolubilmente intrecciata a queste dipendenze. Si incontrano per caso, senza particolari convinzioni avviano una relazione fatta di appuntamenti riusciti a metà, sessualità mal conciliata, e quel continuo inseguirsi tra dubbi, paure, cattiverie infantili e grotteschi imprevisti. La serie creata da Judd Apatow, Paul Rust e Lesley Arfin rinuncia fin dal principio a un’esplorazione dell’amore in senso universale, per affidarsi alla contrapposizione schiacciante tra due soggettività comuni, irriducibilmente singolari, evitando di cedere alla trappola dei giudizi o degli stereotipi. Senza padri né figli, persi tra messaggerie istantanee e pigre disillusioni in una Los Angeles ancora intrisa di post-modernità, Gus e Mickey rappresentano soltanto se stessi, lasciando che la loro attrazione si sviluppi proprio dove non immaginano, nel fragilissimo punto di contatto tra le rispettive autoreferenzialità. La regia quasi scolastica di Love sembra arrendersi proprio a questa incapacità di sentire l’altro al di fuori di se stessi, in quel mare di frasi che iniziano con la parola “io”, tra le altrettante accuse che finiscono col tirare in ballo il “tu”. In questa graduale e straniante relazione, riesce ugualmente a instillarsi una domanda di futuro. [Marco Longo]
Luke Cage (Marvel/Netflix)
Se è vero che la costruzione del Marvel Cinematic Universe riflette grossolanamente le “tappe” della sua storia editoriale, non c’è da stupirsi che sia proprio Luke Cage il primo supereroe afroamericano a ottenere un ruolo da protagonista, proprio come accadde nel fumetto di Archie Goodwin e George Tuska (1972). Terzo tassello nel mosaico dei Difensori, la serie Marvel/Netflix risale alle origini del personaggio per celebrarne le radici culturali, che affondano nella blaxploitation e nel funky, ma senza dimenticare il soul e – successivamente – il rap. Ciò che ne risulta è un’interessante commistione tra Bildungsroman, racconto supereroistico ed exploitation, dove Luke Cage accetta progressivamente il suo ruolo di paladino di Harlem: l’eroe combatte una battaglia per l’anima del quartiere newyorkese (finalmente ritratto come un luogo vibrante e in piena rinascita), emblema del riscatto della comunità nera contro il giogo del crimine organizzato e i rigurgiti razzisti delle istituzioni. Non a caso, lo showrunner Cheo Hodari Coker trasfigura i nemici di Cage in veste “realistica”, come rappresentanti del potere corrotto o della violenza mafiosa, pur concedendosi una digressione nella fantascienza per narrare la genesi dell’eroe e le contromisure del suo principale avversario: Diamondback, supervillain imbevuto di fanatismo religioso che pecca di scarso tempismo (Coker, nel tentativo di spiazzare il pubblico, lo introduce troppo tardi), ma s’impone per il suo sorriso luciferino che fa da contraltare alla calma serafica di Luke. [Lorenzo Pedrazzi]
The OA (Netflix)
La serie più criptica del 2016 è anche la più sperimentale, e sarebbe fin troppo semplicistico archiviarla come lo sconclusionato divertissement di due cineasti indipendenti. The OA, terza collaborazione tra Zal Batmanglij e Brit Marling, è in realtà una labirintica riflessione sul potere della parola, attraverso la voce di un narratore inaffidabile che manipola le emozioni del suo uditorio: in tal senso, la serie Netflix instaura un dialogo di rimandi con il primo film della coppia, Sound of My Voice, dove la sci-fi intimista è un velo di Maya dietro cui si cela una verità inafferrabile. Al contempo, la chimera di indagare il sovrasensibile attraverso la scienza accomuna The OA ad altri prodotti della fantascienza indie (come I Origins), ma qui il racconto si dirama in una molteplicità di piani temporali e dimensionali che impediscono una comprensione univoca, scivolando in un misticismo new age ai limiti della sopportazione. Ma il gioco è proprio questo: Marling e Batmanglij elaborano un grande tranello ai danni dello spettatore, lo confondono e lo fanno arrabbiare per poi svelare che, forse, tutta la storia era solo il delirio post-traumatico di una povera vittima. Ovviamente non è la soluzione definitiva, ma solo una possibile chiave di lettura. The OA sfugge a qualunque interpretazione dogmatica, e sperimenta con la serialità (basti pensare che il primo episodio, pur durando 80 minuti, non introduce nemmeno i personaggi principali) per mettere in scena l’ambiguità della narrazione orale e il pericolo autoritario di una voce suadente. [Lorenzo Pedrazzi]
Quarry (Cinemax)
Uscita in sordina e sfuggita anche a tanti appassionati, la serie ideata da Graham Gordy e Michael D. Fuller a partire dal ciclo di romanzi di Max Allan Colins su un reduce del Vietnam marchiato a fuoco dalla violenza della guerra, è tra le più dure degli ultimi anni. Un viaggio all’inferno nell’animo di un uomo che nella giungla asiatica ha perso cognizione di sé – o forse si è scoperto altro da quello che era. L’anno è il 1972: il giovane marine Mac Conway (detto “Quarry”) torna a Memphis, male accolto da una popolazione ostile nei confronti della la militarizzazione del sud-est asiatico e costretto a riconquistarsi gli affetti e le prospettive di una vita già problematica prima della partenza. Niente di nuovo, sul fronte dei temi, ma la spirale di crimini e misfatti che si innesca all’indomani del ritorno a casa del soldato, segnato da troppa brutalità per non farne una ragione di vita, trascina con forza verso un macabro finale che riporta spettatori e protagonista dove tutto è iniziato. Scansando gli abissi demoniaci della prima stagione di True Detective per restare ancorato al realismo pulp di tanto southern noir, Quarry è un blues di morte sullo sfondo di una torrida estate segnata da tensioni razziali mai sopite, ben girato da Greg Yaitanes e ottimamente interpretato da Logan Marshall-Green, con il suo carico di dolore inarticolato destinato a trovare sfogo nella peggiore delle maniere. E a poco serve la vicinanza di una donna che, pur avendolo tradito in passato, è disposta a condividere con lui un’impervia e sanguinosa via per la redenzione. [Alessandro Stellino]
Stranger Things (Netflix)
Non si tratta di sondare, sul filo della nostalgia, l’evidente operazione di recupero degli anni Ottanta, stagione su cui questa inattesa trovata seriale affonda le proprie radici: sia pure ingenua o ludicamente citazionista (dentro si rincorrono gli omaggi a Spielberg, Carpenter, Dante, oltre che ai romanzi di Stephen King), la creazione dei Duffer Brothers si affida a qualcosa di più antico, che senza etichette accessorie potremmo definire il piacere del narrare. Nel 1983 a Hawkins, Indiana, entro uno spazio d’azione di fiabesca risonanza simbolica – la provincia, la scuola, il bosco e i suoi rifugi, la stazione della polizia, un laboratorio segreto – si consuma una serie di inspiegabili eventi che sconfinano nel paranormale: a un gruppo di personaggi accomunati dal proprio status di losers spetta il compito di affrontare l’esistenza di una realtà parallela, dalla quale non solo proviene un’inarrestabile creatura mostruosa, ma a cui pare riconducibile tutto il dolore del mondo. Ne scaturiranno lotte, fughe, inseguimenti ma, soprattutto, un processo di accettazione del mistero che, senza riserve, finisce per coincidere con la rivendicazione dell’immaginazione e la fiducia nelle relazioni. Esiste una parte delle nostre vite che resta nascosta sotto la superficie, e per attraversare lo specchio, riconoscerne entrate e uscite, Stranger Things ci invita a rinunciare all’ironia, al cinismo, alla saccenteria, per abbracciare con tutto il calore possibile la forza autentica degli affetti. [Marco Longo]
The People v. O. J. Simpson: American Crime Story (FX)
La chiave di lettura è già nel titolo: quando un episodio di cronaca segna così profondamente la memoria e l’immaginario collettivi, smette di essere semplice cronaca e diventa, a tutti gli effetti, Storia. I fatti del “Caso O.J.” sono noti: una sera del 1994, a Los Angeles, un uomo e una donna vengono trovati uccisi, e poiché la donna è l’ex moglie di Simpson, leggendario giocatore di football, all’epoca in pensione e riciclatosi attore, i sospetti della polizia cadono su di lui; il resto è ugualmente noto, con O.J. che si esibisce nel repertorio di chi ha scritto in fronte “colpevole”, tentando il suicidio e la fuga, per poi costituirsi in lacrime e affrontare un processo da cui, a sorpresa, uscirà da uomo libero. Il tutto grazie all’intuizione del suo team legale (all’interno del quale spicca un magnifico John Travolta): trasformare un caso di omicidio che pareva perso in partenza in un evento mediatico di eccezionale risonanza, capace di mettere sotto accusa i metodi della polizia e l’ipocrisia delle istituzioni. Ryan Murphy (Glee e Nip/Tuck) traccia il ritratto attualissimo di un’America lacerata, oggi come allora, da problematiche che spaziano dalle tensioni razziali al sessismo, passando per un rapporto malato con la TV e l’aspirazione alla celebrità (notevoli anche i siparietti collaterali dedicati alla famiglia Kardashian). In partenza ci avrebbero scommesso in pochi, invece è finito per risultare uno dei prodotti più interessanti della passata stagione, benché da mettere al vaglio sulla scorta delle prossime stagioni. [Andrea Di Lecce]
Westworld (HBO)
Philip K. Dick si chiedeva se gli androidi sognassero pecore elettriche, ed è proprio quest’ultimo – ancor più di Michael Crichton e il suo Il mondo dei robot – a ispirare Jonathan Nolan e Lisa Joy per la creazione di Westworld per HBO. Del pregevole film di Crichton resta l’ottimo soggetto iniziale, ma lo show sfrutta i vantaggi della serialità per approfondirne le riflessioni: ne deriva un’epopea del post-organico che si ramifica in numerose sfaccettature narrative, con una densità tematica che non deborda mai oltre il controllo dei suoi autori. La prima stagione è impostata come un tortuoso labirinto mentale dove la complessità dell’intreccio si scioglie in una doppia presa di coscienza che per l’androide Dolores significa indipendenza dal proprio creatore, mentre per il pubblico corrisponde alla soluzione di un enigma. Così, quel “sentire che non è ancora propriamente umano”, come dice Mario Perniola ne Il sex appeal dell’inorganico, si trasfigura nell’autonomia psico-empatica dell’uomo nuovo, superiore e artificiale, capace di riuscire laddove la “carne” ha fallito. Tutto questo accade in uno show di alto livello tecnico e interpretativo, in grado di meditare sulla singolarità tecnologica e sulla società dello spettacolo: il parco di Westworld è lo specchio dell’intrattenimento globalizzato, che reitera all’infinito i suoi schemi rappresentativi e promette un mondo da sogno, dove sfogare i propri desideri più nascosti. Non (ancora) la storia di una rivoluzione, ma il racconto arguto e ponderato delle sue sconvolgenti premesse. [Lorenzo Pedrazzi]