Il tempo si lacera. Dove ritrovare i prati della mia infanzia? I soli ellittici rappresi nello spazio nero?
Dove ritrovare il cammino che oscilla nel vuoto? Le stagioni hanno perduto il loro significato.
Domani, ieri, che vogliono dire queste parole? Non c’è che il presente.
Una volta nevica. Un’altra volta piove. Poi c’è un po’ di sole, un po’ di vento. Tutto ciò è adesso.
Non è stato, non sarà. È. Sempre. Tutto insieme.
Perché le cose vivono in me e non nel tempo.
E in me tutto è presente.
Agota Kristof, Ieri
A dispetto del disastroso doppiaggio italiano, che in molte scene ha snaturato le sottili intenzioni dei dialoghi originali, Manchester by the Sea del newyorkese Kenneth Lonergan è uno dei film americani più riusciti e degni della presente stagione. Vale la pena ripercorrerlo non soltanto in relazione alla filmografia breve e incostante del suo autore, che arriva al terzo film da regista dopo un percorso da co-sceneggiatore consolidato (Terapie e pallottole è spesso citato nei manuali di scrittura quale sagace esempio del proverbiale what if alla base di ogni buona idea creativa, per non parlare di Gangs of New York, problematico film-cerniera tra Novecento e Duemila), ma con uno sguardo ai percorsi del cinema statunintense contemporaneo, alle sue formule produttive ormai serializzate, a una modalità di racconto in cui il rapporto con le storie e i personaggi soffre sempre più stancamente di una poetica di vuoti estremi, tra partecipe spettacolarizzazione e freddissimo calcolo.
Basterebbe guardare ai film candidati agli Oscar negli ultimi anni per accorgersi e, con un certo puntiglio da aspirante sceneggiatore, addirittura constatare cronometro alla mano, come la standardizzazione delle formule narrative sia oggi – ormai quasi quanto il casting – il primo motore del consenso cinematografico americano, lo snodo da cui partire per destrutturare le strategie di precognizione del successo di un investimento produttivo, la bussola grazie a cui soppesare la cosiddetta “tenuta” di un film rispetto all’immagine che le major hanno o vogliono costruire del proprio pubblico di riferimento. Senza scomodare il capolavoro che smaschera e travolge tale apparato, quel Knight of Cups con cui Terrence Malick poneva il problema fuori campo elevando a immagine la dimensione erratica di quanto sotto alle storie da sempre (non) scorre, potremmo dire che i paradigmi dei tre atti di Syd Field e del viaggio dell’eroe elaborato da Christopher Vogler, già di per sé modalità mediate di concepire il racconto, hanno goduto negli ultimi anni di ulteriori, affinate sistematizzazioni, a partire dalle quali in molti, oggi a Hollywood, ritengono sia possibile approdare alla “sceneggiatura perfetta”.
È in particolare una pubblicazione come Save the cat! di Blake Snyder (2005) a essere divenuta il ricettario di riferimento per chi scrive i film a Los Angeles e dintorni, con tutta una serie di buoni suggerimenti che poi, come sempre accade, si dimostrano più o meno necessari nella misura in cui vengono declinati da registi, direttori della fotografia, scenografi, montatori, compositori, e via dicendo. Con quale immagine partire? Con quale battuta dichiarare il tema? Quando introdurre la b-story, i punti di svolta, le false vittorie o le false sconfitte del protagonista, la sua morte simbolica? Come indurre nello spettatore la consapevolezza che gli atti divengano tesi, antitesi e sintesi di una progressione ineludibile? Con quale inquadratura, infine, concludere il film? È a partire da queste scelte, e non soltanto dall’elaborazione che i rispettivi registi ne hanno saputo dare, che oggi è possibile approcciare ai distinguo che intercorrono tra titoli come Il cigno nero (2010), Silver Lining Playbooks (2012), Nebraska (2013), Foxcatcher (2014) o Whiplash (2014), e operazioni più oblique di scrittura come The Hurt Locker (2009), The Social Network (2010), Inherent Vice (2014) o Boyhood (2014).
Sia chiaro, Kenneth Lonergan conosce molto bene i trucchi del mestiere, e Manchester by the Sea non sembra venire davvero meno al tenerli a propria disposizione. Eppure in questo racconto tragico, e ben lontano dall’offrire una effettiva risoluzione al conflitto portante, quello che sembra più contare, e paradossalmente strutturare l’intensità dello sguardo, è la relazione con quanto si sta mostrando. In un film sobrio dalla prima all’ultima inquadratura, incapace di dare una vera e propria struttura alla materia binaria con cui i fatti vengono presentati – un continuo e inesorabile sovrapporsi tra passato e presente – il regista sembra comprendere molto bene che, a volte, alzare le mani e rinunciare a disporre gli ingredienti di una storia come caselle virtuose di un puzzle a tavolino, può essere la maniera migliore di attraversarla. Nel film di Lonergan l’attitudine relazionale al mondo dei personaggi si caratterizza per scelte semplici e sottili, dotate di una pudica immediatezza che parrebbe appartenere a chi si immagina parte integrante dei luoghi e della cultura che il film emana, quasi come un vicino di casa che, per puro caso, incrocia di passaggio i protagonisti del film. Panni che Lonergan, in effetti, riveste per pochi secondi, in una scena tutt’altro che superflua pur nella propria, assoluta, transitorietà.
Manchester by the Sea racconta la vita di Lee Chandler, idraulico e tuttofare a Boston, refrattario a scambi umani che possano anche solo rischiare di farsi personali: solitario e capace di violenza gratuita, animato sottopelle da una rabbia ben poco definibile, quando una telefonata lo avverte che suo fratello e mentore Joe, affetto da una malattia cardiaca, è morto a seguito di un’ennesima crisi, Lee è obbligato a ritornare nella località che dà il titolo al film, in Massachusetts, dove alcuni anni prima viveva con la moglie Randi e tre bambini. Da qui scoprirà di non poter andare via rapidamente perché Joe, mosso da un disegno di superiore consapevolezza, ha deciso, prima di morire, di nominare il fratello tutore del figlio Patrick, ancora adolescente.
Tradizionalmente il film hollywoodiano individuerebbe in questi primi snodi il set-up del racconto, con un evento scatenante un cambiamento nella condizione iniziale del protagonista, e un primo punto di svolta a complicarne la vicenda (l’affidamento di Patrick). Tutto molto regolare, se non fosse che Lonergan, mentre imposta il proprio film sulla linea del tempo presente, costruisce con pazienza le basi per un secondo film, tutto in flashback, che lentamente acquisisce una proporzione insolita, quasi 1:1, nel rapporto di scala con i fatti in tempo reale, e che nel cuore esatto del racconto diviene il centro di un processo di colpa e vergogna quasi insostenibile: da Manchester by the Sea Lee è scappato dopo che un errore beffardo e tuttavia impunibile dalla Legge ha decretato la morte dei suoi tre figli.
È interessante osservare come quest’anno almeno altri due buoni film, Sully di Clint Eastwood e Lynn’s Long Halftime Walk di Ang Lee, con esiti molto differenti e compressioni temporali di più istantanea durata, abbiano esplorato la dimensione del flashback quale letterale controcampo del racconto lineare, lavorando sullo spettatore non solo sul piano informativo – come è andata davvero, come sarebbe potuta andare – ma processuale. Nel confronto con Patrick, sano adolescente americano in cerca di risposte, e in quello, senza troppi fronzoli, con l’ex moglie Randi (una straordinaria Michelle Williams), che nonostante tutto l’odio e il rancore forse ancora lo ama ma nel frattempo ha avuto un altro figlio da un secondo marito, Lee non solo è costretto, talvolta fallendo, a rivedere la propria disponibilità verso le relazioni, ma a comprendere, almeno in forma embrionale, che passato e presente non possono così violentemente coincidere fino alla sua morte. Che esistono delle vibrazioni che, anche nell’identità di immagine con cui il film si apre e chiude sullo stesso luogo che dà il titolo al film (campi lunghi di mare e costa decisamente provvisori, mai esplicitamente simbolici come la manualistica suggerirebbe), non rendono impossibile una distinzione, una separazione, una messa a fuoco in piena trasparenza della ferita.
Come Lonergan costruisca questo processo è cosa che, ancora una volta, non può dirsi esattamente metodica: volontaria o meno, la sua è una modalità indiziaria, reticente come il protagonista affidato a Casey Affleck, impegnata nelle stesse scansioni di uniforme indolenza. Ora con la reiterazione narrativa (le rapide scene di rissa che coprono tutti gli anni del racconto e scandiscono il film). Ora con un ricorso iperrealista del suono come fattore di disturbo, o delle musiche come eco tragico di un fato senza nome (la telefonata alle pompe funebri interrotta dalla preparazione della colazione, la vibrazione del telefono cellulare durante il funerale, l’Adagio di Albinoni spalmato sull’intera scena madre). Ora con l’utilizzo dello spazio in chiave minimalmente percettiva (la colonna che Lee si ritrova davanti al naso uscito dall’ascensore in ospedale, un secondo prima che gli sia comunicata la morte del fratello; la negazione di ogni dimensione esplorativa dello spazio domestico che Joe lascia al figlio e al fratello). E ancora con il movimento di macchina in chiara discontinuità narrativa, a suggerire barlumi di trasformazione (la breve carrellata all’indietro, esito di uno stacco in asse sulla scena di crisi di Patrick nella propria stanza, a scoprire che Lee, pur inadeguatamente, è rimasto a vegliare sul suo sonno). Fino alla rottura eloquente tra presente e passato per convergenza in forma onirica di figure fantasmatiche: le figlie svegliano in sogno Lee da un colpo di sonno potenzialmente fatale come quello che ha segnato la loro morte.
In questo film senza facili esiti, Lonergan condensa su sentieri molto più stabili quanto con il precedente Margaret faceva esplodere su linee eccentriche: l’elaborazione della colpa si declina nella pervasività e persistenza di stati luttuosi, in cui le figure del padre e del figlio, non a caso trasferite sulla relazione zio-nipote, si confondono quasi a rispecchiarsi; dove non esiste ribellione al dolore, ma soltanto sopravvivenza. A volte autentica, come nel percorso di Lee, a volte improbabile, come per la madre di Patrick ed ex moglie di Joe, alcolista “salvata” dalla religione e dal rigore di un nuovo, dubbio, compagno.
La comunità americana che fa da sfondo alla vicenda non ha più forza di quanto i protagonisti sappiano dimostrarne, ma il film non rinuncia ad abbozzarne i tratti di variegata umanità: al calore della figura di Joe e del comune amico George – che alla fine prenderà su di sé l’affido pieno di Patrick – si alternano il doloroso smarrimento di Randi, il pudore di medici e concittadini, l’indifferenza di tante figure di passaggio, le passioni e i sogni di Patrick, delle sue fidanzate, dei suoi coetanei. Abbiamo già incontrato questo afflato in tanto cinema americano passato, in parte dimenticato (come non citare, almeno per qualche coincidenza, Gente comune di Robert Redford?), ma forse il merito di Lonergan è quello di calarlo, sempre più insistentemente, nella temporalità indeterminata del campo medio, ora parte di un pacato piano regia, ora esaustivo di intere scene. La sequenza dell’interrogatorio alla centrale della polizia, dopo il terribile incidente, è scandita con il rigore di tre sole inquadrature: mezza figura dei due poliziotti e spalle di Lee, mezza figura di Lee con progressivo character dolly in plongée impercettibilmente giudicante, totalino di chiusura. Bisogna rivederla per accorgersene, perché tutto è avvolto dalla rarefazione inesorabile della ricostruzione dei fatti, tanto tesa quanto inutile a definire una colpevolezza. Anticamera di quel quarto punto macchina, fuori dalla stanza degli interrogatori, da cui il montaggio entra ed esce in forma quasi sincopata, formalmente azzardata eppure così giusta per introdurre un tentativo di suicidio, risoluzione negata di un dramma senza soluzione. L’itinerario del dolore è talmente insensato da imprimere al film la consapevolezza di dover non soltanto raccontare una storia, ma di andare al di là di essa: piangendo la caducità della vita stessa.