Il cinema non è morto, caso mai è sovrappopolato. A dirlo è Paul Schrader, in un’intervista rilasciata qualche mese fa in occasione dell’uscita del suo ultimo film, Dog Eat Dog. “Non bisogna confondere il cinema con i multiplex” ha aggiunto “ormai hanno fatto il loro tempo e andranno a scomparire. Ma questo non vuol dire che il cinema sia morto: siamo investiti da uno tsunami di prodotti audiovisivi, solo che il patto tra cinema e capitalismo che ha arricchito tutti quelli che lavoravano in questo settore per oltre un secolo – quantomeno a Hollywood – si è definitivamente spezzato. E sono state le nuove tecnologie a farlo. I film ora sono come i quadri, la letteratura o la musica. Andiamo verso una situazione nella quale solo il 5 per cento dei cineasti sarà in grado di vivere del proprio lavoro”.
È più o meno lo stesso punto di vista di Kent Jones, nell’articolo che presentiamo in calce a questo speciale: un punto di vista che spinge a non confondere la qualità con la quantità, l’arte del cinema con la sua tecnologia, la sua essenza con la sua rilevanza, in un panorama socio-culturale radicalmente cambiato rispetto all’epoca della sua classicità, ma anche solo a un ventennio fa. Su queste pagine abbiamo sempre sostenuto che per parlare di cinema si debba parlare di ciò che sta accadendo al cinema, e se la fioritura di nuove pratiche rese possibili dal digitale ha prodotto un risveglio creativo sul fronte del film d’autore internazionale, la decadenza di Hollywood fa da contraltare al medesimo discorso. Una decadenza più che mai evidente al termine di un anno solare passato senza quasi lasciare traccia, debolmente riscattato in coda da una manciata di opere di maestri acclamati (e in alcuni casi ottuagenari) e che spinge anche a porre una questione sul (mancato?) rinnovamento del canone americano. Chi saranno i futuri Coppola, Scorsese, Spielberg? Ma anche i futuri Fincher, Coen, Bigelow? Chi sarà in grado di farsi alfiere della classicità alla Eastwood, o prenderà il posto di Michael Mann? Forse Villeneuve (non a caso straniero, come Iñárritu e Larraín)? E quanti registi di questo calibro si profilano all’orizzonte?
Schiacciata dalla concorrenza televisiva, dal proliferare delle piattaforme online e da modalità e processi distributivi e di fruizione che hanno smantellato consuetudini quasi secolari, la macchina hollywoodiana arranca sul crinale di un tetro scenario apocalittico, incapace di reagire con convinzione ed evocando, anche nelle sue prove migliori, una diffusa nostalgia nei confronti di ciò che è stato, il paradiso perduto della mecca dei sogni, quando non un senso di fine imminente. Ecco perché vale la pena soffermarsi su alcuni film recenti che, in maniera diversa, portano la questione in primo piano, senza per questo annunciare una rinascita, o pensare che si tratti degli albori di una New New Hollywood, come assai prematuramente – e senza particolare convinzione – hanno tentato di fare testate d’oltreoceano; anche perché di nuovo c’è ben poco, salvo il talento di alcuni di registi più o meno giovani (e in alcuni casi nemmeno così giovani…). Un talento salvaguardato a fatica, non senza lunghi periodi di inattività o di gestazione, tanto che persino dietro il film più apparentemente leggero del gruppo si cela una prova di resistenza, lo sforzo per la sopravvivenza, l’ostinata volontà di affermazione già testimoniata in Whiplash.
Così, non è tanto importante soffermarsi sull’esito divisorio di La La Land, né sull’abilità registica di Damien Chazelle o sulla quantità di rimandi al cinema del passato presenti nel suo film, quanto sulla portata significativa di un’opera il cui pregio è aver centrato in pieno una problematicità cruciale, aver saputo trasformare in un seducente melodramma danzereccio questioni fondamentali come quelle del rinnovamento del linguaggio cinematografico, della sua perduta centralità all’interno nell’immaginario collettivo e del suo persistere fantasmatico. Film spettrale, infatti, La La Land, nonostante l’entusiasmo che lo muove, e film fuori dal tempo, in un limbo coabitato da altri film recenti (Manchester by the Sea, sicuramente The Lost City of Z, ma l’elenco potrebbe essere più folto). Spettrale nelle gigantografie che assediano le camminate dei suoi protagonisti, nei volti fantasmatici che li osservano dalle finestre di facciate neoclassiche, oppure da schermi che si accendono un’ultima volta solo per veder dissolvere le proprie immagini in bolle di nitrato. I sogni si accartocciano nella città delle stelle (city of stars, there is so much that I can’t see), lugubre parco di divertimenti di se stessa per la quale non resta che immaginare un futuro diverso, alternativo, nella forma di super8 amatoriali.
Impossibile non apprezzare lo slancio con il quale il film tenta di sottrarsi all’impasse, non a caso prendendo il via da un ingorgo stradale, arrivando al cuore del problema esattamente a metà del tragitto, per poi affannarsi verso un finale fintamente consolatorio mentre la struttura stessa dell’opera ormai traballa incerta. Nella sua parte migliore, la prima, il film di Chazelle fonde a meraviglia istanze narrative e teoriche, adesione al genere e riflessione sul ruolo di un’arte sempre più sospinta ai margini, accerchiata da più fronti, dando l’impressione di poter vincere la battaglia; nella seconda dichiara la resa sul territorio dell’inevitabile compromesso, lasciando che sia la prevedibilità del mélo a prendere il sopravvento, un mélo che per quanto rifiuti il lieto fine fa di tutto per essere accondiscendente nei confronti dello spettatore, preferendo illuderlo piuttosto che scontentarlo (si pensi alla differente chiusa di un film affine come New York, New York). Ma questo accade perché da quell’ingorgo stradale del prologo, né i due protagonisti né l’autore stesso sono veramente riusciti a uscire; perché non c’è modo di farlo, e la danza è pura illusione. Illusione che non ci sia un ché di titanico nel tentare di imporre una visione personale in un contesto sempre più ripiegato su se stesso e sui propri antiquati modelli, nel poter ancora praticare i generi dopo la vertigine divorante di Tarantino a inizio millennio e il coevo sprofondo onirico del Lynch di Mulholland Drive e Inland Empire. Forse più di questo, oggi a Hollywood, non si può fare. E forse è persino inutile tentare di fare di più. Forse è la fine di Hollywood così come l’abbiamo conosciuta, e solo quando sarà veramente finita saranno evidenti le macerie.
Mia (Emma Stone) deve scegliere tra ruoli d’attrice per improbabili serie TV e intensi monologhi da scantinato; Sebastian (Ryan Gosling) tra il successo di un’appariscente fusion orchestrale e il richiamo di un locale jazz da sottoscala. E così come il jazz non è morto ma resta sublime musica per intenditori, anche il cinema sta andando nella stessa direzione, lasciando che siano altre forme a occupare la centralità dello scenario audiovisivo. D’altronde, in passato, i grandi Studios hanno cominciato a produrre film per la necessità di riempire le sale cinematografiche di cui erano proprietari; qualcosa di molto simile a quanto stanno facendo oggi Amazon e Netflix, che si sono posti prima il problema di come diventare proprietari degli schermi (quelli nelle nostre case) e poi dei contenuti da trasmettere. Contenuti che non sono necessariamente film, anzi: lo sono solo in minima parte, e lo saranno sempre meno. Questa è, con lampante evidenza, la direzione intrapresa dall’entertainment per immagini del nostro tempo; questo il tragitto che tutti, volenti o nolenti, stiamo compiendo e contribuiamo a compiere, finché qualcosa di nuovo non accadrà e cambierà le carte in tavola ancora una volta.
L’esperienza cinematografica propria del ‘900 non verrà cancellata, e se la sala resterà la “casa dei film” dipenderà da numerosi fattori, non ultimo l’accettare che sia molto meno capiente di prima e magari situata in un sottoscala. C’è ben poco di glamour, in tutto questo, certo, ma pur sempre qualcosa di glorioso nell’irriducibilità del cinema a diventare altro da sé e, contemporaneamente, qualcosa di stupefacente nel suo mutare, proliferare e adeguarsi a nuove e impreviste condizioni. Quanto a Hollywood, la tendenza all’infantilizzazione dello spettatore che ha preso il sopravvento ormai quarant’anni fa è la stessa che ne ha divorato ogni possibilità di maturazione artistica, come dimostrano la schiera di opere mediocri candidate agli ultimi Oscar, da Barriere a Il diritto di contare, antiquate nella forma e solo apparentemente progressiste nell’affrontare il tema razziale (lo stesso discorso vale, in parte, per i più interessanti Loving e Moonlight), riportando indietro le lancette di decenni, e non solo in senso figurato.
Se Hollywood sta perdendo irrimediabilmente terreno è perché il cinema non l’hanno mai fatto i soldi né, tanto meno, gli algoritmi, ma i registi e l’unico modo per difendere il cinema, oggi più che mai, è difendere il regista. Non sarà Hollywood a farlo, né potrà farlo la critica, che non conta più niente, se mai ha contato. Ciò non toglie che grandi registi continueranno a fare grandi film, e ci sarà sempre qualcuno pronto a coglierne la grandezza e la bellezza, cercando di rendere a parole la maniera ineffabile e sfuggente in cui si manifesta, nella speranza che ci sia ancora qualcuno disposto a leggere, così come chi fa cinema spera che ci sia ancora qualcuno disposto a guardare.
Dove, come e per chi sono esattamente i quesiti intorno ai quali è stata edificata questa piccola casa per il cinema e chi lo ama. In un sottoscala.