Il concorso del Torino Film Festival, giunto alla sua trentaquattresima edizione, ha visto il trionfo del cinese Qiwu Zang con Juan Zeng Zhe (The Donor), rigoroso dramma noir fortemente politico, ma ha annoverato tra i suoi titoli anche altri film capaci di costituire, con la loro diversità, una selezione molto variegata. Si va dal minimale Porto di Gabe Klinger, al tedesco fantascientifico e ambizioso Wir sind die Flut, che sia avvicina ad atmosfere à la Christopher Nolan, fino al singolare e personalistico documentario Las Lindas, o a Los Decentes, che riflette su società argentina e libertà con una messinscena quasi seidleiana. Tutti film che presentano (al meglio) forti analogie con correnti del cinema contemporaneo a cavallo tra autorialità e mainstream.
Meno derivativo e autenticamente originale è invece Vetar (Wind) di Tamara Drakulic, girato sulla foce del fiume Bojan in Montenegro, oasi naturalistica fatta di vegetazione selvaggia, uccelli rari, canneti e spiagge ventose, che fa da scenario idillico per la fuga dalla città che Andrej, cinquantenne vedovo di Belgrado, sceglie per trascorrere l’estate con la figlia sedicenne Mina. La ragazza, pigra e svogliata, si annoia: è poco interessata a studiare per recuperare l’insufficienza in filosofia, e sembra più di tutto determinata a conservare intatto il paradiso edipico che sente minacciato dalla nuova relazione del padre. L’uomo invece la incoraggia ad aprirsi al mondo, e intuisce l’attrazione della ragazzina per il ventenne surfista Sasa, il quale però fa coppia fissa con la disinibita Sonja. Sasa e Sonja, sportivi, abbronzati, sempre seminudi e avvinghiati sulla spiaggia, attraggono e repellono allo stesso tempo Mina, che manifesta la tipica supponenza e intransigenza di chi ancora non ha fatto esperienza e avverte l’affiorare della propria sessualità come una minaccia da cui però è inevitabilmente incuriosita e affascinata. I cambiamenti irreversibili che accompagnano la scarna e indolente narrazione del film sono dilatati e diluiti in una serie di quadri a camera fissa che scandiscono il ripetitivo trascorrere del tempo di un’estate sospesa, all’apparenza priva di sconvolgimenti radicali eppure fondamentale nella crescita di Mina.
C’è qualcosa di profondamente malinconico in questo film, terzo lungometraggio della regista serba, già presente a Torino con il più sperimentale Oekan nel 2014: è il commiato per la perdita dell’innocenza e la fine di un’epoca. Proprio come al termine della vacanza Mina non sarà più una bambina, l’oasi in cui padre e figlia avevano trovato un rifugio, spiega una didascalia al termine della pellicola, è minacciata dalla privatizzazione e dall’annunciato sfruttamento del luogo. Per questo, la macchina da presa è sempre fissa e la fotografia totalmente desaturata. Ad eccezione di un’unica sequenza: il momento dell’assaggio di una favola “in technicolor” che Mina sperimenta in una corsa in motorino con Sasa, all’alba, dopo una lunga notte passata sulla spiaggia attorno al fuoco. È la prefigurazione di un’età adulta idealizzata e trasfigurata da occhi ingenui, in cui consegnarsi a un principe (non a caso Mina indossa un diadema e un abito bianco) non costituisce un trauma né una perdita bensì una conquista e una promessa di felicità. Ma la realtà è diversa: Sasa, che pure si è comportato da amico e ha manifestato interesse nei suoi confronti, la considera solo una bambina, e alla prima cocente delusione d’amore Mina scopre anche di non essere più la principessa di papà, perché la sua nuova compagna è incinta. Il finale drammatico arriva solo apparentemente a sorpresa – con un tentativo (fallito) di affogarsi da parte della ragazza – perché in realtà porta alle naturali conseguenze l’identificazione con il suo punto di vista che la regista adotta durante tutto il film.
Se i dialoghi con il padre, esplicitando l’irresistibile carattere dei due (quello sfrontato e risoluto di lei, quello affascinante e brillante di lui) regalano i siparietti migliori e quasi da commedia del film, solo alla fine comprendiamo che è la dinamica tra padre e figlia il vero fulcro del lavoro. Senza arrivare alle derive apertamente incestuose di un Gainsbourg nel provocatorio Charlotte for Ever, a tratti il film ricorda la vacanza al mare di Gerard Depardieu e figlia adolescente nella commedia francese Mio padre, che eroe! (1991), in cui la vacanza diventa il momento in cui il rapporto esclusivo tra genitore e ragazza pubescente tocca il suo apice proprio quando la giovane, giunta a maturazione sessuale, si trova costretta a rivolgere altrove i suoi bisogni: essere accudita e insieme accudire questo padre solo e privo di una controparte femminile al suo fianco. È un processo naturale, eppure la fine di questa diade non potrebbe avvenire senza la consapevolezza di una frattura insanabile, che Drakulic riporta fedelmente in questo coming of age distaccato solo a uno sguardo superficiale, in realtà profondamente coinvolto e coinvolgente.