Già in Queen of Earth (2015) Alex Ross Perry, autore di un cinema sottovoce, indipendente ma insolito anche per l’ormai codificata corrente sundanceiana del mumblecore, cercava di andare oltre i dialoghi (o più spesso il monologo autoreferenziale) che pure colloca sempre al centro dei suoi film. Anche in Golden Exits l’obiettivo è quello di avvicinarsi alla realtà di personaggi che, sebbene sulla carta stereotipati o direttamente antipatici, rivelano qualcosa di perturbantemente familiare allo spettatore. L’espediente narrativo è banale e superfluo, quasi un pretesto non solo per il regista ma specialmente per i protagonisti che lo abitano, la scusa per riflettere su se stessi e sulla propria vita, frustrata anche se di apparente successo. Il microcosmo che Perry sceglie per questa piccolo film intimista è Brooklyn, una Brooklyn dove tutti i personaggi presenti sono collegati da impercettibili gradi di separazione, il cui afflato cosmopolita è eclissato, e di cui emerge invece l’aspetto quasi provinciale, fatto di dinamiche di paese, trasparenze forzate – tutti potenzialmente sanno tutto di tutti – e più o meno vaghe sindromi di persecuzione: abitanti di un mondo in cui si sentono osservati, reciprocamente giudicati e messi costantemente alla prova.
L’unica apparentemente indenne da questi meccanismi di costruzione del sé sociale sembra essere Naomi, la venticinquenne australiana (Emily Browning) che arriva a portare la potenziale e proverbiale “boccata di aria fresca” in questo universo asfittico fatto di trenta/quarantenni dalle vite perfette (di successo e benestanti, ma anche creativi, colti, “felicemente” sposati), di cui fanno parte due coppie speculari: quella composta da Nick (l’ex Beastie Boy Adam Horovitz), che lavora all’archivio del suocero scomparso di recente in cui Naomi viene assunta come stagista, e dall’insoddisfatta psicoterapeuta Alyssa (Chloë Sevigny); e quella, più giovane ma già incastrata nelle stesse dinamiche, composta da Buddy (Jason Schwartzman) e Jess (Analeigh Tipton), che insieme gestiscono un’etichetta discografica. Se il desiderio di evasione che la giovane Naomi rappresenta è chiaro nelle dinamiche maschili, è altrettanto chiaro che non è questa banale crisi di mezza età, che peraltro si svolge tutta solo nell’immaginazione e nell’autonarrazione dei protagonisti, il punto che al regista interessa mettere a fuoco. Ne è una prova la presenza di altri due personaggi femminili, le due sorelle di Alyssa e Jess, che lavorano insieme e che nel film hanno il ruolo solo apparente di interlocutrici esterne o osservatrici del dramma della gelosia che si sta svolgendo accanto a loro. Sono i loro discorsi, le loro osservazioni e le loro riflessioni di donne sole e amareggiate a influenzare maggiormente Naomi, abbastanza sveglia da non restare invischiata nelle nevrosi un po’ patetiche di Nick e Buddy, ma ingenuamente affascinata dal ruolo della donna libera e indipendente che soprattutto Gwen (la sorella di Alyssa interpretata dalla perfetta Mary-Louise Parker) incarna. Anche questa dinamica però rimane solo accennata, e l’insistenza con cui la macchina da presa tenta di avvicinarsi a personaggi che si costruiscono nella loro interazione con gli altri è filtrata dallo stesso schermo sociale: ognuno si modula sulle aspettative dell’altro, assecondandole, provocandole, forzandole o apertamente disattendendole, ma sempre partendo dalla consapevolezza di questo altrui sguardo, come se tutta la vita fosse una recita.
Eppure, anche lasciandosi sfuggire qualche momento di esplicito sarcasmo (come quando Naomi si lamenta del fatto che non si vedono mai film sulle “persone qualunque”), l’empatia di Perry verso il mondo che rappresenta è palpabile, e la serie di sequenze quasi autoconcluse con cui ne offre un ritratto riesce a costituire nell’insieme una dramedy mai cinica, qualcosa di più di una banale opera di satira dei costumi.