Come la canzone che dà il titolo internazionale al film, By The Time It Gets Dark (in originale Dao Khanong) è il frutto di una complessa e talora casuale stratificazione di significati. Il brano di Sandy Denny, indimenticabile leader dei Fairport Convention, diviene da canzone folk un classico minore indie-rock nelle mani degli Yo La Tengo: è questa versione a ispirare nella remota Thailandia Anocha Suwichakornpong, giovane regista al suo secondo lungometraggio. By the Time It Gets Dark, il brano, dovrebbe caratterizzare l’ultima inquadratura, ma non sarà così nella versione definitiva. È nella natura di Dao Khanong tanto l’evoluzione continua quanto l’incrocio di fonti di ispirazione eterogenee. Quella di Anocha Suwichakornpong è un’opera ambiziosa, al contempo personale e universale, semplice e sperimentale.
Alle spalle di By the Time It Gets Dark c’è un passato di sangue, che affonda le radici nel mai dimenticato massacro della Thammasat University del 1976: da allora la Thailandia non ha mai trovato politicamente pace né serenità, anche in virtù di quella colpa mai espiata, di quei conti mai chiusi. Ma Anocha non istituisce processi dai facili verdetti. L’incidente della Thammasat ispira molto di quel che vediamo, ma non è quasi mai citato esplicitamente, mentre assistiamo a vite parallele e intersecanti di uomini e personaggi, appartenenti tanto alla realtà che alla finzione (nella finzione), senza che i confini siano netti. È attraverso questa storia di smarrimento nelle contraddizioni della Thailandia contemporanea – città e campagna, ricchezza e miseria, violenza e estasi della natura – che la regista rielabora ricordi ed esperienze, interrogandosi sull’evoluzione di un Paese e del linguaggio cinematografico, anch’esso costantemente mutevole, con cui raccontarlo. E se debito, o omaggio, nei confronti di Apichatpong Weerasethakul c’è, come vogliono i detrattori e come forse è inevitabile che sia, Anocha mostra già i tratti di una personalità autonoma e matura, capace di regalare momenti di cinema spiazzante, concettuale senza essere anti-narrativo, visivamente memorabile.
La 69ª edizione del Festival del Film Locarno, che annoverava Dao Khanong in concorso nella competizione ufficiale, è stata l’occasione per incontrare Anocha e provare, attraverso le sue parole, a rivivere, comprendere e ripensare un film che merita molteplici visioni, ognuna a suo modo rivelatrice.
Filmidee: Partiamo dai personaggi. Guardando il film, si ha l’impressione che il personaggio della ragazza che cambia spesso lavoro sia importante non solo per il suo radicamento nella realtà – la sua estraneità a ogni processo creativo in senso stretto – ma anche per la connotazione sociale che il film le attribuisce. La vediamo lottare con la vita, giorno dopo giorno, raccogliere gli stracci e portar via la spazzatura. Peter, l’attore, conduce un’esistenza ben diversa. Lo vediamo nuotare, cantare, passare da uno svago all’altro. Certo, non è chiaro se queste scene raffigurino la sua vita così com’è oppure un film di cui è protagonista, ma ciò nondimeno l’impressione è che i due si muovano in universi sociali diversissimi. Per di più l’attore è anche imprenditore: probabilmente possiede la manifattura di tabacco che vediamo alla fine del primo segmento narrativo. Questa polarità – che emerge anche in How To Win At Checkers (Every Time), un film di Josh Kim che hai prodotto nel 2015 – rimanda a processi sociali e politici che in Thailandia probabilmente sono rimasti irrisolti, fin dai fatti del 1976…
Anoha Suwichakornpong: Da ancora prima, in realtà. Il personaggio della ragazza che continua a cambiare lavoro è stato il primo che ho inserito nella sceneggiatura. Anzi, nelle prime stesure, il film era soprattutto su di lei – mentre ora la struttura è più corale, non c’è un protagonista vero e proprio. Circa le differenze sociali di questi due personaggi, Peter, è di Bangkok: la sua è chiaramente un’estrazione sociale superiore. Detto questo, la sua connotazione principale resta quella di attore, qualcuno che attraversa in continuazione il confine tra realtà e finzione. La sua prima comparsa, nella sequenza allo stabilimento, coincide con il passaggio del film da un piano realistico – per quanto palesemente “cinematografico” – a un registro più onirico. Stiamo seguendo le fasi di lavorazione del tabacco, come in un documentario, e quando d’un tratto entra in campo lui, i due piani di messinscena collidono. Ed è sempre lui a portarci a Bangkok: lo vediamo prendere l’aereo, e quando arriva nella metropoli lo vediamo guidare verso Dao Khanong, e poi morire in un incidente d’auto.
FI: Insomma, una connotazione metalinguistica più che sociologica.
AS: Esatto: ma allo stesso tempo non so quanto sia esatto distinguere le due cose. La mia idea era di far coesistere questi due personaggi negli stessi spazi, senza che l’uno si accorgesse dell’esistenza dell’altro. Lei pulisce la macchina mentre lui nuota: sono nello stesso ambiente, ma separati, su più piani, anche in termini di montaggio. In un’altra scena vediamo la ragazza andare da sola in una specie di luna park, con animali di plastica: una volta lì si mette a mangiare semi di loto, uno spuntino a buon mercato, che in Thailandia puoi comprare a ogni angolo di strada. A quel punto c’è uno stacco, e vediamo l’attore che sta consumando un pasto raffinato, frutti di mare e granchi con i suoi amici. Il contrasto tra le due situazioni è netto.
FI: Un contrasto tra spazi sociali, intendi?
AS: Ma anche un contrasto tra autenticità e messinscena. Non voglio implicare un giudizio politico. Ripeto: la cifra fondamentale del personaggio Peter è il suo essere attore. Per quel che ne sappiamo, come spettatori, le diverse attività in cui lo vediamo impegnato – l’arrampicata, le sequenze in cui nuota in piscina – potrebbero essere le scene di un film di cui è protagonista. Quel che mi interessa è sfumare i contorni tra realtà e finzione: volevo che Peter servisse soprattutto come veicolo per lo spettatore, che fosse come uno schermo bianco attraverso il quale entrare nel film.
FI: Restiamo un momento sulla trama. L’esito del percorso narrativo della ragazza sembra suggerire la spiritualità come via d’uscita: è questa l’unica conclusione possibile per chi è costretto a un lavoro ripetitivo e alienante?
AS: Ma non è una conclusione! Per tutto il film la vediamo passare di lavoro in lavoro, alla ricerca di qualcosa. È chiaro che sia smarrita. E nella mia cultura chi si trova in quella situazione finisce per rivolgersi alla religione. Anzi, non solo nella mia cultura: come esseri umani, quando ci sentiamo persi e abbiamo bisogno di risposte, tendiamo a rivolgerci alla religione. Nella cultura in cui sono cresciuta, quella religione è il buddhismo. Molte persone vanno al tempio solo quando hanno problemi, quando non vedono una via d’uscita. Detto questo, qualsiasi cosa la ragazza stia cercando, non credo l’abbia trovata: c’è una scena, subito dopo, in cui la vediamo ballare in discoteca. Insomma, la spiritualità non è una soluzione.
FI: Passiamo a un aspetto più formale. Nella conferenza stampa hai detto che volevi rendere l’idea di una temporalità non lineare, e ci sembra che in quel senso il film parli da sé. Ci chiedevamo però se la stessa idea si possa applicare agli spazi. L’impressione è che ci sia qualcosa di artificiale nella profondità dei luoghi: è come se i vari ambienti fossero schiacciati sulla loro superficie, senza alcuna vera dimensione interiore. L’unica eccezione, forse, è la giungla, in cui la documentarista intravede il proprio doppio, e in quel momento è quasi come se il film rendesse, attraverso la messinscena dello spazio, la circolarità del tempo, la convergenza di presente e passato. Il resto del film, tuttavia, sembra scivolare attraverso interni di design…
AS: Inclusa la casa?
FI: La prima casa? Quella in cui si svolge l’intervista?
AS: Dunque. C’è quella casa, a cui poi torniamo, anche se l’arredamento cambia: tende, cuscini, tutto diverso. La pianta della casa è la stessa, ma tutto, perfino il letto, è diverso. E ovviamente gli attori sono diversi, i costumi che indossano sono diversi, il trucco, eccetera. Ma no, vi chiedevo dell’altra casa, quella su cui il film si apre. La prima inquadratura del film mostra una finestra chiusa. E quando qualcuno apre la porta – una donna incinta, ma lì per lì non si capisce, perché la vediamo solo per un momento – c’è uno stacco di montaggio: vediamo il degrado di quella casa, le foglie, le finestre infrante… e alla fine l’albero, fuori. La stessa inquadratura della finestra ritorna anche più tardi, dopo il segmento con la documentarista. Quella casa ha un significato che rimane al di fuori del film. È quasi un gesto di superstizione da parte mia: un gesto privato, incomprensibile per chiunque, a meno che non lo spieghi io stessa. Una celebre scrittrice tailandese, K. Surangkanang, ha vissuto lì, molto tempo fa. È forse l’equivalente di Jane Austen in Thailandia, autrice di alcuni romanzi popolarissimi, adattati per il cinema e per la televisione. Ma è anche un personaggio tragico, con una biografia difficile. Questa che vediamo nel film era la sua casa. Quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura un amico me ne ha parlato: sono andata a visitarla, e c’era qualcosa in quel posto che mi ha attirato. Dopodiché qualcuno mi ha detto che presto sarebbe stata demolita. Allora mi sono ripromessa, quasi per scaramanzia, di includere la casa nel film. E ho scritto quella scena con la finestra, senza nemmeno sapere se avrei poi potuto girarla. Due anni dopo, quando finalmente siamo partiti con la produzione, la casa era ancora in piedi. E così ci sono tornata, ed è stata la prima location che abbiamo ripreso.
FI: Come un rituale propiziatorio?
AS: In un certo senso. Mi ero detta: se quando partiamo con la produzione la casa sarà ancora in piedi, dovrò fare in modo di includerla nel film, anche se la scena in sé non farà parte della storia. Se non fosse stata lì, non so, forse non avrei creduto nel film allo stesso modo. Invece alla fine la casa era lì, ed è diventata il mio il mio modo di esprimere rispetto per la scrittrice, e allo stesso tempo offrire agli spettatori una porta d’ingresso nel film.
FI: Un dettaglio rivelatore, in un certo senso… La casa crea uno spazio esterno alla superficie del film, e in più funziona come un sito di memoria, di significato nascosto, interiore, che si oppone al resto. Potremmo vedere il film come uno strato di immagini avvolto intorno a un nocciolo: le immagini cercano di rappresentare questo nocciolo, ma proprio nell’atto di rappresentarlo continuano a spostarlo, senza riuscire ad afferrarlo. E la casa è l’ingresso di questo processo: fornisce uno spazio a cui ancorarsi, un punto fermo prima di entrare in questo gioco di immagini. Si potrebbe perfino considerarla come l’altro lato della sgranatura digitale alla fine del film. Da una parte hai la deformazione tecnica della superficie dell’immagine, e dall’altro la casa in procinto di scivolare nell’oblio, e scomparire, che però è anche un sito di memoria, uno strato depositato di tempo. Questi due elementi si possono contrapporre creativamente, no?
AS: Nella stesura originale del copione la sgranatura digitale era all’inizio del film.
FI: E non c’era la casa?
AS: No.
FI: Visto che stiamo parlando di quella distorsione digitale: ci è sembrato che come trovata tecnica fosse incredibile. Forse l’unico modo di concludere qualcosa che non si può concludere. Come hai avuto l’idea di chiudere su quell’intoppo dell’immagine?
AS: Be’, come ho appena detto, nella stesura originale quella sgranatura era all’inizio del film. Ma in un certo senso poteva funzionare anche come conclusione, proprio perché c’è questa idea che le cose continuano comunque a girare, finché a un certo punto sembra quasi che tutto stia franando – cadendo a pezzi e scomponendosi. Insomma l’idea era che questa immagine potesse fungere tanto da inizio quanto da fine. In termini tecnici, non saprei cosa dire… l’idea di mostrare la grana digitale era nel copione originale. Le immagini digitale sono diverse da quelle in celluloide: può darsi che l’ispirazione per quella trovata mi sia venuta dall’esperienza di vedere immagini simili al cinema, quando capitano intoppi tecnici nella proiezione di formati digitali.
FI: Vedi un contrasto tra formati digitali e formati analogici tradizionali?
AS: In realtà io ho girato del materiale su pellicola per questo film. Immagini di macerie, edifici in rovina. Alla fine ho deciso di non usare quel materiale, perché quando ho iniziato a girare, circa tre anni fa, mi sembrava che fossimo ancora in un periodo di transizione, dalla pellicola al digitale, mentre ora mi sembra che quel periodo sia concluso. Siamo pienamente in un’era digitale, e non ho voluto includere la porzione in pellicola. Questa è la realtà con cui dobbiamo confrontarci. Per questa ragione non voglio fare paragoni: mi interessa piuttosto riflettere sulla natura specifica dell’immagine digitale, su come può essere manipolata, nel bene e nel male. E non penso che in quel senso ci sia una grossa differenza rispetto alla pellicola: un’immagine è un’immagine. La si può manipolare. Luci, taglio, composizione… ma quando l’immagine collassa e si decompone, ecco, a quel punto ho voluto staccare su una scena bucolica, un idillio naturale. L’immagine si scompone nella sua grana digitale, e si ricompone in una scena bucolica. Come dicevo in conferenza stampa, l’intenzione era quella di creare un’immagine perfetta ma allo stesso tempo banale. Come spettatore, la puoi leggere come preferisci: alcuni l’hanno trovata bellissima. Ad altri ha ricordato lo sfondo di Windows 98.
FI: È vero!
AS: Il riferimento non è intenzionale, ma funziona: il punto è che si tratta di qualcosa che può essere replicato.
FI: Giusto per aggiungere un ulteriore livello di complessità al film, molti personaggi hanno ruoli che ricalcano la vita reale degli attori che li interpretano: il regista è un regista, la donna che rievoca il massacro è un’attivista politica…
AS: Vero, ma il personaggio non è basato sulla sua vita.
FI: D’accordo. Ma per esempio, la ragazza che cambia spesso lavoro è interpretata da un’attrice che ha davvero lavorato come cameriera. Ci sembra che queste corrispondenze siano volute, e che aggiungano un livello ulteriore: un corto-circuito tra realtà e finzione. Ci chiedevamo in particolare come questa sovrapposizione di ruoli si sia espressa sul set, se sia risultata utile in qualche modo?
AS: Sì, ma allo stesso tempo tutto era molto scritto. Il copione era chiuso prima del casting.
FI: E l’attore ovviamente è un attore…
AS: Sì, ma in realtà quello è l’unico personaggio per il quale ho cercato di adattare la parte perché riflettesse aspetti della vita reale dell’attore, che pratica davvero arrampicata, ed è anche un cantante. Quanto agli altri personaggi, avevo già scritto quelle scene prima di incontrare gli interpreti. Conoscevo la regista, ma non avevo lei in mente quando ho scritto quella parte. È solo dopo aver finito il copione che ho pensato che fosse adatta alla parte. E in ogni caso abbiamo provato un sacco. Quanto all’esperienza sul set, non credo sia stato particolarmente diverso da come ho lavorato con gli attori negli altri film che ho diretto. Il personaggio della scrittrice in passato aveva lavorato come commediografa, quindi aveva un po’ di esperienza in teatro, ma non al cinema. In quel senso è stato un po’ difficile, lavorare con lei e con la regista, perché avevano approcci molto diversi. La scrittrice, abituata al teatro, aveva bisogno di molte riprese per entrare nel personaggio, mentre la regista è un carattere molto spontaneo nella vita reale, quindi dava il meglio nelle prime riprese, ma più ripetevamo più perdeva energia. Ho dovuto bilanciare quella dinamica.
FI: C’è un’ultima domanda che ci sta molto a cuore. Riguarda il film come processo. Da quel che dicevi in conferenza stampa, e da quel che si evince dal film, è piuttosto chiaro che a un certo livello si tratti di un processo culturale e sociale, l’elaborazione di un trauma storico che non è stato affrontato, e in quel senso il film sembra suggerire – a partire dal titolo – che si tratti di un processo in divenire, che si sia ancora bloccati in una fase di transizione, passaggio, avvicinamento perpetuo. La processualità in questo caso è la risposta: abbiamo elaborato già? No, non ancora, lo stiamo facendo. Ma a un livello più personale, ci chiedevamo: tu hai dichiarato, sono una cineasta, non una storica, e questo è il mio modo di elaborare il mio personale legame con quel passato, il fatto che io sia nata in quell’anno. Per inciso, questo approccio mi ha fatto pensare a un film di Ari Folman, Valzer con Bashir, Anche lì avviene qualcosa di simile: un cineasta fa i conti con un trauma storico che è allo stesso tempo una memoria personale, una memoria che il regista deve in qualche modo ‘ricostruire’, con cui deve ritrovare un rapporto – ma questo è solo un inciso. La domanda invece è questa: alla fine di questo processo, senti una qualche riconciliazione con quell’evento drammatico? In altre parole, credi di aver fatto quello che potevi, a livello personale, per ricucire lo strappo ed elaborare quel ricordo?
AS: Sì, ma non è abbastanza. Credo di aver fatto quello che potevo in termini di elaborazione cinematografica, ma credo anche che ci sia qualcosa che va oltre, che deve essere ancora esplorato. Qualcosa che forse esiste al di là del cinema, e non so se il cinema sia lo strumento giusto per … No, anzi, non so se possa essere risolto. Voglio dire, il cinema è uno strumento per ricordare, giusto, ma ricordare è abbastanza, in questo caso? Non lo so. Ho fatto il meglio che potevo con questo film, e non credo di poter fare di meglio. È strano, non l’ho mai detto prima, per nessuno dei film che ho fatto in passato, ma credo davvero di aver raggiunto il limite di quello che questo film poteva essere. Eppure continuo a sentire che c’è qualcosa di più da dire. Il film non è abbastanza.
FI: Può essere che abbia a che fare con la natura del medium. Come cineasta, il tuo mestiere è costruire immagini, ma, a conti fatti, qui le immagini sono parte del problema. Il tuo era un compito auto-riflessivo: il meglio che potevi ottenere era di mettere a fuoco un processo. Se ci possa essere qualcosa al di là del processo in sé, a questo punto, diventa una domanda filosofica.
AS: Non lo so. E questo, in sé, è una tragedia. Non l’ho detto da quando sono qui, ma in Thailandia, durante la lavorazione del film, quando la gente mi chiedeva di cosa parlasse, rispondevo sempre: non sapere. È un film sul non sapere. E ancora adesso sono convinta che non sappiamo quello che non sappiamo. Ed è una tragedia. Se lo sapessimo, forse potremmo immaginare un cambiamento. Ma non so quello che non so.