Guilty pleasure per tanti cinefili che, col senno di poi, l’hanno definito furbo, ideologico e reazionario, Trainspotting era stato, nel bene e nel male, un film imprescindibile. Aveva intercettato e racchiuso quegli anni ’90 postmoderni, nostalgici e nichilisti, come pochi altri a cavallo tra il mainstream e l’autorialità erano riusciti a fare. T2, attesissimo sequel, non può avanzare le stesse pretese, eppure ci dice qualcosa sulla nostra epoca e su cosa è cambiato (e cosa no) in questi ultimi vent’anni. Boyle punta tutto sull’operazione nostalgia, e non ne fa mistero, citando spudoratamente se stesso con precisione filologica: se l’originale si apre con Mark Renton che corre senza meta per le strade di Glasgow nel corso dell’ennesimo furto, qui lo ritroviamo invecchiato di vent’anni in una palestra di Amsterdam, su un tapis roulant. Tutto è cambiato, non c’è più l’energia iconoclasta e il senso di libertà di una volta, ma in realtà niente è cambiato: si continua a correre come criceti su una ruota senza direzione, ingabbiati nella medesima coazione a ripetere.
Avevamo lasciato Mark, io narrante del primo film, avviato sorridente verso una nuova vita, sulle spalle una borsa piena di sterline ottenuta al prezzo del tradimento degli amici di una vita. La trama (inconsistente) del sequel lo vede fare ritorno in Scozia e racconta il reintrecciarsi delle relazioni con il vecchio gruppo, dopo il fallito tentativo di costruirsi un’esistenza rispettabile. Ritroviamo Begbie, psicopatico violento e machista come sempre, intenzionato a vendicarsi; Spud, ancora tossico ma, oggi come allora, ingenuo e di buon cuore; Simon “Sick Boy”, passato alla coca e a ricatti politici, con il quale Renton ricrea un bromance basato sul riconoscersi inaffidabili canaglie. Completano il quadro copiosi cammei degli altri personaggi e poche nuove leve utili solo a ricreare vecchie dinamiche. Il fallimento di un progetto esistenziale è condiviso da tutti i personaggi, che dopo vent’anni sono ancora identici a se stessi, e anche la tardiva redenzione di Spud, eletto a narratore interno (come improbabile alter ego di Irvine Welsh) serve solo a ricalcare l’ennesimo cliché metanarrativo proprio della postmodernità. Le due ore di film scorrono prevedibili, in un crescendo di provocazioni ormai trite e ritrite, supportate dalla fotografia magniloquente e dallo stile registico sfacciatamente virtuosistico, ormai marchi di fabbrica di Boyle. Nessun inganno, nessuna ricaduta nella droga e nei suoi vecchi pattern, nessuna scena di violenza e nessuna scorrettezza del plot ambisce a sovvertire il passato o a superarlo, ma solo a ripeterlo all’infinito, procedendo per addizione. La forma rispecchia il vuoto narrativo, la circolarità posticcia della vicenda.
È una trasgressione superficiale che non aggiunge niente, nella sua addizione, al primo film: che la scelta tra vita da tossico e vita borghese fosse una finta alternativa lo dichiarava già il monologo finale del 1996, quel choose life che elencava tutte le brutture, le violenze, lo squallore, la disperazione che si celavano dietro a quanto che ci spacciavano per equilibrio, successo, realizzazione personale. Quel choose life che era diventato un mantra per una generazione, quella che se anche non si faceva di eroina aveva ancora qualcosa in cui credere perché credeva, almeno, nel proprio cinismo. Credeva nell’ironia. Credeva di aver capito la truffa. Ma cosa c’è dopo il nichilismo? Cosa rimane? Sarà il successo commerciale del film a decretarlo. Perché tutta l’operazione di T2, autofagocitandosi per l’ennesima volta, rischia di dimostrare che il postmoderno, non essendo uno stile quanto piuttosto – come notava Fredric Jameson ormai quasi trent’anni fa – la logica culturale del tardo capitalismo, proprio come quest’ultimo è ben lungi dal volgere al termine. Anzi, adottando una terminologia cara alla sua ultima incarnazione neoliberale, è sempre in grado di “reinventarsi”, proprio come Renton e i suoi sodali.