“Come si fa a diventare una bestia?”. “Con il tempo”.
Da questa domanda fatta da un giovane alunno al suo insegnante, e specialmente dalla risposta di quest’ultimo, si dirama tutto il senso della recente opera del regista iraniano Asghar Farhadi, Il cliente: l’abbattimento progressivo di ogni sovrastruttura sociale, che conduce alla natura ferina ed essenzialmente retrograda dell’uomo. Dopo un’importante digressione francese con Il passato, Farhadi torna a raccontare le mille pieghe sociali della sua terra, mostrando un Iran carico di contraddizioni e ferite nascoste, e concentrandosi ancora, come fece ai tempi di Una separazione, sulle differenze culturali e di censo che in una città complessa come Teheran sono oggi quanto mai vivide e presenti.
Il film, dopo un prologo raffigurante alcune scene teatrali deserte che richiamano un immobilismo che dagli spazi si trasferirà alle coscienze, inizia immergendo la narrazione all’interno di un vorticoso piano sequenza, che mette in scena l’evacuazione di un palazzo gravemente pericolante, accompagnando la coppia dei protagonisti, Emad e Raana, alla ricerca forzata di una nuova abitazione. Non trovandola nell’immediato, i due accettano di essere ospitati nella casa di proprietà di un caro amico, che recita con loro in una rappresentazione di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. La nuova abitazione però porta con sé il passato della sua precedente inquilina.
L’uso sottotestuale dell’immagine del palazzo a rischio di crollo, della rappresentazione teatrale e della presenza/assenza di questo ulteriore personaggio femminile, contribuiscono inizialmente a disegnare la fotografia di una relazione di coppia in progressiva e paradossale demolizione: mentre tuttavia ne Il passato il microcosmo relazionale rimaneva ancorato alla dimensione amorosa, ne Il cliente arriva ad abbracciare il macrocosmo del sentimento di un intero Paese.
“Bisognerebbe buttare giù tutto e ricostruire”, afferma Emad. “L’hanno già fatto e guarda cosa ne è venuto fuori”, gli risponde il suo amico. La demolizione del vecchio Iran ha dato alla luce una classe media che si pone certo come più occidentalizzata e progressista, ma la ricostruzione tace le stesse crepe presenti nell’abitazione originaria dei protagonisti, crepe dietro le quali si celano gli abissi del passato, aggravati forse dalla volontà di imitazione di una società altra: all’iniquità di un mondo che non riesce a disfarsi di una mentalità padronale, conservandola sottopelle, si aggiunge dunque il pericolo della non autenticità.
L’istanza meta-discorsiva della rappresentazione teatrale serve poi all’impianto drammaturgico per sottolineare le strategie, più o meno consapevoli, che la classe intellettuale iraniana, di cui Emad e Raana sono parte integrante, imbastiscono nel rapporto con la propria società. Farhadi mette in parallelo il racconto di finzione del commesso viaggiatore di Miller e l’incontro con un vero commesso viaggiatore, un uomo di mezza età afflitto dalle sue stesse bassezze, che senza volerlo porterà Emad a scoprirsi altrettanto mediocre, superficiale e meschino, con la differenza che il primo è calato in una classe e in un ambiente d’appartenenza inevitabilmente imprigionanti, mentre Emad non ha giustificazioni, se di giustificazioni si può parlare. Ed è a questo punto che i protagonisti sprigionano tutta la loro forza: Farhadi svela la costruzione del personaggio di Raana, che in principio era stata volutamente travestita da vittima, come una donna integra e capace di tenere fede ai propri principi, mentre il focus sul personaggio di Emad deflagra in una cieca e ostinata volontà di vendicarsi, come si addice alla più bieca tradizione giustizialista dell’occhio per occhio e dente per dente.
Nelle storie di Farhadi il passato è sempre un’ingombrante entità di difficile gestione, proprio come l’influenza che la ragazza che abitava la casa prima dei due protagonisti esercita sull’evolversi dell’intreccio narrativo. In questo personaggio, che pur non si vede mai, il regista e sceneggiatore racchiude l’archetipo di un’eredità burrascosa, primordiale e affetta da congenita iniquità, capace di infiltrarsi nelle vite dei nuovi inquilini (dell’appartamento, ma forse anche della nazione) fino a trasformare chi è più fragile – non nell’apparenza, ma nella sostanza – in ciò che forse è sempre stato: una bestia.
Ecco allora che la domanda del giovane allievo (forse una generazione ulteriore cui toccherà raccogliere le ipocrisie dei predecessori e farle proprie?) e la risposta dell’insegnante pronunciate all’inizio del film, assumono un senso completo. Il tempo e le circostanze svelano chi realmente siamo, dimostrando una resistenza al cambiamento: se vogliamo trovare un colpevole, non resta che guardarci allo specchio. Il cliente si spinge infatti oltre la contrapposizione tra privato e società nazionale, andando a delineare una sottile riflessione sulle tendenze retoriche di un presente che nasconde, dietro l’aspirazione a un innalzamento morale, le stesse bestialità dei tempi passati, e che anzi si appropria dell’evoluzione positiva della coscienza per alimentare un bieco culto del sé, capace di sviare il senso comune più di quanto già non facessero la propaganda, e le sue armi ben più basiche, in passato.
Premiato all’ultimo Festival di Cannes per la sceneggiatura e per la migliore interpretazione maschile di Shahab Hosseini, Il cliente è l’ennesima prova della lucidità autentica del proprio regista, in grado di maneggiare una narrazione più che mai rigorosa per smascherare l’ambiguità del nostro tempo, e le trappole che ne derivano per tutti noi.