Per i ritmi nipponici di François Ozon, due anni somigliano a un’eternità. E Frantz non nasconde nulla del lungo lavoro preparatorio che lo ha preceduto. La fonte dichiarata è L’uomo che ho ucciso (Broken Lullaby), opera trascurata di Ernst Lubitsch, citata più per la sua natura anomala – si tratta di un film drammatico – che per i suoi esiti (fu un insuccesso, benché tratto a sua volta da una pièce di Maurice Rostand, che seppe cogliere appieno lo spirito pacifista dei primi anni Venti). Ma in un film che fonda la sua stessa esistenza sull’assenza e sulla menzogna, e che prende il nome dal personaggio di un morto, la citazione palese è la meno rilevante tra le molte affrontate da Ozon.
Frantz trova la sua forza nell’inganno, componente da sempre presente nella poetica dell’autore di Swimming Pool, portata qui a nuove vette. La rivelazione, e il punto di svolta che trasforma il remake in un’opera del tutto originale, arriva a metà e spacca in due la narrazione, ribaltandone il baricentro. Le menzogne di Adrien, falso come Julien Sorel, ma candido e impossibile da odiare come Frédéric Moreau, guidano Anna, palindroma già nel nome, ad assumere il controllo della narrazione e a trasformare la sofferenza in riscatto. O forse no: il percorso di mistificazione e doppiezza è degno di un Mulholland Drive in costume.
Con il volgere del fulcro narrativo verso il femminino, Ozon fa suo l’intreccio e ripensa l’opera originaria, svuotandola di senso per aggiungerne uno nuovo. Il borgo tedesco di Quedlinburg, così vicino al suo stereotipo da sembrare una cartolina del medesimo, lascia posto alla Ville Lumière e allo slancio delle emozioni, infine liberate dalla gabbia opprimente del ricordo. Il bianco e nero molto nero dell’impeccabile fotografia di Pascal Marti diviene quasi, nel segmento francese, una mistura argentea. Ma Frantz, che non è un film su Frantz, non è un film su un amore impossibile e non è un mélo, ma trova in tutto il suo non essere una nuova e sfuggente identità, non è neanche un film in bianco e nero. Il colore, sovraccarico e irreale, irrompe all’improvviso, spezza il ritmo, moltiplica l’inganno. Niente di ciò che vediamo a colori sembra vero, anzi pare quasi un’ardita autoparodia del cinema dello stesso Ozon. Quel che vediamo a colori – il sottotesto omoerotico, l’esternazione delle emozioni, il romantico amore disperato – sembra ricondurre così chiaramente ai cliché della poetica del suo autore da configurare un nuovo subdolo livello di inganno, tale da attraversare questa volta in senso perpendicolare lo schermo.
Il regista gioca consapevolmente con il proprio pubblico, mentre le menzogne dello storytelling diventano tessere intercambiabili di un paesaggio infinito: qualunque sia la disposizione di queste, Adrien mente e Anna lo insegue, vanamente. Ma, se il colore rappresenta la sfera narrativamente onirica (o metacinematografica) – immaginazione, ricordo o immaginazione di un ricordo – il bianco e nero argenteo di Parigi non può che rappresentare il cinema: menzognero nella sua essenza, affabulatore nella sua capacità di trascinare altrove, duplice e simmetrico come un negativo lo è di un positivo.
Frantz attraversa il doloroso confine tra Francia e Germania, crepaccio d’Europa, come a saggiare la profondità di una cicatrice che non trova pace, cinematograficamente esplorata dai più grandi. Da Truffaut, quando elabora un impossibile annullamento delle rispettive diversità (Jules e Jim); da Kubrick, quando si addentra nel formicaio della guerra di trincea (Orizzonti di gloria). Ma è sorprendentemente quest’ultimo, così apparentemente lontano dalla sensibilità di Ozon, a ispirare più profondamente Frantz. A riecheggiare nella Marsigliese orgogliosamente cantata dai francesi vincitori, o attraverso l’Ophüls di Lettera da una sconosciuta, tanto amato da Kubrick da divenire quasi suo. Con un processo analogo di possesso, anche Ozon assorbe nobili influenze ma rifugge una rappresentazione postmoderna delle stesse. Ozon sceglie l’inganno, il ratto, l’usucapione cinematografica. E trova in questo modo la propria identità e il proprio senso, così come lo sguardo aperto sbarrato di Anna – una straordinaria e giustamente premiata Paula Beer – trafigge la macchina da presa, nella straordinaria soggettiva del Suicidé di Manet che chiude il film.