Nel racconto di Kafka Relazione per un’accademia un conferenziere che, da scimmia quale era, è diventato un uomo per eludere la cattività, ammette immediatamente l’impossibilità di ricostruire questa salvifica trasformazione. La vita scimmiesca è qualcosa di irrintracciabile, punteggiata da iati incolmabili: sopravvive il ricordo franto di una libertà negata, di una fortissima costrizione, e da qui una necessità di assoluta sopravvivenza, l’accettazione di un salto che consenta all’animale di farsi uomo – forse non più libero di prima, ma ancora vivo.[1]

Di salti il cinema di Marco Bellocchio è pieno, non tutti votati a una benefica trasformazione. I più dolorosi, ora pianificati, ora improvvisi, sono quelli dei suicidi nel flusso impalpabile del vuoto. Hanno a che fare con le condanne che il desiderio di libertà – anche passiva: rifiuto del cambiamento, del dolore – provoca negli individui, processo che il regista ha tratteggiato fin dai suoi esordi e forse mai cesserà di mettere in scena. I suoi personaggi si potrebbero dividere tra chi, in nome della propria libertà, preferisce morire e rimanere se stesso, e chi invece non può fare a meno di sopravvivere, e impara a trasformarsi, modulando il divenire di un’identità. In Fai bei sogni, presentato all’ultima Quinzaine des Réalisateurs, al centro del racconto è un bambino che, dopo quarant’anni dalla morte della madre che lo ha reso orfano, non è ancora in grado di compiere il salto che lo renderà un uomo adulto.

Il film, come noto, è il libero adattamento per lo schermo del romanzo autobiografico del giornalista e conduttore televisivo Massimo Gramellini, realmente colpito all’età di nove anni dalla morte della madre, dei cui dettagli fondamentali resterà ignaro per lunghissimo tempo. La sincerità del percorso umano di Gramellini – che purtroppo non ha, per molte ragioni, esiti altrettanto felici sul piano letterario – inquadra immediatamente un aspetto centrale del proprio farsi: il piccolo Massimo non è soltanto orfano della figura materna, ma della verità stessa. Quello che Bellocchio è capace di fare, nonostante alcuni passi falsi nelle sequenze sceneggiate con Valia Santella e Edoardo Albinati, è di amplificare questo rapporto irrisolto con la realtà e processarlo entro la prospettiva non di un singolo – come fa Gramellini parlando di sé – ma di un intero Paese.

La vicenda non poteva che costruirsi secondo due tensioni. Da una parte la costante frizione temporale tra il piano del passato – Massimo bambino, Massimo adolescente, Massimo giovane giornalista, tutti visti retrospettivamente – e quello dell’oggi, perché la memoria è un campo di battaglia parzialmente annebbiato, costellato di buche, scarti e sintesi impreviste. D’altra parte un atteggiamento di pacato realismo, privo degli abituali slanci visionari del regista, in cui il trauma, sconosciuto al protagonista nella sua dimensione di verità, serpeggia nell’azione senza che personaggio e spettatori possano codificarne perfettamente i messaggi. Chi ha letto il romanzo ha già in mano la chiave e attende il colpo di scena. A Bellocchio, che pure riesce a dotare questa svolta conclusiva di una felice tensione, non interessa l’informazione mancante. Lo attrae piuttosto la schermatura che, prima la famiglia di Massimo per proteggerlo, poi un’intera comunità umana che lo circonda e senza troppe domande lo ingloba, mettono in atto per sublimare l’assenza di senso che una scomparsa così fulminea porta con sé. Questa rimozione della morte è endemica, e attraverso gli occhi di Massimo si perpetua osmoticamente su una cultura italiana divisa tra il vuoto magnetismo dello spettacolo televisivo – mirabile, al solito, l’uso che Bellocchio fa dell’archivio ufficiale – e la corruzione, morale e intellettuale, di cui si sono vestiti negli ultimi anni i mestieri della cultura, dell’informazione e della politica.­

Insomma, il vero punto di domanda che Bellocchio lascia aperto non è se Massimo sia stato vittima di un fantomatico sistema, ma in quale maniera esatta abbia finito per diventarlo. Perché lo si voleva proteggere e ci si è dimenticati di dirgli la verità? Forse perché quell’oblio perpetrato tra i riflessi di una catodica fuga dalla realtà veniva meglio alle coscienze di tutti? L’Italia di Gramellini ha poi fatto quel salto per sopravvivere o si è più probabilmente tuffata nel vuoto? Difficile dipanare le domande, non fosse che, clamorosamente, quella vittima eternamente affranta per la perdita della mamma, in virtù della scelta di rendere pubblica la propria storia – la divertente sequenza della risposta al lettore della Stampa che dice di odiare sua madre – è stata assorbita dalla retorica del sistema stesso, che attraverso il successo procuratogli (giornalistico nel film, ma nella realtà anche televisivo!)… si redime e chiude definitivamente il cerchio. Da vittima, a psicologo mediatico nazionale.

Conoscere la verità a distanza di anni, per il Massimo interpretato senza strambe imitazioni da Valerio Mastandrea, non significa naturalmente vedere risolti i problemi di una vita intera. Una trasformazione necessaria a sopravvivere il personaggio l’aveva già faticosamente abbracciata, e declinata tra mille prove più o meno velate di inettitudine. Accanto a una donna che potrebbe amarlo per ragioni molto diverse da quelle dei suoi lettori, sembrerebbe riposare adesso più sereno. Ritorna la scena primaria del bacio di una madre che sa di stare per morire e saluta il figlio dormiente, sussurrandogli le parole del titolo. Quella scena, invisibile al protagonista, è un’immagine che solo lo spettatore può visualizzare: non fosse per una vestaglia lasciata sul letto del bambino, potrebbe anche trattarsi di un sogno, di un refuso interiore.

Di queste interferenze mentali così ben mimetizzate nell’oggettività della messinscena Fai bei sogni costituisce una curiosa e quasi ossessiva antologia. Fra le più ricorrenti, la suggestione della caduta: i tuffi degli olimpionici italiani in televisione, le imitazioni di Massimo bambino che si getta a pesce sul divano del salotto, il bustino di Napoleone, emblema dell’autorità paterna, lasciato precipitare dalla finestra, l’aereo del Grande Torino pianto e commemorato per il rovinoso destino sulla collina di Superga. Quando siamo in mezzo a un sogno, ci capita di percepire uno stato di caduta libera, quel piccolo salto, quella discontinuità inevitabile, che ci consente un risveglio, una sopravvivenza…


[1] Una lettura del racconto kafkiano è in Paolo Godani, Estasi e divenire. Un’estetica delle vie di scampo, Milano, Mimesis, 2001.