Fondata da Lino Micciché a metà anni Ottanta come sezione indipendente della Mostra di Venezia, riservata alle opere prime, la Settimana Internazionale della Critica è giunta all’edizione numero 31 con una commissione di selezionatori rinnovata per intero (composta da Luigi Abiusi, Alberto Anile, Beatrice Fiorentino e Massimo Tria) e guidata da un nuovo Delegato generale, Giona A. Nazzaro, che rimarrà in carica per almeno un triennio. Non si può sapere per certo se il nome di uno degli autori presentati dalla SIC nel 2016 figurerà un giorno accanto a quelli degli esordienti del passato poi confermatisi con i lavori successivi, quali Assayas, Pedro Costa, Bryan Singer, Korine, Mazzacurati, Mereu… Chi però cercasse nelle opere viste quest’anno al Lido il segno di una qualche novità rispetto alle ultime edizioni può trovarlo già nella scelta dei due film singolari eppure ‘generazionali’ collocati fuori concorso in apertura e chiusura della rassegna: vale a dire Prevenge di Alice Lowe, attrice britannica e co-autrice di Killer in viaggio (2012) di Ben Wheatley, che qui si dirige mentre è realmente incinta nella parte di una vendicatrice sanguinaria nient’affatto ingentilita dalla maternità; e l’allucinato Are we not cats del newyorkese Xander Robin, che ha per protagonisti due ragazzi uniti dalla tricotillomania (la compulsione di mangiare i propri capelli).
Tra i sette titoli del concorso ufficiale, non deludono la nostra “fame di realtà” i documentaristi passati al lungo con attori, come la torinese Irene Dionisio con il suo Le ultime cose o l’iraniano di origini curde Keywan Karimi, già condannato a carcere e frustate per “offesa alla sacralità islamica”, col noir urbano Drum. Le sorprese arrivano però anche da chi si era fatto conoscere come co-regista di un documentario che mostrava frontalmente la tragedia dei profughi in fuga dal Daesh, Babylon (2012), premiato al FID di Marsiglia: in Akher wahed fina (The Last of Us) il tunisino Ala Eddine Slim gioca infatti a spaesare l’orizzonte d’attesa dello spettatore e l’operazione riesce bene, come dimostrano i premi vinti dal film, quello per il miglior contributo tecnico conferito da una giuria interna al SNCCI e intitolato al montatore Mario Serandrei e soprattutto il Leone del futuro/Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis”, cui concorrevano tutti i lungometraggi d’esordio presenti nelle varie sezioni competitive della Mostra. Nella prima parte di Akher wahed fina si mostra il viaggio di un uomo di cui non conosceremo mai il nome, proveniente da un paese imprecisato del continente africano, rimasto solo prima di raggiungere la costa del Mediterraneo e che da solo affronta il mare su di una piccola barca di pescatori. L’uomo raggiunge effettivamente un altro mondo che però non assomiglia all’Europa che ci si poteva immaginare, è piuttosto un nessun-mondo, una terra selvaggia il cui unico abitante è un cacciatore-raccoglitore dalle sembianze quasi preistoriche. Qui il film si fa da molto concreto – mostrandoci le tecniche di sopravvivenza nella foresta – a sempre più astratto.
Il Premio principale della SIC 2016, quello del pubblico offerto dal Circolo del Cinema di Verona in occasione del suo settantesimo compleanno, è invece stato assegnato a Los nadie del colombiano Juan Sebastián Mesa. Realizzato in soli sette giorni a Medellín, il film ha per protagonisti cinque giovani punkettoni che sognano di lasciare la città e mettersi in viaggio nel Sud del paese, dove sperano anche di rifornirsi di droghe leggere. Girando in bianco e nero, Mesa si colloca più dalle parti del messicano Gueros (2014) che da quelle de L’Odio (1995): niente sangue, poco sesso (e senza malattie veneree, se non nella forma dell’onnipresente imprecazione colombiana “gonorrea!”), Los nadie è un film in apparenza rassicurante come certo cinema di/per ragazzi. Con un registro quasi spensierato, l’autore riesce però a rendere sia l’inquietudine autentica sia la seria incoscienza dei suoi personaggi, le cui scelte di vita sono motivate dalla volontà di smarcarsi dalla vera violenza sociale che intuiamo proliferare tutt’intorno a loro.
Jours de France di Jérôme Reybaud – già autore del documentario televisivo Qui êtes-vous Paul Vecchiali? (2012), a segnalare uno dei suoi possibili riferimenti cinematografici con Alain Guiraudie – è un viaggio erratico di quattro giorni nella provincia francese da nord a sud, da ovest a est guidato dall’applicazione d’incontri sessuali per soli uomini Grindr. Il protagonista, infatti, lascia Parigi, casa e compagno e si avventura in automobile verso l’ignoto, alla ricerca di nuovi stimoli sessuali e creativi. Tuttavia, nonostante GPS, mappe e navigatore, ben presto l’uomo smarrisce i punti di riferimento, si ritrova in lande desolate e finisce per perdere progressivamente di vista le ragioni del suo vagare. Viene in mente il recente saggio La radicalità dell’amore di Srécko Horvat (2016) secondo cui: “Sia che si celebri il desiderio, come le nostre recenti innovazioni sociali occidentali (Grindr, Tinder ecc.), sia che lo si vieti, come i fondamentalismi dell’Isis o dell’Iran, l’obiettivo è abolirne le stesse condizioni di possibilità, quel momento in cui ci si immerge e ci si perde…ma ancora si ricorda la strada”. In un mondo in cui il capitalismo usa il sesso come oppio per le masse, Jours de France ci mostra come la tecnologia sia uno degli strumenti adoperati dal potere per alimentare quel perenne senso di insoddisfazione e di frustrazione che ci rende più facilmente soli, sfuggenti e manipolabili. L’unica forma di resistenza a questo potere diffuso che penetra fin nei più profondi gangli delle nostre soggettività deriva dalla nostra capacità di stabilire legami reali basati sul contatto emotivo. Di camera car in camera car, gli sbandamenti sempre più dolenti del protagonista lo portano a comprendere che la via del desiderio non conosce scorciatoie e non sarà dunque né Grindr né il frenetico spigolare tra incontri fugaci ad appagarne l’universale, per quanto scomoda e capricciosa, fame d’amore.
Anche Singing in graveyards del malese Bradley Liew ha al suo centro una profonda solitudine esistenziale ma con un protagonista assoluto e alle soglie della terza età: la rockstar Pepe Smith, al secolo Joseph William Feliciano Smith, figlio di una donna filippina e di un militare americano presto scomparso dalla sua vita, e divenuto poi leggenda del Pinoy rock oltre che, con l’età, attore in diversi film. Un fenomeno all’incrocio tra Johnny Hallyday e Vasco Rossi, che qui si sdoppia per interpretare un patetico impersonator di se stesso che ha vissuto tutta la sua esistenza all’ombra del proprio idolo. A smorzare il rischio di un film troppo ripiegato sul suo ispiratore, ci sono anche il Leone d’Oro 2016 Lav Diaz nei panni dell’agente scurrile e inconcludente dell’imitatore, e un’altra star filippina, Mercedes Cabral, nella parte dell’attrice scarrierata che convive con il personaggio di Smith. Quest’ultimo resta però, con la sua fisicità scarnificata da vampiro del rock, il perno di quasi ogni scena allestita da Liew, che gli regala lunghi piani sequenza e momenti di contemplazione angosciata.
Infine, Prank del canadese Vincent Biron ha come protagonista l’adolescente Steph: molliccio, bruttino, apparecchio ai denti, una specie di epitome dello sfigato la cui vita un giorno cambia grazie all’incontro con un trio di annoiati coetanei (due ragazzi e una ragazza) dediti all’arte dello scherzo. I quattro dissipano le loro giornate mangiando hot dog ed escogitando trovate da filmare con i cellulari e postare su youtube. Il film si tiene in piedi grazie alla capacità di mantenere viva la tensione di un rapporto, quello tra Steph e i tre, nato sotto il segno della minaccia per il ragazzo di passare continuamente da insider a outsider del gruppo, da soggetto a oggetto della loro crudeltà crescente. Visivamente, Prank è punteggiato da bellissimi inserti animati che illustrano le scene dei film d’azione o di kung fu (Schwarzenegger, Van Damme, Bruce Lee) che il più cinefilo dei tre di tanto in tanto racconta a Steph. Meno stralunato e divertente di altri loser movies come Napoleon Dynamite (2004) e con qualche pretesta artistica in più rispetto a programmi tv tipo Punk’d, Prank flirta con il genere “rivincita dei nerd” o romance tra pupa e secchione ma non intraprende nessuna di queste strade e, a furia di non prendersi sul serio, finisce per risolversi in modo scontato. Così, dopo tanti frizzi e lazzi, la cosa più spassosa del film è il nome della casa di produzione: Romance Polanski.