Commedie e storie d’amore. L’opera di Luca Ferri è tutta qui. Da una parte Magog, Ecce Ubu, Caro nonno, a suo modo anche Curzio e Marzio; dall’altra Abacuc, Cane caro e diversi momenti di Una società di servizi. Sto schematizzando, ovviamente (dove collocare la sinfonia urbana di Ridotto Mattioni? E che posto occupa il videoclip di White Out?). Tutto sommato, credo si tratti di una distinzione utile per capire l’alternanza di umori da cui scaturiscono, di volta in volta, i film di Ferri. Se nelle commedie, infatti, ama spremere fino all’ultima goccia i succhi più corrosivi della propria ispirazione, nelle “storie d’amore” lascia sedimentare la collera in favore di uno sguardo più sereno, quasi empatico: in una parola, umano. E se è vero che ultimamente la seconda tendenza sembra prevalere, sbaglierebbe chi pensasse a un più o meno repentino cambio di rotta. Da una parte, perché un fondo di umanità ha sempre abitato il cinema di Ferri (talmente lontano da un certo umanesimo “a prezzi popolari” che in pochi vi hanno davvero fatto caso); dall’altra perché la vocazione fustigatrice del regista non è certo venuta meno negli ultimi lavori: penso all’orrore nei confronti di una certa mostruosità del quotidiano che avvicina due film apparentemente lontanissimi (cronologicamente e geograficamente) come Magog e Una società di servizi.
Più che altrove, mi sembra che in quest’ultimo Colombi i due registri coesistano in perfetto equilibrio. Sottotraccia, ancora una volta, scorre quell’indignazione – estetica, prima ancora che etica – che è una delle cifre più riconoscibili dell’opera ferriana. La scomparsa del pomello ottagonale della mitica caffettiera Bialetti che scorrazza a mo’ di tormentone per tutto il film, è la misura della decadenza del gusto nel corso di un secolo, cui Ferri non può fare altro che opporre, come già in passato, il rigore geometrico della propria regia.
Ma questi cento anni di decadenza (calcolati con precisione cronometrica: 1916-2016) sono anche «un secolo d’amore», quello che unisce gli eponimi protagonisti del film (impersonati da Giovanni Colombi e Annunciata Delcò). La loro purezza “fuori dal tempo” e la loro fragilità fisica vengono accentuate dallo sfarfallio e dalla sgranatura delle immagini in super8, quasi si trattasse di autentici reperti di un passato remotissimo. Così, con il trascorrere dei minuti, scompare ogni sospetto di ironia (che ancora poteva trapelare da Cane caro, col suo feticismo per le macchine, o da Una società di servizi, con la sua fascinazione/repulsione per un mondo “altro”) per lasciare il posto a un’autentica partecipazione, che raggiunge il culmine in quella sorta di entr’acte, di piccolo film-nel-film che è l’esibizione canora del signor Colombi. La struggente esecuzione di Credimi scavalca d’un balzo l’ammiccamento vagamente “pop” fornito dalla canzone di Tajoli per farsi estrema, forse disperata, dichiarazione d’amore alla compagna di una vita, il cui volto appare brevemente sullo schermo per essere poi inghiottito dai tagli e dai salti della pellicola in bianco e nero.
E se qua e là fanno ancora capolino l’attore-feticcio Dario Bacis (protagonista assoluto di Abacuc ed Ecce Ubu), la discrasia fra immagine e suono, la frustrazione delle attese spettatoriali (l’Intermezzo di Cavalleria rusticana sistematicamente interrotto), si tratta più che altro di reminiscenze, di scorie, di eventuali strizzate d’occhio agli habitués del cinema ferriano. Sempre coerente con se stesso e allo stesso tempo mai pago, Ferri non esita a mettere in discussione gli elementi cardine della propria opera. Basti pensare alla voce over, che in Colombi acquisisce una nuova “fisionomia”: non più quella asettica di un sintetizzatore, bensì quella di una donna (la filmmaker Assila Cherfi). Naturalmente il film perde qualcosa sul versante del grottesco, ma ne guadagna il tono complessivo: mai come in questo caso Ferri era stato così disperato e allo stesso tempo così elegiaco.
Concludendo la recensione di Abacuc, mi domandavo dove Ferri e il suo cinema ci avrebbero condotti. Oggi, a due anni e (almeno) altri sei film di distanza, la domanda non cambia. È come se a ogni nuova uscita, il Nostro lasciasse lo spettatore con la curiosità di capire quale sarà la mossa successiva, ovvero il modo con cui riuscirà a cavarsela dopo essersi messo in trappola con le proprie mani (l’amato cul-de-sac creativo, il muro da prendere a testate). Ferri escapologo, dunque? Lo scopriremo, forse, col prossimo film.