Dopo la vittoria dell’Orso d’argento al Festival di Berlino del 2015 con Aferim!, Radu Jude torna a concentrarsi sul passato della Romania nel suo ultimo film, Inimi cicatrizate, in concorso a Locarno. Se gli altri esponenti del nuovo cinema rumeno lavorano sulle attuali contraddizioni del Paese, il percorso artistico di Jude – classe 1977 – si sta sviluppando attorno all’indagine di epoche precedenti e ai rimossi che appartengono a generazioni dimenticate. La lente attraverso cui il regista osserva i periodi storici presi in esame non è quella del realismo sociale: al contrario, solo trasfigurando attraverso i generi che la finzione mette a disposizione – il western nel caso di Aferim!, il romanzo di formazione nell’ultimo lavoro – è possibile cogliere l’essenza di un passaggio epocale. Questa sua idea di cinema, peraltro, ha già toccato un nervo scoperto della società rumena: Aferim! non solo è stato il film più visto nel Paese durante il 2015, ma ha anche suscitato accese polemiche da parte della componente più nazionalista della Romania, dal momento che vi si affronta in maniera esplicita la questione della schiavitù a cui sono state ridotte le comunità rom nella metà dell’Ottocento. In Inimi cicatrizate, invece, il regista affronta la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo autobiografico di Max Blecher, un testo fondamentale per comprendere l’evoluzione politica del Paese tra le due Guerre.
Come lo scrittore, anche il protagonista del film – il cui nome è mutato da Jude in Emanuel – è affetto da tubercolosi ossea, e cerca una guarigione all’interno di un sanatorio. Tuttavia, lo spirito che pervade l’intera narrazione è quello della sconfitta: il ragazzo sa fin dall’inizio che la battaglia contro la malattia è persa in partenza. Così, il periodo di degenza viene rielaborato dalla sua memoria (e in primis da quella dello scrittore) come un insieme di episodi slegati l’uno dall’altro, in cui lui e gli altri giovani malati cercano, in maniera disperata quanto vitalistica, di godere degli istanti che hanno ancora a disposizione. Quello che dovrebbe essere un luogo di passaggio – al di fuori del quale la vita continua a seguire il proprio corso – diviene, per chi sa di non poter uscire, il mondo stesso. E dunque è proprio nel sanatorio che, per Emanuel, le cose accadono: è qui che si prova dolore, ma è sempre nello stesso luogo che si ama, si filosofeggia, si fa poesia, si sperimenta. Come se la giovinezza, anche in circostanze tragiche, domandasse di essere vissuta e sperimentata in tutte le sue dimensioni.
La messa in scena di Jude punta tutto sull’immobilità, confinando la macchina da presa a distanza dai personaggi e il protagonista quasi sempre disteso, come un Cristo morto di Mantegna. Il formato 4:3 enfatizza il senso di segregazione che percepiamo dai pazienti e, allo stesso tempo, con i suoi angoli smussati, richiama la forma di un oblò dal quale il mondo non può che apparire in forma parziale. La scelta di non concedere mai primi piani pone lo spettatore nella posizione di un altro paziente, ovvero nell’impossibilità di guardare con agio la scena. Il racconto diviene quindi la rappresentazione di un’attesa, fatta di bruschi chiaroscuri che conducono dalla più luminosa allegria, fino all’angoscia e alla frustrazione. Intanto, la radio trasmette le ultime notizie del Paese, dove l’estrema destra sta guadagnando terreno e l’antisemitismo sta diventando una minaccia sempre più reale. Per Emanuel, ebreo, la reclusione assume un significato politico, oltre che esistenziale. Jude gioca proprio con i paradossi ispirati da questa vicenda: chi sono i veri malati? Coloro che vivono l’immobilità del sanatorio, o chi si trova all’esterno e sostiene la superiorità di una razza?
Se il dolore fisico e i dolori sentimentali del giovane Emanuel possono trovare spazio sullo schermo, configurandosi come un romanzo di formazione interrotto, quello che rimane fuori dal quadro resta irrappresentabile. È proprio il fuoricampo a declinare la storia al presente: Jude chiude il film sull’immagine del cimitero ebraico di Roman dove, a qualche metro dalla tomba di Blecher, sono stati gettati i corpi di 1500 ebrei morti all’interno di alcuni vagoni ferroviari esposti al sole, durante l’estate del 1941. Come a dire che, per un’anima salvata dall’oblio grazie all’arte, ve ne sono centinaia ancora sepolte sotto il peso del silenzio.