Forse per presentare i film di Eduardo Williams, piuttosto che scriverne, bisognerebbe tentare di farne una mappa. Penso alle “carte” che Fernand Deligny e i suoi collaboratori realizzavano registrando i percorsi routinari di ragazzi mutatici e autistici, per abbracciare con l’immagine una sfera di esistenza a cui linguaggio non può attingere, disegnando tracce illeggibili eppure dotate di una sfuggente coerenza. Altrettanto arduo è seguire i percorsi fisici, e ancor più quelli mentali, dei personaggi, che si aggirano per il mondo sconclusionato, ma lucidamente concepito dal quasi trentenne regista argentino, fin dai primi cortometraggi. Quasi senza soluzione di continuità, questi abbozzi sono confluiti nel suo primo lungometraggio, El auge del humano, con cui Williams, da Locarno, si porta a casa (ammesso che abbia fissa dimora) il Pardo d’oro di Cineasti del presente e lo Swatch First Feature Award.
Trascinati dai sobbalzi della camera a mano in un girovagare incessante, si resta aggrappati al suo movimento, come all’unico linguaggio che possa tradurre l’esperienza di un mondo curiosamente opaco. A dispetto della verticale storica a cui il titolo allude, un “apogeo dell’umano” in cui saremmo immersi senza neanche accorgerci, il mondo di Williams è dominato da un’implacabile orizzontalità, fatta di spazi metonimici e di scarti incommensurabili, popolata di personaggi (prevalentemente ventenni di sesso maschile) tutti diversi e identici, intercambiabili come i pezzi di una macchina, ma irriducibili a una vera e propria funzione. Sempre a spasso, che stiano andando al lavoro o l’abbiano appena perso, sempre in cerca di una connessione, di un capannello di coetanei o di un internet café, ma serenamente dissociati dall’ambiente in cui vagano: accovacciati in una grotta o nel cavo di un albero come nella loro cameretta, a zonzo per strade allagate o cosparse di rovine, parlano del più e del meno e snocciolano aforismi fulminanti quanto fuori luogo, in un quotidiano apparentemente anodino, in cui qualcuno deve aver però spostato qualche pezzo, mescolato gli sfondi, senza farsi notare: un mondo paurosamente simile al nostro, dove sembra essere appena accaduto qualcosa di colossale e impercettibile, dove tutti appaiono sotto l’effetto di temporanee amnesie o, per dirla con Burroughs, di “droghe non ancora sintetizzate”.
Nella sommessa irrequietezza che ci accompagna, non sono vicende quelle che incontriamo, ma traiettorie in continua deriva, fughe di corpi e di parole. Spesso, nei campi lunghi e traballanti, non riusciamo nemmeno ad assegnare le battute a un personaggio preciso, come se attingessero direttamente a uno psichismo diffuso, dove le tracce mnestiche si confondono coi meme, le convinzioni personali sono condivise come notizie di dubbia affidabilità, le esternazioni sembrano spuntare da qualche regione opaca del cervello e restano sospese a mezz’aria, come nel sogno raccontato da uno di questi navigatori di terraferma, dove le pubblicità compaiono nel cielo, simili a nubi o pop-up. Tra pedinamento e complicità, le riprese di Williams sembrano una versione ben studiata dei video amatoriali girati ogni giorno da centinaia di migliaia di smartphone e postati su YouTube: via via, coi suoi lavori, il filmmaker ha raggiunto una vera perizia nel dare forma a coreografie lasse e indolenti, fatte di oziose peregrinazioni e soste in stanzette anguste, la cui unica finestra è lo schermo di un portatile. Ci si incontra e ci si perde in una casualità gassosa, in base a un ordine che sembra dettato da algoritmi capricciosi, concepiti non per amministrare le informazioni, ma per farle cozzare e ricomporle in collage surreali.
Uno sguardo fluttuante, sostenuto in una sfida continua e tentennante con la gravità del suolo, produce una strana forma di empatia, che non si indirizza a individui specifici, ma si diffonde su un intero gruppo, inseguendo una molteplicità in divenire, un organismo composto da tante particelle, che attraverso impreviste collisioni creano una strana armonia. Così le proteine vibrano simili a corde di violini “nel tuo corpo, mentre stai leggendo questo testo”: lo afferma una notizia captata a un certo punto da una pagina web, che assicura come la fonte sia “un gruppo di scienziati”. Verità poetica camuffata da bufala internet, o viceversa. La legge dell’assoluta permeabilità sembra l’unica in vigore, e anche la separazione originaria tra natura e civiltà sembra vacillare. Così le transizioni che marcano le tre parti del film, sbalzandoci da un punto all’altro del globo, dall’Argentina al Mozambico e da qui alle Filippine, avvengono prima attraverso lo streaming video di una chat e poi infilandosi nei cunicoli di un formicaio. Nonostante l’analogia tentatrice tra questi siti comunitari, lo sguardo di Williams, l’incertezza programmatica del suo punto di osservazione, non ispira mai la freddezza dell’entomologo, ma l’ammirazione divertita di chi, nella traccia vivente formata da quei minuscoli esseri, osserva il prodigioso manifestarsi di un’entità sovra-individuale.
Per ragioni diverse, vengono in mente altri due film di pedinamento: in Elephant (2003) di Gus Van Sant i ragazzi girano ossessivamente per i corridoi della loro scuola: non hanno vie di fuga dalle coordinate di morte che li attendono; in Let Each One Go Where He May (2009) di Ben Russell, è invece la Storia (quella del Suriname) a tracciare il sentiero, che i due protagonisti ripercorrono come un atto di memoria, come i loro antenati schiavi, quando trecento anni prima fuggirono dai padroni olandesi. Diversamente da questi casi, i personaggi di Williams percorrono uno spazio che sembra privo di limiti o minacce, immersi in un misto di noia e stupore, ma inchiodati a un tempo evacuato da ogni storicità, dove passato, presente e futuro collassano e diventano indiscernibili. “La lontananza dei Paesi compensa in qualche modo la troppo grande prossimità dei tempi”: l’epigrafe di Sans Soleil (1983) di Chris Marker potrebbe essere un motto ispiratore per i continui spostamenti di Williams. Già nei film precedenti si era mosso dall’Argentina, dove sono girati i primi due corti (Pude ver un puma, 2011 e El ruido de las estrellas me aturde, 2012), in Sierra Leone (Que je tombe tout le temps?, 2013) e in Vietnam (Tôi quên rồi!, 2014). Forse per scampare all’incessante ripresentarsi dell’uguale e ritrovarlo puntualmente, però magari con una smorfia e un accento lievemente diversi, altri volti e lingue, che si può solo sperare restino almeno un po’ alieni e incomprensibili: “Una volta sono stato in un posto dove non capivo niente. È stato fantastico”, esclama a un certo punto uno dei suoi personaggi.
Non è difficile intuire quale forma e tecnologica e culturale governi i principi questo mondo fluido, ansiosamente in cerca di una reiterata novità: se il Web, come si dice in Lo and Behold (2016) di Werner Herzog, è il sogno di Internet, della sua infrastruttura, i ragazzi di Williams vivono placidamente invischiati in questo sogno, che però sembra sia misteriosamente percolato nella realtà. Certo, nel corso del film incontriamo insistentemente schermi di smartphone e laptop, e addirittura vi penetriamo, abbandonando il mondo analogico della pellicola 16mm (con cui è girata la prima sezione argentina) per passare alle riprese digitali realizzate in Mozambico con una Black Magic (ma rifilmate poi in 16mm proprio dallo schermo di un laptop) e finire con le immagini integralmente digitali della Red usata nelle Filippine. Tuttavia, il mondo di Williams sembra aver metabolizzato la rete e averne fatto il suo autentico tessuto. L’infrastruttura è fatta tanto di cavi e monitor quanto di liane e pozze d’acqua: tecnica e natura si scambiano funzioni e attributi con fare sornione, fondendosi in un sogno stralunato, che schiva i toni apocalittici, ma non riserva nemmeno le promesse utopiche attribuite da Walter Benjamin a una “seconda tecnica” felicemente naturalizzata, quella che egli intuiva nelle visioni di Fourier o di Disney. Piuttosto è un mondo che rimanda un balbettio buffo e inquietante, come possono esserlo certe casuali associazioni prodotte dai motori di ricerca o da un cervello affetto da Alzheimer. Solo il finale, dopo tanto movimento, raggiunge una stasi, di fronte allo schermo spento di un tablet nel suo sito di produzione, mentre una voce meccanica ripete il suo algido “ok”, licenziando i prodotti dalla catena di produzione. Sembra qui di toccare, finalmente, l’hardware di quel sogno, di questo film: in un luogo dove il lavoro è ancora lavoro, ancora umano e sfruttato, nonostante la presenza incombente delle macchine. Ma già lo sappiamo: appena quello schermo si accenderà, riprenderanno le danze.