Come titolo del suo ultimo film, Herzog ha scelto un’espressione idiomatica anglosassone lievemente desueta, composta dall’abbreviativo di look e da behold (guardare con attenzione). Pronunciate da uno dei pionieri del web quando il primo computer con cui nel 1969 furono connesse la UCLA e lo Stanford Research Institute trasmise soltanto le lettere “lo” invece di “log in” (ma l’esperimento riuscì comunque), le parole Lo and Behold suonano come un ammonimento di fronte a un fenomeno straordinario e ben si addicono alla rivoluzione tecnologica che da quel lontano 1969 ha cambiato profondamente le nostre vite.
Ciò detto, chi conosce Herzog non si accontenterebbe di trovare in questo lungometraggio, strutturato in dieci capitoli, una riflessione documentata e di tipo genealogico sulle trasformazioni psico-sociali provocate da Internet e dal mondo digitale in cui siamo immersi. Il sottotitolo originale del film è infatti Reveries of the Connected World e si può parlare proprio di “reveries” sia per la libertà con cui il regista tedesco passa da un tema a un altro, da un testimone a un altro, interpellando i suoi interlocutori con toni a tratti poetico-ironici sia perché, evidentemente, Lo and Behold è solo l’ultima di una lunga serie di opere dedicate ai sogni dell’umanità e agli uomini come sognatori.
Per quanto riguarda il primo aspetto, nel corso del film gli interventi di Herzog in veste di intervistatore si fanno via via più diretti non alla ricerca di una verità scientifica o fattuale bensì di quella “verità poetica, estatica” che egli invocava nella sua “Minnesota declaration”, il semiserio manifesto del proprio cinema datato 1999. Naturalmente, il regista non appare mai, ne udiamo soltanto la “voce molto bassa e allo stesso tempo dolcissima, una voce assolutamente magnifica” che molti anni fa riuscì a distruggere con poche parole l’amor proprio del giovane Emmanuel Carrère, come quest’ultimo ha raccontato in Limonov; e che sembra coltivare nel suo inglese un accento tedesco con gli anni sempre più spinto (oramai una riconoscibile marca herzoghiana).
Nessun’analisi ficcante dal punto di vista economico, quindi, nessuna accusa frontale alla Franco ‘Bifo’ Berardi sul neuro-totalitarismo della società digitale e una sostanziale assenza di colpevoli da stigmatizzare: non i governi che ci spiano o che si fanno la guerra attraverso la rete (per un docufilm molto poco ironico su tali temi si veda Zero Days di Alex Gibney), non gli smartphone (che qui vediamo soltanto distogliere un gruppo di monaci buddisti dalla meditazione, ma Herzog aveva già esaurito l’argomento nel 2013 con From One Second to the Next), non i social network o Google e C. e le realtà virtuali da essi create, che rischiano di surclassare tanto la realtà vera e propria quanto il cinema. Nel film hanno sì voce le vittime dei fantasmi elettronici, i drogati di videogiochi costretti a ricoverarsi in un campo di recupero, e gli elettrosensibili, persone che soffrono a tal punto l’inquinamento elettromagnetico da essersi dovuti rifugiare in una comunità isolata dal mondo; ma l’interesse del regista trascura le corporation e i loro prodotti preferendo concentrarsi per l’appunto su esseri umani in cui è possibile identificarsi, nel bene e nel male, raccontando le utopie legate alla nascita e alla diffusione delle nuove tecnologie e incontrando una serie di persone che cercano di non subire le innovazioni ma di piegarle alle loro visioni, svicolando dal controllo del pensiero unico e degli automatismi omologanti che la tecnica porta con sé.
Tra costoro, il leggendario Ted Nelson, il creatore del progetto Xanadu e inventore del concetto di “ipertesto”, assai deluso dalla piega presa oggi dal web, il celebre hacker Kevin Mitnick, houdini del web, il cofondatore di PayPal Elon Musk impegnato nel lancio di una compagnia di viaggi spaziali che mira a fondare colonie umane su Marte. Considerato il fatto che lo stesso Herzog è diventato una star di Internet (dove vende online le proprie lezioni di cinema) verrebbe quindi da dire, recuperando l’affezionata dicotomia tra apocalittici e integrati, che egli è senza dubbio un ‘integrato’. Eppure, non si può negare che Herzog sia, da decenni, il più sincero ‘apocalittico’ in circolazione… e in questo film se ne ha la conferma non appena il regista inizia a interrogare gli esperti da lui convocati riguardo la possibile rottura dell’incantesimo tecno-mediale in cui viviamo, spesso troppo inconsapevolmente, e minacce come le macchie solari, che potrebbero farci precipitare all’improvviso in un nuovo medioevo.
Lo and Behold non trascura perciò che l’attività onirica ha un suo lato oscuro, fatto di incubi a cui dedica alcuni dei capitoli più inquietanti, ma anche più accessibili perché meno tecnici, del suo viaggio. Nonostante la colonna sonora renda l’atmosfera del film minacciosa sin dalla prima sequenza ci vuole circa una mezz’ora di gesta dei pionieri del web per arrivare al capitolo intitolato proprio “The Dark Side” in cui la famiglia di Nikki Catsouras ricostruisce l’agghiacciante episodio degli utenti che, protetti dall’anonimato, postarono foto della ragazza decapitata da un incidente automobilistico con commenti che né il regista né gli intervistati osano neppure riportare.
Ciò che in fondo interessa a Herzog è dunque il perturbante, e lui sa metterlo in scena con una perizia che appaga la nostra morbosità e le nostre fantasie anche attraverso le sole parole. È sufficiente evocare, come avviene anche sul finale di Lo and Behold, un futuro in cui la tecnologia avanzata diventerà a tal punto parte integrata nel nostro ambiente e nei nostri corpi da rendersi tanto pervasiva quanto invisibile. Riusciremo a tenerla sotto controllo e a non rendercene schiavi?