È il Diavolo a tirare i nostri fili!
Dai più schifosi oggetti siam attratti;
e ogni giorno nell’Inferno ci addentriamo d’un passo,
tranquilli attraversando miasmi e buio.
(I fiori del male, Charles Baudelaire)
Sarebbe un cliché dire che sono pochi i registi al mondo in grado di fare un cinema talmente destabilizzante da creare nello spettatore veri e propri sconvolgimenti sensoriali. Davanti alla cifra allucinatoria ed epilettica del cinema di Andrzej Żuławski si è posti di fronte al dilemma riguardante l’avere fede o no nell’immagine che viene mostrata: siamo gettati nell’impotenza della contraddizione del farci “possedere” o no da quello che stiamo guardando, spinti da un lato a voltare altrove lo sguardo, e dall’altro a sogghignare istericamente, sedotti dai limiti di un autoannientamento visivo tale da sabotare la possibilità stessa di ricezione. E nel momento in cui le immagini iniziano a dissipare le ombre invisibili da cui apparentemente sembravano emergere, la lancinante emotività del desiderio sviscera senza riserve tutto ciò ancora provvisto di un significato.
Il lungometraggio d’esordio del regista polacco, La terza parte della notte (1971) si sviluppa a partire da una terrificante rievocazione del periodo dell’occupazione nazista della Polonia. L’intento non è tanto quello di servirsi del contesto iconografico di guerra e persecuzioni per stabilire un senso di prospettiva storica, quanto piuttosto esprimere la disintegrazione della prospettiva emotiva del giovane protagonista nella disperata discesa negli abissi della sua identità, della memoria, del desiderio e della mortalità, attraverso una visione apocalittica di morte e distruzione rappresentata simbolicamente dalla Seconda guerra mondiale e l’olocausto.
Il sentore orrorifico dell’opera è già tutto nell’incipit, in cui la lettura dei passi dell’Apocalisse di Giovanni è giustapposta ai brumosi paesaggi mattutini della campagna polacca che circonda una villa opulenta e decadente, dove una truppa di cavalieri nazisti irrompe trucidando madre, moglie e figlio del protagonista. Il protagonista, braccato e sull’orlo del collasso mentale, fa ritorno a Varsavia ritrovandosi invischiato in un incubo kafkiano senza ritorno: cercherà di sopravvivere prestandosi come cavia, diventando un approvvigionamento alimentare per pidocchi all’interno di un istituto medico (la genesi del film risalirebbe al vissuto del padre di Zulawski, uno dei tanti intellettuali polacchi che per nascondersi aveva offerto il proprio corpo per la ricerca di un vaccino sperimentale anti-tifo), e si sentirà nuovamente vivo sotto il segno del “flagello dell’amore”, ricostruendo una famiglia di doppelganger.
Nel film, infatti, confluiscono di continuo strati di realtà non più unitaria, movimenti in una dimensione i cui spazi si riflettono continuamente, in maniera tale da provocare un corto circuito della percezione e dell’identità (“Le persone si muovono su orbite che sono così lontane tra loro, si incontrano così di rado e quando lo fanno non sono quelle che avrebbero dovuto incontrarsi”). L’enigma è modellato proprio sul contrasto tra ciò che vediamo e ciò in cui crediamo, così come il protagonista cerca di rimettere insieme i pezzi della sua tragica vicenda e, invece di costruire una chiara immagine della realtà, si ritrova con un mosaico frammentato di terrore e incertezza che nel finale lo condurrà dentro le viscere sotterranee dell’istituto in cui faceva da cavia, un limbo tra la vita e la morte dove scoprirà la drammatica ciclicità del proprio destino.
Il secondo film di Zulawski, Diabel (1972, ma censurato in patria fino al 1989) è un altro giro di ruota in una Polonia tardo settecentesca invasa dall’esercito prussiano (implicito riferimento al blocco stalinista) e ancora più sprofondata nel caos, dove il male, nel suo reiterarsi, ha di fatto trasformato il mondo in un luogo maledetto dalle atmosfere di un’oscura favola medievale. Se nel primo film c’era ancora la pulsione a ricostruire un riferimento morale e sociale in un contesto di totale disgregazione, come la famiglia, qui il caos morale imperversa in un quadro totalmente delirante. La vicenda del protagonista Jakub, incarcerato per aver tentato di assassinare il re e poi manipolato dal proprio diabolico liberatore che lo indurrà a lasciar perdere i suoi propositi rivoluzionari per iniziare un’opera purificatrice, si configura come la parabola nichilista di un uomo dalla mente condizionabile che non distingue più il bene dal male.
Laddove non c’è più alcun valore etico e cristiano (basti pensare che il convento in cui era rinchiuso Jakub nell’incipit è un luogo di stupri e uccisioni) non esiste più né l’amore (poiché la sua donna lo ha lasciato ed è incinta di un altro uomo) né la famiglia, ormai devastata e corrotta anch’essa (con il padre suicida dopo aver ripetutamente violentato la figlia, la madre meretrice e la sorella ormai impazzita che non ha scrupoli a lasciarsi andare a rapporti incestuosi con Jakub). Ciò che rimane è il sentimento di vendetta, che si configurerà anch’esso come illusorio, dal momento che ad ogni uccisione Jakub altro non farà che assecondare la volontà del Diavolo, padrone della personalità del ragazzo: essenza malefica asservita al potere che l’ha circuito e contro cui il giovane rivoluzionario credeva di combattere.
Se in Diabel c’è una delle più estreme rappresentazioni cinematografiche del Caos sulla terra, Sul globo d’argento (1977) è un punto di non ritorno in cui Zulawski riversa tutta la sua poetica, il suo film più viscerale ed osteggiato dal governo nazionale, al punto che l’intervento del vice ministro degli affari culturali Janusz Wilhelmi ordinò la totale distruzione della pellicola non ancora completata, che fu preservata solo grazie all’intervento della troupe che per un decennio nascose clandestinamente le bobine.
Ciò che il regista mette in scena in questa mastodontica epopea fantascientifica è una raffigurazione dell’uomo colto nell’impossibilità di trovare un’armonia esistenziale, destinato a commettere in eterno gli stessi errori. Il gruppo di astronauti che abbandona la Terra per colonizzare un nuovo pianeta rappresenta quel residuo di umanità che cerca la felicità in un luogo lontano, al di là della civiltà, per ritrovarla nelle lande rigogliose di una terra promessa. Ma è nell’uomo stesso, e nella sua intrinseca ambizione, che si annida il principio di autodistruzione, l’eterno ritorno di quel germe del Caos capace di far arrivare qualsiasi mondo alla catastrofe, passando attraverso gli stessi idoli e lo stesso fanatismo che corrompe e inabissa irrimediabilmente l’animo umano (“Qui è tutto come sulla Terra. Lo stesso caos, la stessa assenza di verità. Le stesse menzogne”). Ogni rinascita è perciò un’utopia irrealizzabile, ogni attesa di un Messia è un’attesa vana. Non c’è alcun riscatto della memoria, e gli uomini alla fine di tutto non potranno che ricadere schiavi della violenza e della follia.
Eppure è nell’intensità di questo sguardo disperato e nel furore nichilista di ogni gesto che soggiace la vera umanità dell’opera di Zulawski, nello spasmo epilettico dei corpi e delle immagini che non vogliono arrendersi al proprio destino, nel ribollire magmatico di una materia deflagrante alla perenne ricerca di una forma assoluta e irraggiungibile, preda di una contraddizione esiziale verso la quale lo spettatore è implacabilmente chiamato in causa con tutto il suo essere, poiché non è possibile sfuggire al tormento delle proprie passioni.