Che meraviglia poter guardare ciò che non si vede.

O dolce miracolo dei nostri occhi ciechi.

JLG, Histoire(s) du cinéma

 

Nel panorama contemporaneo italiano, segnato da aporie coriacee, il cinema di Michelangelo Frammartino si situa in una posizione nevralgica e, in un certo senso, funge da grimaldello che, forzando le maglie, ne rivela il fervore sotterraneo, un anelito all’universalità. Non è un caso allora che le sue opere paiano meglio collocate all’interno del contesto cinematografico internazionale, sebbene in esse non si rinunci mai a una realtà in costante contatto con il territorio italiano e, in particolare, con il meridione. Frammartino ha il merito di essersi dedicato alla realizzazione di opere che traghettano le conquiste degli sperimentatori puri (soprattutto quelle del cinema strutturale) verso una forma che non espunge la narratività – spesso considerata alla stregua di un trucco da mestierante – ma che ne sfilaccia i contorni lavorando con l’indistinto e, per questo, lambendo la pura essenza degli oggetti su cui si posa lo sguardo. Come avviene, anche se attraverso procedimenti differenti, nei film di Béla Tarr, Tsai Ming-liang e Šarunas Bartaš – influenze dichiarate dallo stesso Frammartino – si delinea una concezione di cinema intimamente legata alla durata. Tramite la dilatazione temporale degli eventi è possibile (ri-)definire lo statuto delle immagini. I piani-sequenza ritornano allora con costanza perché «permettono all’occhio dello spettatore di vagare come se fosse l’operatore a muoversi in questi spazi» e assumono dunque una “dimensione performativa biunivoca” che coinvolge sia gli attanti (si pensi al celebre piano-sequenza della processione ne Le quattro volte) sia gli spettatori.

Allo stesso modo si privilegiano i campi lunghi e lunghissimi che esaltano la profondità dello spazio, per i quali è necessario un tempo più lungo affinché l’occhio possa «consumare l’immagine» e «abitarla tutta». Ripartendo dalle riflessioni di Bazin sul montaggio proibito, Frammartino riconosce ed esalta la libertà dello spettatore di sviluppare il proprio percorso e di connettersi a ciò che compare nell’inquadratura senza rotture sovradeterminate. E soprattutto nel suo secondo lungometraggio Le quattro volte (2010) il regista porta alle estreme conseguenze la sua riflessione sulla durata, attraverso la quale gli è possibile comunicare la funzione grammaticale di un determinato sintagma. Tuttavia, per fare ciò, è talvolta necessario andare «oltre la consunzione dell’immagine», poiché sarà proprio l’eccesso di durata – che può persino lasciar subentrare la noia – a rivelare la specificità dell’inquadratura. Essa potrà allora suggerire, come accade ne Le quattro volte, il passaggio di testimone da un personaggio umano a uno animale o vegetale; oppure, come nella sequenza finale de Il dono (2003), spingere a vedere oltre quanto viene narrato pur basandosi sui pochi elementi del quadro.

Nella vastità degli spazi l’uomo diventa una macchia nel paesaggio, parte di una “azione complessiva” che non dipende appieno dal suo volere. Gli eventi si limitano ad accadere sfuggendo al dominio della logica e solo l’affastellarsi di micro-eventi all’apparenza banali o sconnessi permette l’in(ter)ferenza umana. In tal senso, Il dono, suo primo lungometraggio, offre già esempi interessanti: la fusione di piani sonori che accosta lo sferragliare del treno alla risacca delle onde; gli accostamenti formali, cromatici e “materiali” che determinano la fusione delle figure umane con lo sfondo (il capo canuto, il naso camuso, le guance raspose e scurite di un anziano come tratti pressoché indistinguibili dal muro bugnato sul quale si stagliano); o, ancora, il «corpo nodosissimo» del nonno che – secondo le parole del regista – «assomigliava moltissimo alle colline di Caulonia» e non poteva che essere «filmato come un paesaggio».

La crisi delle certezze razionalistiche determinata da tale sovvertimento produce così un nuovo ordine di grandezze: un dettaglio diventa un particolare, un campo lungo un totale, un paesaggio un essere umano, e viceversa. Ciò che si mette in discussione è la stessa scala dei piani e dei campi, dal momento che all’interno di un campo lungo può facilmente collocarsi (o celarsi) un primo piano. Non è neppure insolito, tra l’altro, che le presenze umane siano più statiche rispetto a quelle degli oggetti intorno: un cellulare vibra e si sposta lungo un tavolo, un pallone sfugge al controllo, i comignoli sbuffano e si agitano animando un paese che, come in un’opera pittorica, appare bloccato nel tempo in unico momento dell’azione. All’antropocentrismo che caratterizza gran parte della produzione cinematografica subentra una “sensibilità tolemaica”, un avanzamento che aspira a una regressione, a un abbandono delle coordinate tiranniche della prospettiva. L’invenzione della prospettiva, ricorda Frammartino, sancisce il dominio dell’uomo sul mondo essendo uno strumento che lo conforma al nostro volere. È dunque necessario provare a mettere in crisi – o quantomeno a indebolire – questo «strumento violento». Come auspicato da Merleau-Ponty, il cinema deve permettere di rivalutare il ruolo della percezione andando oltre la deformazione dell’intelletto puro per rendere tangibile ciò che non ha consistenza o ciò che ne ha fin troppa. L’essere umano tende ad avere un’ansia di controllo, ma «la realtà selvatica non vuole stare dentro l’inquadratura» così come si è costruita, si cerca di «pigiarla dentro» senza successo. In maniera herzoghiana, la realizzazione di un film si trasforma in un «corpo a corpo con il reale» – materia incontrollabile – dal quale non si può che uscire sconfitti. La sconfitta non vanifica però l’impresa. Come avveniva in Fitzcarraldo ha luogo la riconciliazione, ma soltanto al termine del viaggio. «La conquista […] avviene malgrado il […] fallimento», «natura e cultura, provvisoriamente, si riconciliano»[1]: l’uomo acquisisce la capacità mimetica nella figura del romito – a proposito della quale non è possibile stabilire se si tratti di uomo o di paesaggio – della videoinstallazione Alberi (2013).

Michelangelo Frammartino-Alberi-still

È evidente allora il ruolo del mimetismo – che Frammartino definisce come una delle sue ossessioni – sia per le sue qualità ipnotiche sia per la tensione che riesce a creare: in quale punto è possibile rintracciare lo scollamento? Dove si situa – per dirla con Montale – «l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità»? Il mimetismo è, difatti, un comportamento animale che suggella visivamente l’appartenenza al territorio, la comunione con esso. L’uomo, invece, è una figura estratta – staccata – dal blocco di marmo dove sono scolpite le meraviglie del creato. Ciò che negli animali è comportamento, negli uomini è frutto di un’operazione concettuale che implica un lavoro di auto-spoliazione, di ritorno euritmico alla natura. Tuttavia regredire all’animale implica la perdita del controllo, poiché spostare l’umano dal centro significa spostarlo anche da dietro la macchina da presa, annullando il punto di vista del principe/demiurgo del set. Come avviene con La région centrale (1971) in cui si ha l’impressione di vedere con occhi non umani, ne Le quattro volte si dà forma a una visione inedita non più ancorata allo sguardo «dalla cabina di comando».

Il cinema di Frammartino cerca, come afferma Bresson, di «rendere visibile l’anima»[2] operando tuttavia in maniera dissimile dal cineasta francese poiché, seppur percorso da una tensione verso il metafisico, ne propone una variante per così dire “matematica”: un «ritorno al concreto» che è «anche un ritorno al mistico»[3]. Scevri da ogni intellettualismo, i suoi film sono costruiti con un’attenzione particolare per i rapporti numerici che si manifestano nel conforto della ciclicità (stagionale, rituale) e della ripetizione (gestuale, comportamentale), ma non nella ricerca ossessiva della simmetria o del bilanciamento forzato all’interno del quadro e, più in generale, della struttura complessiva dell’opera. Non a caso, Alberi è un’opera pensata per essere proiettata in loop, lasciando agli spettatori la possibilità di abbandonare lo spazio espositivo in qualsiasi momento.

La matematicità non conduce alla smania di controllo e, dunque, alla violenza perpetrata sugli oggetti dello sguardo – che Frammartino considera sempre personaggi, rifiutando la distinzione tra animato/inanimato – ma, al contrario, a un’apertura alla realtà, all’inaspettato. In tal modo non si produce mai una derealizzazione, bensì un ampliamento dell’esperienza della realtà concreta. È quindi frequente che si faccia ricorso a simbolismi e accostamenti, pregnanti nella loro elementarità, per trattare dei temi esistenziali tra i più ancestrali, forse persino anteriori all’emergere della coscienza individuale e capaci di far comunicare ordine celeste e ordine viscerale. Come afferma Deleuze il cinema non riproduce corpi, ma li produce attraverso punti di tempo generando, di fatto, porzioni di spazio-tempo-movimento variabili che eludono le regole del corpo umano e che, perciò, ne acuiscono la ricettività. Il massimo grado d’invisibilità e di astrazione concettuale ambirà a identificarsi con il massimo grado di visibilità e di nitidezza formale, sonora nonché narrativa. La ricerca non perverrà al nulla, ma a una “cosa” inedita che non appartiene totalmente né al concetto né all’immagine e che dialoga con lo spettatore, la cui partecipazione è necessaria per colmare le lacune della narrazione slegata.

Rispetto a un cinema come quello di James Benning, che aspira alla ieraticità, alla scomparsa dell’ego del regista, Frammartino è consapevole dell’utopia – forse persino della non-auspicabilità – di questa concezione. Entrambi prendono le mosse dal cinema strutturale e propongono il superamento della struttura – astratta, straniante nella sua continua ripetizione frammentaria e alterante – in favore dell’esperienza reale e tangibile. Eppure concepiscono una diversa “temporalizzazione dello spazio” attraverso la quale permettere allo spettatore la gestione dell’apparente essenzialità della messinscena su un piano squisitamente individuale. Entrambi dunque riducono il proprio dominio sull’opera auspicando la messa in discussione degli spettatori che potranno a tratti, duranti la visione, pensare «alla lavatrice che dovranno fare la sera» e magari «giungere alle proprie conclusioni e focalizzarsi sulla propria esperienza»[4]. La durata conduce all’astrazione temporale – ma anche alla “spazializzazione del tempo” – rapportandosi al ritmo vitale degli spettatori e penetrando nella loro intimità.

Di conseguenza, quando Frammartino, a proposito del suo progetto interrotto ispirato al Pinocchio di Collodi, afferma che i luoghi selezionati non gli «davano la fisionomia dei personaggi», svela una maggiore affinità con il Benning di Landscape Suicide (1987) in cui i personaggi e i loro crimini sono in relazione con i paesaggi. In Nightfall (2011) Benning sceglie invece un gruppo “casuale” di alberi come sineddoche che appiana lo spazio fuori campo: il bosco è uguale a se stesso. Al contrario, il cerchio riassume al meglio il cinema di Frammartino che ritorna su se stesso, così come i personaggi che tendono a ridursi o a lambire l’indistinzione, vincolata dal ciclo di rinascite (uomo, animale, vegetale, minerale). Il dono, in tal senso, presenta finora l’esempio più fulgido di un personaggio che diventa paesaggio scalzando il dualismo vita/morte. Il tempo avvolge lo spazio attraverso un paniere ciondolante che, come un pendolo, lo scandisce; scorre insensibile al volere e al desiderio degli esseri umani, avviluppati in un amplesso tra rottami di auto e velieri spiaggiati. La ragazza discinta – (s)oggetto del desiderio residuale degli anziani – scompare dallo spazio angusto della baita, rimpiazzata dall’immagine patinata della rivista pornografica; entro lo stesso recinto le carcasse delle galline coesistono con i polli che razzolano indisturbati; l’uomo anziano si cala nella fossa e lì rimane immobile mentre un barile rotola lungo il pendio. A Time to Live, a Time to Die. Qui il fuori campo coincide con l’oltre, “l’indipinto”. Non resta allora che scolpire il tempo, rivestire il fantasma evanescente del reale e renderne percepibile l’essenza.


[1] M. Pezzella, Estetica del cinema, Il Mulino, Bologna 2010, p. 136.

[2] Come dichiarato in Cinéastes de notre temps – Robert Bresson: ni vu ni connu (1965) diretto da François Weyergans.

[3] J. Epstein, L’essenza del cinema, V. Pasquali (a cura di), Fondazione Scuola nazionale di cinema, Roma 2002, p. 190.

[4] A. Bielak, Memories from the Frozen Road: A Conversation with James Benning, consultabile su http://smellslikescreenspirit.com/2013/02/james-benning-interview/