Alcune settimane fa, facendo ordine tra i volumi della mia biblioteca, mi sono ritrovato a pensare: «Devo proprio passare da Lorenzo per chiedergli quel libro su…». Il pensiero è rimasto bloccato lì, perché in quel momento ho realizzato che Lorenzo Pellizzari non c’era più.
Da diversi mesi ormai ero a conoscenza, come tanti, delle sue difficili condizioni di salute. Anche gli ultimi auguri di buon anno, arrivati via e-mail, com’era consuetudine, una quindicina di giorni prima della fine del 2015, tradivano una certa tonalità lugubre nonostante le amene strofette da Corriere dei piccoli (una delle sue specialità): Del millennio quindici anni/ son trascorsi malamente:/ guerre, stragi ed altri danni/ han prodotto tutto e niente./ Ma se sedici tu dici/ pensi a giorni fortunati,/ ad eventi più felici,/ a quattrini assicurati […]/ Pur tra molti chiari e scuri/ ti pervengano i miei AUGURI./ Quanto a me sperando ancora/ di restare in ‘sta dimora.
Forse è anche per questo che negli ultimi mesi non avevo osato farmi vivo, né per telefono né di persona. “Oberato dagli impegni”, si dice in questi casi. In realtà avevo solo paura di arrecare disturbo, oppure – peggio – di ricevere brutte notizie. A pensarci adesso, un po’ mi rimorde la coscienza. Eppure confidavo ingenuamente nel fatto che alla fine Lorenzo se la sarebbe cavata e ci saremmo rivisti in tutta calma nello studio della sua casa-biblioteca di via Poggi: io raccontando a precipizio tutto quello che mi era accaduto dall’ultima volta che ci eravamo visti, e lui ad ascoltarmi divertito, con benevola aria da sapiente indiano, avvolto nel fumo della sua sigaretta. Sicuramente mi avrebbe chiesto se avessi finalmente acquistato Il mio Zavattini (una delle sue ultime fatiche editoriali), io gli avrei risposto di no adducendo qualche scusa improbabile, alla quale, puntualmente, lui avrebbe alzato gli occhi al cielo… Purtroppo, non è andata così.
L’ultima volta che ci siamo visti è stato nell’estate dello scorso anno, poco dopo il Cinema Ritrovato. Ricordo che era venuto faticosamente ad aprirmi la porta e poi, una volta seduto, mi aveva detto: «Da qualche tempo faccio molta fatica ad alzarmi. È capitato anche l’altro giorno e mi sono spaventato. Improvvisamente sono diventato vecchio». Era la prima volta che mi parlava apertamente dell’età, e la cosa mi aveva sorpreso. A dispetto della sua fragilità fisica e del mezzo secolo che ci separava, era difficile associare Lorenzo all’immagine della vecchiaia – quasi una conferma dell’adagio proustiano secondo il quale «la vita, i vecchi li forma con adolescenti che durano un numero abbastanza grande di anni».
Sin dall’inizio aveva voluto improntare i nostri rapporti a un’assoluta parità. «Guardi che mi può dare del tu», gli dico, presentandomi. «Va bene», risponde lui, «ma allora anche tu. Siamo entrambi cultori della materia». Da allora (era il 2012) i nostri incontri si svolgevano così, fra il via vai dei suoi gatti e il mio sguardo che andava continuamente al bellissimo ritratto di Orson Welles (una delle nostre passioni comuni) eseguito da Ferenc Pintér. Sempre curioso di tutto, con apparente noncuranza, Lorenzo m’interrogava in maniera serrata sui festival a cui avevo partecipato e sui film che avevo visto, anche se lui ne vedeva sicuramente più di me.
Aveva gusti che qualcuno definirebbe “eccentrici”. Non gli piacevano Hitchcock né Ford (per motivi “politici”, credo, con la sola eccezione – ovviamente! – di Furore), ma si considerava «uno dei pochi ad amare veramente Leos Carax», che in un articolo per Cineforum aveva definito «l’ultimo esempio, forse, di cinema assoluto». Doveva avere una predilezione particolare per gli “scomodi” e gli “irregolari”: la prima cosa che mi diede in prestito fu una VHS de Il corvo, diretto da un Clouzot in odore di collaborazionismo (finimmo per vederlo insieme nel salotto di casa sua); le ultime, i due “Castori” dedicati a Stroheim e Syberberg.
In mezzo, tante altre cose prestate (ricordo in particolare la monografia di Turconi su Mack Sennett, datata 1960), tanti articoli – anche per Filmidee – e persino una tesi di laurea che senza quei prestiti non sarebbero probabilmente mai stati scritti. D’altronde, la generosità di Lorenzo era sotto gli occhi di tutti. In molti hanno ricordato l’attenzione e la cura instancabile con cui, soprattutto negli ultimi anni, aveva riproposto gli scritti di Viazzi, Terzi, Casiraghi, Buttafava e altri. Credo che in fondo, più dei film, lo interessassero gli individui. Forse per questo era tanto piacevole ascoltarlo quando parlava dei suoi amici, soprattutto di quelli che non c’erano più, o che non avevano più la forza di farsi sentire. Ferrero, Farassino, Fink: le parole di Lorenzo restituivano vita a quelli che per me, troppo giovane per averli incontrati, erano soltanto nomi scritti sulla copertina di un libro.
Non posso dire di aver conosciuto altrettanto bene Lorenzo (cosa sono poco più di tre anni in una vita che ne contava quasi ottanta?) e sono certo che altri saprebbero descriverlo molto meglio di me. Spero solo, grazie a queste poche righe che ho scritto per sentirlo un po’ meno lontano, di riuscire a farlo rivivere, almeno per un attimo, agli occhi coloro che non hanno avuto la fortuna, per dirla con Bob Hope, «di essere stati suoi contemporanei».