Conviene chiarirlo subito: le implicazioni e le ambizioni della retrospettiva Amato e rifiutato: il cinema della giovane Repubblica Federale Tedesca dal 1949 al 1963 sono ENORMI. È stato dunque giusto che la sessantanovesima edizione del Festival di Locarno concedesse ad essa una sala intera lungo l’intero arco della kermesse, e una settantina di slot per mostrare gli altrettanti film, lunghi e corti, che l’hanno composta.
Altre due premesse vanno enunciate prima di passare alla retrospettiva vera e propria. La prima è una generale premessa metodologica di filosofia della Storia, che ci sembra francamente impossibile da contestare:
1) C’è la continuità
2) C’è la discontinuità
3) C’è il fatto che 1) e 2) sono sempre perversamente intrecciati, in maniere che il più delle volte ci sfuggono, e che dobbiamo imparare a riconoscere per quanto possibile. La Storia, del resto serve a questo: la si può chiamare in mille modi (anche “racconto” o “cinema”), ma comunque sia è dell’intreccio inestricabile tra 1) e 2) che essa dà conto.
Seconda premessa. Il postmoderno, ogni tanto, ci ha dato svariate cose buone, o interessanti. Tuttavia, ci ha soprattutto propinato parecchie truffe. Una delle più infami, è stato l’aver sparso la convinzione che il corso storico potesse davvero seguire una falsariga di questo genere: 1) c’è la continuità, in guisa di una totale, placida e assoluta piattezza; 2) e poi BOOM!, arriva la discontinuità, la rivoluzione, la fête, quoi; 3)… dopodiché, davanti alla fallace constatazione che anche dopo questa esplosione “non è cambiato niente” (ma il difetto era nel manico: era nel fatto che la concezione stessa di 1) e 2) era sbagliata), si ripiega nella formuletta consolatoria che il postmoderno era già lì bello e pronto a volerci rifilare dall’inizio: “eh, che vuole, signora mia, la Storia è finita… ormai, grossi cambiamenti non ne vediamo più…”.
È stato possibile, per esempio, credere davvero che gli anni Cinquanta del cinema tedesco fossero una specie di encefalogramma piatto, al termine del quale, BOOM!, arriva il manifesto di Oberhausen nel 1962 e cambia tutto. Questa retrospettiva vuole innanzitutto dimostrare che no, non fu così: il cinema degli anni in cui Konrad Adenauer governava la Germania Ovest (1949-1963) furono un calderone di innumerevoli, più o meno grandi, tensioni, fratture, conflitti. Già nel 1956, del resto, si era potuto vedere Vielen kamen vorbei, di quel Peter Pewas che poi reciterà per svariati del “nuovo cinema” del decennio successivo. Su di un racconto che si srotola con sorprendente modernità (la stessa storiaccia di omicidio e violenza carnale vista da tre punti di vista diversi), si installa un’assai felice ispirazione figurativa: le sue “manichee” luci notturne, la dinamica semplicità delle inquadrature, trasmettono quell’innocenza fiabesco-orrorifica che in genere si è soliti ascrivere al cinema muto, magari addirittura a un Murnau…
Proprio qui sta un punto importante. Le tensioni, le fratture e i conflitti sono visibili solo sullo sfondo di una continuità. Se ciò che prefigurava il nuovo corso cinematografico post-Oberhausen non è stato debitamente riconosciuto, forse è perché non era sufficientemente chiaro quanto del cinema tedesco tra 1949 e 1963 fosse in continuità con i decenni precedenti. Non mancò, certo, chi tentò la via del tardo-modernista recupero coatto del modernismo artistico interbellico, scontrandosi fatalmente con tempi ormai troppo cambiati: è il caso del pur straordinario bricoleur sperimentale Franz Schömbs (Den Einsamen allen, 1962), la cui animazione astratta di forme e colori prolunga con inventiva la linea Eggeling-Richter; oppure la breve esperienza dei fotoform, che volevano proseguire le ricerche fotografico-architettoniche dei László Moholy-Nagy di trent’anni prima (e alcuni di loro confluirono poi nei notevoli esperimenti filmici di Peter Weiss, qui ricordato con Ansikten i skugga, 1956). Più rilevante, tuttavia, è notare come quel modernismo, quell’ambizione di una migliore, attiva appropriazione dei doni della scienza, pulsi ancora al di sotto dei film di Ferdinand Khittl (Das magische Band, 1959), nei quali la postbellica accelerazione tecnologica, le sue macchine, le sue forme ultrarazionali eppure misteriose, vengono spettacolarizzate e analizzate con rara intelligenza. Così come sotto l’avveniristico design della casa di cura per tossicodipendenti del contorto Labyrinth (Neurose, Rolf Thiele, 1959) pulsa ancora l’audace architettura degli anni 20.
Ed è appunto su questo sfondo che possono stagliarsi lambiccamenti formali quasi da infanzia del cinema (quando la protagonista, mentalmente instabile per via dell’alcool, va in confusione, tutto diventa bianco intorno a lei), e soprattutto accensioni erotiche che non ci si aspetterebbe. Ma che dire allora di Jonas (Ottomar Domnick, 1957)? Questo resoconto (accompagnato da un testo in voice-over di Hans-Magnus Enzensberger) di non-troppo-ordinaria paranoia metropolitana, in cui un individuo alienato e schiacciato dal mondo contemporaneo è affetto da visioni di cui perde il filo, e che lo sprofondano in un passato nazista di cui lui stesso fu parte, col suo stile sghembo, spigoloso e digressivo, ossessionato dall’ostilità degli edifici e degli ambienti, può ben essere visto come il figlio incestuoso delle inquietudini dell’Espressionismo anni Venti e del razionalismo urbano del medesimo decennio. Ma anche qui, a guardar bene, il corpo rivendica una certa rilevanza, e porta su di sé, letteralmente, ferite che non sospettiamo.
A farci aguzzare la vista in questo senso ci pensa Dominik Graf, forse il maggior regista tedesco contemporaneo, e figlio di quel Robert Graf che interpreta il protagonista di Jonas. Attore, questo, dalla faccia pulita, dalla presenza assai decorosa, rispettabile, innocua. Eppure, l’intero suo modo di recitare, all’apparenza così polverosamente perfettino, era stato profondamente influenzato da una ferita al braccio ricevuta durante la guerra. Dominik, nel suo splendido documentario Denk ich an Deutschland – Das Wispern im Berg der Dinge (1997, codiretto con Michael Althen) aveva già fatto di questa ferita e delle sue conseguenze sulla recitazione del padre una calzante metafora del cinema tedesco di quegli anni: quella sua apparenza così contenuta e pacificata è in realtà il prodotto di lacerazioni che si fa di tutto per non vedere, per rimuovere lontano dalla coscienza. Come poi approfondirà nel suo più recente documentario Verfluchte Liebe deutscher Film (2016, co-diretto con Johannes Sievert), nonché nel suo saggio all’interno dell’imprescindibile e ricchissimo catalogo della retrospettiva (edito da Olaf Moeller e Claudia Dillman; la retrospettiva è stata invece a cura di Moeller e Roberto Turigliatto), questo stile trattenuto ma in realtà sotterraneamente incandescente caratterizza la pressoché totalità degli interpreti maschili del cinema adenaueriano.
Graf è un cineasta attentissimo alle potenzialità nascoste del genere, e in particolar modo di quel genere quintessenzialmente tedesco che è il krimi (il poliziesco-investigativo, destinato come sappiamo a migrare sul piccolo schermo con successo), di ingaggiare un dialogo fertile con l’inconscio storico e politico di un’intera nazione. Non sorprende che sia stato lui, a Locarno, a presentare Die Spur führt nach Berlin (Berlino Polizia criminale, František Čáp, 1952). Se esistesse un manuale sulla socio-politica degli spazi nei film di genere potrebbe tranquillamente venire sostituito da questo film, le cui indagini (su una banda di falsari con importanti agganci internazionali) si snodano tra Est e Ovest, tra asimmetriche ingerenze russe e americane, lungo un cospicuo numero di stratificazioni storiche. Il che innanzitutto vuol dire: lungo le strade sinistramente ampie di una Berlino ancora sventrata dai bombardamenti; e l’epilogo ci suggerisce che districarsi nei meandri della guerra fredda significa letteralmente farsi strada nel labirinto dei sotterranei del Reichstag, esso stesso ancora ridotto a un ammasso di imponenti, sceniche rovine.
Eh sì: il genere si riconferma la strada maestra del cinema. Quante delle insicurezze di quegli anni, abborracciatamente mascherate da salda stabilità, vengono racchiuse nello spionistico Menschen im Netz (L’uomo nella rete, 1959). E quanta maestria dimostra il suo regista, Franz Peter Wirth; lo si vede, ad esempio, in come imbastisce una suadente lentezza che presto diventa atmosfera, di cui si serve per installare fluidamente via via tutta una serie di slittamenti di registro fotografico come pure di caratterizzazione dei personaggi. Ma se di genere di tratta, non si può non accennare a quel genere che, secondo una vulgata tanto diffusa quanto imprecisa e riduttiva, farebbe la parte del leone nel panorama cinematografico di allora: l’Heimatfilm, elegia bucolica al verde montano e/o ai sani valori della provincia, in un’epoca di vertiginosa e rischiosa metamorfosi sociale trainata dal boom economico. È vero, ce n’erano parecchi e avevano successo. Ma anch’essi possono spesso e volentieri prendere tangenti eccentriche. Die Trapp-Familie in Amerika (Wolfgang Liebeneiner, 1958) è una variazione su quel canovaccio, che accetta volentieri di sfondare qua e là le barriere del delirio. Perché dietro le alterne vicissitudini della sorridente, idilliaca famiglia Trapp, impegnata ad esportare negli States i propri canti teutonico/alpini, c’è una nazione che intrattiene con una superpotenza allora ancora occupante (gli Stati Uniti), ma tutto sommato unica àncora per lasciarsi alle spalle la catastrofe del passato, un rapporto al limite della schizofrenia. E schizofrenico è il film, costantemente sballottato dalla tragedia al miracolo nonostante la sua natura di innocua commedia leggera. In esso si fa strada il sospetto che la Germania dell’epoca, preda di una comprensibile ansia di riconquistare un posto e una riconoscibilità all’interno della comunità internazionale, non abbia in fondo niente di verosimile da offrire, a parte una “purezza” in cui lei stessa è la prima a non credere, e un’identità posticcia che non si ha comunque nessuna intenzione di abbandonare.
Si tratta in effetti di un altro aspetto che la retrospettiva ha voluto coscientemente mettere in luce: la Germania di quegli anni è una nazione che ha bisogno di riallacciare i rapporti con il resto del mondo. E in questa chiave possono avere molto da dirci coproduzioni internazionali come quella col Brasile Alvorada – Aufbruch in Brasilien (Hugo Niebeling, 1962), e persino le spedizioni in Africa di Michael Grzimek (Ein Fabeltier fliegt nach Deutschland, 1954) per procacciarsi animali da chiudere negli zoo tedeschi. E non meno importante è stata la dinamica inversa, con le altre nazioni intente a guardare con curiosità il gigante rinascente. Un posto speciale, in questa chiave, lo merita indubbiamente la Germania Est, con la quale la controparte occidentale pure intrattenne parecchi scambi (ad esempio, di film distribuiti nelle sale) nei primi anni dopo il 1945, e persino qualche coproduzione, di cui naturalmente poté essere sempre meno questione man mano che la guerra fredda si inasprì. C’è comunque qualche eccezione, in molti casi permessa dall’escamotage di una casa di produzione svedese che serviva da terreno neutro per l’interazione tra le due industrie nazionali.
Anche oggi, nel 2016, è utilissimo tornare sul modo in cui la DDR guardava alla “sorella”. Prevedibilmente, l’indice era assai spesso puntato contro le malcelate continuità tra il nuovo corso e il passato nazional-socialista, in molti casi con i medesimi uomini al vertice. Ma anche contro un altro aspetto allora dibattutissimo e oggi troppo spesso dimenticato: il riarmo nucleare, che ad Ovest molti erano impazienti di abbracciare. Entrambi sono ravvisabili in uno dei capolavori di Wanda Jakubowska, Spotkania w mroku (1960), coproduzione polacca dall’arsenale espressivo-stilistico sbalorditivamente ampio, tutto calibrato (in efficace contropiede rispetto alle magniloquenti tematiche del soggetto) sulla dimensione e sulla prospettiva “micro” e soggettiva della protagonista, che torna nel villaggio tedesco dove fu prigioniera durante la guerra. È una pianista, e non c’è dubbio che di lei, quarant’anni dopo, si ricorderà Polanski…
Spesse volte, dalla DEFA (gli studi ufficiali della Germania Est) uscivano opere che trattavano la Germania Ovest nei termini in cui siamo abituati a pensare il cinema di fantascienza: c’è un pianeta lontano popolato da alieni che è uno schermo su cui proiettiamo noi stessi. Pur non mancando la fantascienza vera e propria (Weisses Blut, Gottfried Kolditz, 1959), la fantascienza si “respira” anche nelle scenografie opportunamente astratte e inverosimili (inconsapevolmente brechtiane?) della commedia satirica Der Hauptmann von Köln (Slatan Dudow, 1956), che disseziona le magagne del boom economico occidentale con l’inesorabilità di un coltello che affonda nel burro, o dell’ineccepibile parabola marxiana sul feticismo delle merci in forma di commedia musical Das Kleid (Konrad Petzold, 1961/1991). In tutti questi casi, la critica all’Ovest fa baluginare la possibilità che, forse, per certi aspetti l’indice venga anche puntato contro l’Est.
Naturalmente, le critiche all’Ovest sono arrivate “in diretta” anche dall’Ovest stesso. È il caso di Das Wunder des Malachias (Bernhard Wicki, 1961), rassegnata condanna dell’opulenta e allora incipiente “società dello spettacolo”, sempre un passo al di qua del grottesco e delle sue secche. Esso impressiona soprattutto per la perfetta, millimetrica progressione, e più in generale per l’elevatissimo grado di padronanza registica. O anche Ósmy dzień tygodnia (L’ottavo giorno della settimana, Aleksander Ford, 1958), coproduzione polacca in cui una virtuosistica abilità di maneggiare lo schermo largo è a servizio sia delle poche parentesi a colori in cui il benessere si mostra nella sua sfavillante irraggiungibilità, sia del “neorealista” ritratto (in bianco e nero) della miseria economica e sociale in cui ristagna la coppia di protagonisti. O ancora il corto Es muß ein Stück vom Hitler sein (Walter Krüttner, 1963), ironica ricognizione documentaria sui turisti che bovinamente pascolano nella fu residenza estiva del Führer nell’Obersalzberg, in un’ambigua ricerca della grandeur che fu. Né gli autori più celebrati di quel periodo si sono tirati indietro nello stigmatizzare la nuova nazione tedesca. Il più convincente è forse il Wolfgang Staudte di Kirmes (Storia di un disertore, 1960), denuncia articolata e piena di sfaccettature (ma realmente godibile) di come una delle tante ragioni per ipotizzare una profonda continuità tra era nazista ed era consumista (altro tasto su cui la retrospettiva batte parecchio, e che meriterebbe un capitolo a parte), è che il boom economico si riduce in fin dei conti a una tenue foglia di fico a nascondere l’amarissima evidenza che né prima né dopo la soglia del 1945 la società tedesca è stata sufficientemente coesa da potersi definire una società.
Quanto a Kaütner, l’altro autore che, insieme a Staudte, viene solitamente esentato dal pesante oblio che ricopre quegli anni, non bisogna dimenticare che fu vilipeso abbastanza violentemente dai giovani del manifesto di Oberhausen, i quali rifiutavano la benché minima parentela con un cineasta che in fondo era impegnato da tempo a ricercare una propria via d’accesso alla modernità, vuoi problematizzando l’inconfondibile umanesimo postbellico di Himmel ohne Sterne (Cielo senza stelle, 1955), vuoi tratteggiando l’impietoso, complesso ritratto di una nazione che si illudeva pietosamente di essere forte e scaltra abbastanza da approfittare dell’occupazione americana (Schwarzer Kies, Asfalto Nero, 1961), vuoi avventurandosi nelle volute antonioniane, tardomoderne, romanzesche, soggetivistiche eppure attente agli smottamenti della Storia con la S maiuscola di Die Rote (La rossa, 1962). Quasi a mo’ di compensazione della miopia dei giovani di Oberhausen, certamente scusabili per fisiologica assenza di distacco storico, i curatori hanno incluso ben tre dei suoi film (quelli citati).
Accanto a Kaütner e Staudte, andrebbe idealmente ricordato anche Harald Braun, non foss’altro che perché i tre fondarono insieme una casa di produzione (la “Freie”). L’unica sua opera proiettata a Locarno, Der gläserne Turm (Il grattacielo del delitto, 1957), è uno dei film più sconvolgenti dell’intera retrospettiva, e lascia intendere una figura di primissimo piano, da riscoprire con urgenza. È la storia della moglie di un potente finanziere, chiusa dal ricchissimo marito in una gabbia dorata da cui un regista teatrale, con cui la donna lavorò in passato, vuole liberarla. È facile immaginare quanto rischiosa sia una materia del genere: gli sforzi di un uomo per garantire indipendenza a una donna (che ovviamente dovrebbe essere capace di darsela da sola) sono per definizione ambiguissimi. Braun si cava egregiamente da questo ginepraio grazie, fra le altre cose, a un’astutissima costruzione che cambia sagacemente i punti di vista, e a due terzi dell’intreccio opera una brusca virata giudiziaria laddove fino a quel momento non c’era che un raffinatissimo melodramma.
Ecco, il melodramma. Forse il genere che più di ogni altro incarna la tensione elettrica tra ciò che ribolle in profondità e una superficie falsamente quieta. Non poteva dunque mancare di essere massicciamente rappresentato, in una retrospettiva che vuole innanzitutto evidenziare i piccoli e grandi, ma sempre brucianti, conflitti di un’epoca a torto considerata placida e senza scosse. Basti pensare a Der Bekenntnis der Ina Kahr (Condannata a morte, 1954), del grande vecchio G. W. Pabst. All’apparenza, un placido melodramma giudiziario come potrebbero essercene tanti. Poi, però, ecco accumularsi una dopo l’altra parecchie “zampate” ultramoderne: un piano fisso di secondi e secondi su un serale idillio romantico dove non succede niente, e poi, letteralmente, un fulmine squarcia la scena; un’ardita costruzione che inserisce il pubblico stesso nel bel mezzo dei gangli della trama; un terrificante panorama umano in cui il rapporto incestuoso padre-figlia si perpetua senza che una normale relazione eterosessuale tra uomo e donna possa ambire a romperne il morboso equilibrio…
Ma è forse Géza von Radványi, grande anche lui anche se meno celebrato, che ha fornito a questa retrospettiva gli esempi di melodramma più memorabili. Innanzitutto, e a proposito della continuità tra era Adenauer e decenni precedenti (ricordiamo pure che all’epoca Veit Harlan girava ancora), Mädchen in Uniform (Ragazze in uniforme, 1958), remake dell’omonimo lesbo-classico di Leontine Sagan (1931), magistrale e lucidissimo saggio sulle contorsioni del desiderio (comprese quelle che lo intrecciano in modo tutt’altro che banale al senso del dovere), più sessualmente esplicito della vecchia versione, eppure dalla parte dell’amore, e cioè decisivamente disincarnato. Simmetricamente, Der Arzt von Stalingrad (Il prigioniero di Stalingrado, 1958) esplora soprattutto le impasse intrinseche del senso del dovere (specialmente quando si interseca con il desiderio), anche se in superficie il film è impegnato su un fronte apparentemente distinto, ovvero quello della difficile negoziazione di un’identità tedesca dopo il naufragio nazista (i protagonisti sono prigionieri tedeschi in un campo di prigionia russo dopo la guerra).
Per concludere, con Amato e rifiutato, è stata scoperta una miniera d’oro. I pochi paragrafi più sopra non accennano che a poche pepite – ma c’è ancora molto, molto da scavare. I curatori della retrospettiva lo hanno detto: non è finita, e si prevedono a breve e a lungo termine altre iniziative che si proporranno di prolungare lo studio e la riscoperta dell’interessantissimo, frastagliatissimo cinema tedesco dell’era Adenauer (1949-1963). La prima appendice è prevista già a metà settembre, al festival triestino I mille occhi. Altre occasioni seguiranno. Sarebbe imperdonabile riconsegnare nuovamente questo prezioso pezzo di storia del cinema a un oblio da cui sembra stia finalmente uscendo.