With the lights out, it’s less dangerous
Here we are now, entertain us
I feel stupid and contagious
Here we are now, entertain us
(Smells Like Teen Spirit, Kurt Cobain)
Non eravamo in tanti alla conferenza stampa veneziana di Spira Mirabilis. Eppure è stata intensa, si sono dette cose importanti sull’arte cinematografica, non solo da parte dei due registi, ma anche a voce dei protagonisti del loro documentario e di Paola Malanga, direttrice generale di Rai Cinema, che ne ha difeso e sostenuto il lavoro, cosa che fa da tempo, e non solo a parole. Eppure quasi niente di ciò che è stato detto nel corso di quella mezz’ora di dibattito è comparso sulle pagine dei quotidiani italiani, l’indomani o nei giorni successivi. Quello di cui si è scritto, in un riverbero di echi distorti rimbalzati da una redazione all’altra, è stato il fuggi-fuggi dalle varie proiezioni del film, ripetutamente proiettato prima per gli addetti ai lavori e poi per il pubblico.
Vuole la stampa – dove, come insegna John Ford, si trasforma in fatto la leggenda – che durante la visione dell’opera il pubblico sia stato sottoposto a una dura prova, non solo di comprensione, ma anche di resistenza. Vuole «La Stampa», rinomato quotidiano torinese a diffusione nazionale, che il pubblico «vero» (sic) abbia trovato Spira Mirabilis il film «più palloso del festival», dopo una sorta di tête-à-tête vinto al fotofinish “ai danni” di Le beaux jours d’Aranjuez di Wim Wenders. Con piglio fantozziano, il giornalista inviato a Venezia, parla di un pubblico, più che annoiato, annichilito, di sopravvissuti che escono dalla sala stremati, dopo un fiacco applauso… «Aho’, di bono c’aveva almeno ‘na cosa: è finito» pare abbia sentenziato uno spettatore a fine proiezione. Lo stesso quotidiano pensa bene, a festival concluso, di far commentare il palmares allo sceneggiatore Enrico Vanzina che, intervistato da Fulvia Caprara, dichiara «Scelte così elitarie rischiano di allontanare il pubblico dalle sale», puntando il dito non solo contro il Leone d’oro attribuito a Lav Diaz ma anche, evidentemente, contro la selezione di opere italiane in concorso, sostenendo che andrebbero inclusi «film di registi considerati più commerciali», perché «chi organizza la Mostra dovrebbe avere uno sguardo più generalista, mettersi anche dalla parte di chi si occupa dell’evento, pubblicizzandolo, dandogli uno spazio così grande, quindi parlando per giorni e giorni di film. Premi come quello di quest’anno non aiutano, anzi… Invece di fare bene al cinema finiscono per funzionare al contrario, e cioè per allontanare il pubblico». Per concludere: «Il pericolo è che la gente vada a vedere l’opera che ha vinto il Leone d’oro a Venezia e che, dopo averla vista, non metta più piede in una sala per due mesi. E questo nuoce, ovviamente, anche ai film italiani».
Il cinema d’autore, quello più ricercato, astruso, ripiegato su se stesso, palloso insomma, funziona come un boomerang, dunque, si ritorce non solo contro chi lo fa, ma contro chi dal cinema cerca di ricavarci dei soldi, la Rai, i produttori, gli esercenti; persino contro chi si sforza di fare un altro cinema, che rimane tagliato fuori. Da cosa? Ci si immagina che un Vanzina non abbia bisogno di ulteriori consacrazioni, dopo quelle che da decenni gli tributa il pubblico, ma allora a chi si riferisce? Quali «altri registi, capaci di crescere e di mostre altre qualità» possono – anzi devono, secondo Vanzina – ambire al palcoscenico veneziano? Eppure i Roan Johnson e i Piccioni, in un’annata che a quanto pare di meglio non aveva da offrire, erano lì, con i loro film “per tutti”, che per la maggior parte del pubblico non hanno necessitato di prove di resistenza (non che si sappia).
Qualche giorno dopo, sempre sulle pagine del quotidiano torinese, il regista Leonardo Pieraccioni, rincara la dose affermando «c’è caso che il film filippino di 4 ore fra qualche mese se lo ricordino meno della “smutandata” che ha fatto il red carpet per 4 minuti», riferendosi alla mise esibita da Giulia Salemi (terza classificata a Miss Italia nel 2014) in occasione della passerella ufficiale di The Young Pope di Paolo Sorrentino. Avvenimento ripreso dai blog online dei principali quotidiani nazionali, e poi ancora a una settimana di distanza da Natalia Aspesi su «La Repubblica» (cartaceo) che si domanda, con lancio in prima pagina: «Cosa ci ricordiamo di Venezia? Le due smutandate sul red carpet». Poco chiaro se si tratti di critica – al festival c’era poco da vedere e quel poco non interessa a nessuno – o autocritica – troppa l’attenzione tributata dalla stampa alle nudità in passerella. In ogni caso, resta il fatto che il primo quotidiano in Italia per vendite (dopo «La gazzetta dello sport», naturalmente) si senta in dovere di tornare sull’ultima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia per parlare di mutande e “patate”, piuttosto che di cinema.
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Forse si potrà trovare inutilmente ironico quanto scritto finora, perché forse è già sufficientemente ironico quanto è stato scritto sui quotidiani. Invece vale la pena soffermarsi sulle dinamiche interne a questo dibattito che chiama in causa tanto lo statuto del cinema in Italia quanto quello della stampa, a ben guardare. Perché in un Paese in cui il 2015 ha visto un incremento di quasi nove milioni di biglietti staccati rispetto all’anno precedente, è senz’altro più preoccupante che i due principali quotidiani di informazione perdano lettori a botte di 25.000 all’anno. Una caduta libera, dunque. Non che gli accresciuti incassi del settore cinema rappresentino qualcosa di cui andare fieri, in un Paese governato da una mafia distributiva che rende impossibile a tante opere di trovare spazio, seppur minimo, sul grande schermo, ma ci sono tutte le premesse per ritenere che prima del cinema scomparirà la carta stampata. Carta stampata dalla quale il cinema – come arte e veicolo di idee – è stato da tempo epurato: abbiamo già scritto della maniera in cui il “colore” ha preso il posto della critica sulle pagine dei quotidiani, e c’è chi meglio di noi ha saputo rintracciare le origini di questo sfacelo in ambito americano, ricordando l’esistenza di «critici che rifiutano di trasformarsi in cheerleader sottopagate [per] diventare archivisti, bricoleur, esperti, impresari, combattenti guerriglieri contro gli agglomerati».
Andrebbero fatti dei distinguo, allora, ma sarebbero troppi, e in alcuni casi cavillosi. Il suggerimento è allora quello di guardare al “problema del pubblico” da un altro punto di vista. Perché che un problema di pubblico ci sia è fuori di dubbio, ma è un problema che data dal secondo dopoguerra, quantomeno, ovvero dall’avvento della televisione. La vera domanda è: quali sono le responsabilità del cinema nei confronti del pubblico, sempre che ne abbia? E quando si parla di responsabilità, le si richiede a chi fa cinema? O a chi lo finanzia, a chi lo distribuisce e a chi lo programma? Le si richiede a chi regola il mercato? A chi vi si sottomette? E chi ne scrive, o dovrebbe scriverne, che responsabilità ha? Quanta libertà gli è rimasta? Non deve forse il regista essere fedele alla propria visione e il critico o il giornalista che si occupa di cinema essere fedele al proprio mestiere, che è quello di comprendere e interpretare lo sforzo creativo di un artista, sempre e comunque infinitamente superiore al suo, e quindi degno di attenzione? E non è forse il pubblico libero di decidere cosa leggere e cosa guardare? In realtà no, ma di certo non sono più i critici dei quotidiani a indirizzarne il gusto, perché non contano più niente, o quasi. E questo l’ha deciso il mercato, alle cui regole deve obbligatoriamente piegarsi un quotidiano, a differenza di quanto può fare un regista, libero di cercare la marginalità.
Allora il giornalista che durante la conferenza stampa, come è successo, chiede all’autore del film se non si ponga il problema del pubblico che lo guarda non fa che dimostrare tutto il proprio senso di impotenza nel riconoscere di non avere più alcun ruolo di mediazione tra il film e il pubblico. E l’unico modo di ricreare una parvenza di dibattito resta allora la polemica, meglio se gratuita, meglio se contro i marginali.
Dopo la leggenda, i fatti, dunque.
Conferenza stampa di Spira Mirabilis, Venezia (4/9/2016).
Gloria Satta de «Il Messaggero» chiede: «In un cinema che cerca affannosamente, faticosamente, con tutti i mezzi di recuperare spettatori, per voi il pensiero del pubblico che cosa rappresenta? Non pensate che sia un film per pochi, seppure molto bello?».
Risposta di Massimo D’Anolfi: «Per noi il pensiero del pubblico è fondamentale. Così fondamentale che più che al pubblico noi crediamo nelle persone. Crediamo nelle persone pensanti, nelle persone che hanno uno sguardo critico sulla realtà, e che non credono che il cinema sia un prodotto da confezionare e da vendere per compiacere gli spettatori. Noi non crediamo nel cinema che cerca l’identificazione con il pubblico. Quello lo crediamo un cinema bugiardo, un cinema poco coraggioso. Noi crediamo che le persone sono migliori di come vengono dipinte, spesso sono anche migliori dei giornalisti che raccontano il cinema, perché si crede sempre che le persone siano più ingenue e meno preparate di quello che sono. Invece noi crediamo che le persone siano molto più preparate di quanto ci vogliano far credere. E crediamo che i film siano negli occhi di chi li guarda».
Applauso.
Segue Fulvia Caprara di «La Stampa»: «Essere in concorso a Venezia, con un film, appunto, così, e soprattutto in un concorso che mai come quest’anno è anche pieno di film, invece, quelli proprio da pubblico, quello così con cui ve la prendevate poc’anzi… cioè, volevo capire se non può risultare un boomerang – e questa è la prima domanda, e la seconda: siccome bisogna accompagnarlo il pubblico verso questa esperienza, perché sicuramente ne ha bisogno: avete una frase che noi giornalisti, che abbiamo questo compito, potremmo usare per facilitare questo viaggio del pubblico?».
Silenzio, che si dovrebbe stendere come il famoso velo pietoso.
Chi scrive era presente a due delle proiezioni veneziane del film e può assicurare che non c’è stato alcun fuggi-fuggi dalla sala, in particolare in occasione della proiezione ufficiale in Sala Grande, dove avranno lasciato il posto a dir molto 50 persone su 1200. Che allora la campagna di boicottaggio nei confronti del film da parte del giornale torinese sia stata lanciata in risposta alla dichiarazione di D’Anolfi che – con un lampo di furia negli occhi, va detto – ha avuto il coraggio di dichiarare gli spettatori migliori dei giornalisti, o della maniera in cui questi li raffigurano? Probabile, stando anche alle voci di telefonate arrivate ai vertici della Rai da parte di inviperiti quotidianisti colpiti nell’amor proprio. Amen. Spira Mirabilis farà la sua strada, negli occhi, nei cuori e negli animi di chi saprà sentirlo; i quotidiani continueranno la loro macabra danza intorno al campo da gioco, come le lugubri cheerleader in un famoso video dei Nirvana. Fino alla fine. Nel mentre, chi si occupa di cinema farebbe bene a pensare al cinema anziché al pubblico, perché pensare al pubblico significa pensare all’industria, e l’industria è capace di pensare benissimo a se stessa senza l’aiuto di chi dovrebbe metterla in discussione. Chi si occupa di cinema dovrebbe accettarne la diversità di forme che lo tiene in vita, e salvaguardarla, perché mettersi dalla parte del pubblico, e dell’industria, significa propagandare una medietà di intenti e di risultati contro la quale Pasolini si è evidentemente scagliato invano mezzo secolo fa. Per evitare di fare ammenda sulle sviste passate con altrettanti anni di distanza, e non passare alla storia come quelli che hanno stroncato L’occhio che uccide di Michael Powell, appoggiato il rimaneggiamento di Il disprezzo, messo al muro Cimino per I cancelli del cielo, gloriosamente di nuovo in sala proprio in questi giorni.
Pensateci: e se avessero ragione i registi? Non solo a fare i film che fanno – diritto sacrosanto che la maleducazione di domande ignoranti e pretestuose non può scalfire – ma a pensare che il pubblico sia più intelligente dei giornalisti? E se i giornali vendessero sempre meno perché sono più stupidi di chi li legge? E se fosse proprio questo il boomerang che la nostra stampa lancia contro se stessa non avendo più nessuno a cui parlare, nel divario che essa stessa ha contribuito a creare tra la propria voce e l’intelligenza di chi la legge?