La respiration se passe désormais du visa de censure.
P. Garrel, Actua 1
La prigione in sé, si sa, va assumendo una dimensione sempre meno preponderante. Difatti, «l’uomo di cui ci parlano […] è già in se stesso l’effetto di un assoggettamento ben più profondo di lui»[1], ben più profondo di quanto implichi quello spazio, meticolosamente delimitato, che ci “protegge” dall’anomia. Un giovane evaso, serpeggiando tra i rovi, raggiunge il cuore di Parigi e cerca di trovare – o d’inventarsi – un posto nella società, ma con scarso successo. La vie brève de Monsieur Meucieu, cortometraggio del 1962, è già, nomen omen, un inno all’anonimato cui sembra essere stato costretto lo stesso Jean-Denis Bonan, vittima della censura e figura relegata ai margini dell’industria cinematografica.
Come accadeva nel “canto d’amore” genettiano, la prigione non si risolve nella struttura contenente, ma si estende al mondo, manifestandosi anzitutto sul corpo/recinzione individuale. Il montaggio associativo spezza l’unità spazio-temporale: ambienti e corpi, senza distinzioni, diventano celle di confinamento. Qui la regressione all’animale sarebbe un dono che, in quanto tale, riattiverebbe forse una circolazione sociale più libera. La prigione diventa allora in primo luogo linguistica: “L’amata è una donna perversa”, recita una delle didascalie che, sebbene costituisca un omaggio alla tradizione del cinema muto, non completa le immagini, ma cerca anzi di svilirle rimuovendone l’ambiguità. I corpi degli attori sono le superfici di scrittura per i titoli di testa, come accadrà di nuovo in Tristesse des anthropophages (1966): infatti, «incarnando un segno […] il corpo non dice più di sé, ma del Significante che l’ha segnato e a cui con-segna la propria potenza, da cui il Significante attinge la propria forza per adoperarla contro i corpi, riproducendo se stesso nei corpi»[2].
Il corpo è il campo di battaglia, ciò che può sovvertire i codici mettendo in crisi l’esercizio del potere: «Non ho rifiutato di diventare l’assassino ufficiale della società», asserisce quasi con noncuranza Louis, alias “La sadica di Pigalle”, ne La femme bourreau. Il film è stato girato a Parigi nel maggio 1968 – con la stessa attrezzatura con la quale il regista ha documentato i disordini nel mediometraggio Le joli mois de mai – sebbene la post-produzione abbia avuto luogo soltanto nel 2014, un anno prima che il film fosse presentato in sala. Bonan, appena ventitreenne, subisce il veto della censura – esteso anche all’esportazione (quindi alla circolazione festivaliera) – per il cortometraggio Tristesse des anthropophages, dopo avere trovato un produttore e un distributore per un lungometraggio e ricevendo, di fatto, una stroncatura sonora che ha condizionato la sua carriera.
Al centro della vicenda vi è la moda della scatofagia che imperversa su Parigi, assurta a simbolo di una società in cui è vietato tutto eccetto ciò che è – o dovrebbe essere – obbligatorio. La società coprofaga funziona secondo i dettami del capitalismo; l’arricchimento presuppone quindi lo sfruttamento. La merce viene consumata davanti agli occhi dei “produttori di feci”, all’opera al centro delle sale da pranzo di ristoranti chic, mentre la borghesia cittadina è coinvolta in un rituale a tutti gli effetti antropofago. Nell’universo sociale e filmico di Bonan la differenza tra ristoranti stellati e fast-food è pressoché inesistente: sempre di merda propinata a borghesi ghiotti si tratta; e dunque la merda e l’opera completa di Lamartine dovranno essere poste necessariamente sullo stesso piano. Come accade nelle altre opere del regista, si piomba allora nel regno dell’indistinto. Il sesso è semplice conquista di un corpo, bramato o deturpato che sia. Il mondo esterno al proprio corpo è minacciato da clangori bellici fuori campo, un po’ come accade in Le lit de la vierge. La realtà è tenuta a una distanza di sicurezza stabilita dall’alto. Non a caso, nel film saggio Une saison chez les hommes (1967) – dal quale traspare l’esperienza del regista da operatore per Actualités françaises e montatore per l’amico Jean Rollin – una voce off di un giovane nato in Tunisia nel 1942 (come lo stesso Bonan) chiede agli spettatori: «Allora, volete tornare alla realtà?», benché il suo punto di vista pare aspiri all’estraneità. Si tratta di un morto o di un outsider che tenta di sfuggire e al contempo denunciare le aberrazioni del colonialismo?
Mentre la Storia del potere si dipana, si consumano delitti truculenti che travolgono gli individui. La macchina da presa è mobilissima, alla perenne ricerca di angolazioni insolite, dalle quali trasuda una poesia da postribolo, morbosamente impressionistica (si pensi a Ménilmontant) e in curiosa sintonia con la sensibilità estetica del coevo cinema nipponico. Bonan cerca la libertà dell’atto filmico scoperchiando i meccanismi costituivi del film – dalle asperità sonore agli effetti anacronistici del cinema a trucchi, presenti, ad esempio, nell’opera di Adachi Masao. Non resta allora, come accade ne La femme bourreau, che lasciare una voce fuori campo a illustrare il passato dei personaggi implicati nella vicenda, nella logica di un resoconto investigativo condotto da un’ispettrice, la quale, una volta risolto il caso ed eliminato l’assassino, «si sposa, ha tre figli e si iscrive al partito comunista», mascherando la propria vacuità dietro un umanitarismo mefitico. In tal modo Bonan riesce a dedicarsi contemporaneamente al cinema militante – prendendo parte all’ARC (Association de Recherche Cinématographique), un gruppo di cineasti decisi a intervenire sulla realtà sociale[3], sostenuto dalla “complicità” di Jean-Luc Godard, Jean Rouch, Claude Miller e Sophie Tatischeff – e al cinema di finzione.
E ne La femme bourreau il regista riesce persino a operare un’ammirevole sintesi delle due tendenze. Il malessere sociale condiziona la quotidianità del singolo e, pertanto, si avverte l’esigenza di forzare le maglie dei generi cinematografici codificati per ipostatizzare l’intimità e rappresentare ciò che viene percepito come un exemplum di devianza. Chi è l’omicida? Un uomo dalle tendenze omosessuali, una donna, un travestito di Pigalle o uno straniero? Che importa… si tratta in ogni caso di un perverso, una bestia che merita di essere trucidata o condannata a morte, braccata dalla polizia fra i tetti divelti di Belleville, in quella zona distrutta, «oltre la morte», dove la decrepitezza rimane l’espressione più fedele dell’umanità. Come dichiara il regista nell’intervista contenuta nel cofanetto distribuito da Luna Park Films: «La Francia era in sciopero, ma non noi. […] il cinema non era in sciopero». Così, durante i tumulti, al cinema Les 3 Luxembourg vengono proiettati film mai visti, tra cui Tristesse des anthropopaghes. Ma alla spinta sovversiva segue una battuta d’arresto.
«Chi avrà filmato la militanza, la droga, il trasformarsi in barboni, i trip e l’essere flippati? Chi l’avrà fatto dall’interno?»[4], si chiedeva Serge Daney all’uscita de L’enfant secret. E se Bonan non raggiunge l’empireo di Garrel ed Eustache – cui fa riferimento Daney – è un autore che merita senza dubbio di essere riscoperto, cantore azzittito degli “éclats d’inamertume” che scompaginavano la gioventù e che con non poca difficoltà hanno trovato forme originali per essere raccontati.
Les films maudits de Jean-Denis Bonan, ed. Luna Park Films, versione originale in francese, sottotitoli n/d.
[1] M. Foucault, Sorvegliare e punire: La nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, p. 33.
[2] U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 373.
[3] L’interesse per le produzioni collettive è stato prefigurato da Lontano dal Vietnam (1967) ed è andato accrescendosi con l’attività dei gruppi Vertov, Medvedkine e Zanzibar, operanti dalla fine degli anni Sessanta.
[4] S. Daney, Ciné Journal, Marsilio, Venezia 1999, p. 143.