Non riesco a “leggere” le vecchie foto dei film italiani del dopoguerra con occhi distanti. In qualche modo mi appartengono, in qualche modo ci sono dentro anch’io. L’acume eventuale del critico cede il passo a emozioni sottili, ma forse anche volgari, chissà. Ognuno ha le sue madeleines. Tra le mie ci sono anche le calche del cinema domenicale – quando la campagna si riversava nei due cinematografi del paese a vedere Nazzari-Sanson o Totò – e i placidi silenzi dello spettacolo delle 18, il primo, dell’unico cinema che teneva aperto un turno, settimana per settimana, nei giorni feriali. (Il paese è in salita, nessuno chiamava le due sale con nomi altri da “il cinema di sopra” e “il cinema di sotto”: quello di sotto apparteneva al Pc, quello di sopra ai preti e gli spettacoli vi erano censurati preventivamente, come non bastasse la censura ufficiale di quegli anni; ho conservato a lungo spezzoni di pellicola che, per i miei meriti di chierichetto, un prete incoerente mi regalava: per esempio, un lungo coloratissimo bacio tra Tyrone Power e Maureen O’Hara in un film innocente e bellissimo, Il cigno nero…). Naturalmente c’era altro: i due binomi obbligati Togliatti-De Gasperi e Coppi-Bartali; i cortei del primo maggio; la terza pagina dell'”Avanti!”; la propaganda contro la legge truffa; ecc. ecc. Ma il cinema aveva una funzione insostituibile, e oggi inimmaginabile. Di evasione, certamente, ma anche di scoperta, di entusiasmo, di sfogo, di primo accesso a una cultura che poi doveva precisarsi sulla lettura delle colonne di “Cinema nuovo” e di “Sipario” e sulle pagine dei libri, BUR e Canguro per cominciare.
Torniamo ai film. Per me, esistevano film feriali e film festivi. Con scarse eccezioni, i feriali erano film americani e i festivi film italiani. Cambiava il numero e la composizione di classe degli spettatori, e cambiavano anche i film. Buoni per tutti i giorni e per il ristretto pubblico piccolo-borghese o artigiano erano i film americani di genere, ma tra questi anche i migliori, mentre buoni per la domenica erano o i grandi spettacoli o i film italiani. Erano buoni, cioè, i film di forte partecipazione emotiva. I film che facevano ridere o che facevano piangere o che comunque provocavano una certa intensità di sensazioni o un forte sbalordimento. Sono convinto che questa dicotomia funzionasse un po’ per tutto il pubblico cinematografico italiano del primo decennio del dopoguerra. I film americani erano l’evasione, il mondo levigato dei sogni, l’esotico, e magari “l’arte”. I film italiani, pur con il loro carico di convenzioni, erano la “realtà”. Gli ambienti, le facce, le passioni erano riconoscibili e nostri. Tutta la schematica e riduttiva, ripetitiva fantasia delle trame aveva una base di concretezza e partecipazione possibile.
Nel comico – i dialetti, l’arte di arrangiarsi, le “donnine”, le battute sui fatti politici (almeno fino a un certo periodo) avevano le loro basi in qualcosa comunque di reale: un rapporto con la cronaca del tempo, per quanto sviato, e soprattutto lo scarico di molte frustrazioni, sociali e sessuali. Ne fosse o no cosciente, Totò era amato soprattutto per questo, per la sua aggressività vendicativa che, in qualche modo, vendicava anche le insoddisfazioni e le fami irrisolte degli spettatori. Nel tragico – le mamme, l’onestà offesa e indifesa, la famiglia, l’onore insidiato, le disgrazie, la cattiveria della società, del vicinato, della comunità, avevano le loro basi in dati altrettanto concreti di una insicurezza collettiva che si abbarbicava a pochi sacri valori, e su quelli teneva duro. Se in Totò si rispecchiava una condizione di precarietà economica e sociale, proletaria e piccolo-borghese, soprattutto centro-meridionale, che a gomitate cercava di non lasciarsi affogare, nei film di Matarazzo un’insicurezza simile faceva leva sui buoni piuttosto che sui “cattivi” sentimenti. Le disgrazie del Nazzari emigrato la cui moglie è insediata dal cattivo Folco Lulli, padroncino schifoso o finto amico di famiglia comunque danaroso, altro non erano che una metafora di realtà possibili e presenti.
La superiorità dei “generi” italiani su quelli americani consisteva proprio in questa maggiore, vistosa, non ovattata presenza di disagi attuali e vissuti in qualche modo da tutti (cioè da tutti gli strati proletari o di piccolissima borghesia, ai primi per certi versi assimilabile in anni duri e di fame quali quelli di cui stiamo parlando). La scarsità e le disgrazie non mancavano di certo, nell’esperienza comune; e, altrettanto certamente, il cinema americano non ne rendeva conto. Il peso di una realtà specifica, e di una cultura diversa, hanno fatto sì che la grande opera di colonizzazione culturale tentata da Hollywood funzionasse, da noi, sempre in misura assai ridotta, come dimostra la forza politica di una sinistra, allora, decisamente antiamericana, e di persistenza di miti, nel nostro divismo, così diversi e così diversamente radicati rispetto a quelli proposti dagli americani. Realtà contro evasione, dunque, o meglio due diversi tipi di evasione, il primo dei quali aveva comunque radici di una riconoscibilità socio-culturale infinitamente maggiore.
Solo da poco si è cominciato a sgombrare il terreno dalla riduttivissima visione del cinema di quegli anni consegnataci dalla critica a esso contemporanea, grazie a un’ottica fortemente influenzata dalla coscienza del peso che i modi di produzione, l’industria dello spettacolo, hanno tanto sulle opere cosiddette maggiori che su quelle di genere o minori. Si è “scoperto” che produttori, tecnici, sceneggiatori, attori e figuranti, costumisti e scenografi, operatori e montatori sono molto spesso gli stessi, da film a film. Esiste, insomma, un linguaggio dell’epoca che passa trasversalmente per le opere “alte” come per quelle “basse”. Ci si è infine liberati di un’ottica tardo-crociana e aristarchiana, e si considera con più attenzione il cinema di un’epoca come fenomeno sia sociologico che linguistico in qualche modo unitario. Certo, le differenze restano, gli scambi tra i film di Visconti e quelli di Gallone, tra quelli di Fellini e quelli di Mattoli, tra quelli di Antonioni e quelli di Cottafavi sono certamente più mediati e più nascosti che non quelli tra i film di Lattuada e Monicelli, o tra i film di Gora e Leonviola, o tra i film di Germi e Cerchio, o tra i film di Camerini e Risi. E restano le eccezioni irrisolvibili in questo schema, come quella di Rossellini, che pure a volte media scientemente e si rivolge a facce e scelte narrative “basse”. Ma se guardiamo, per esempio, alla filmografia di uno Zavattini, come non essere colpiti dalla continuità che passa tra Ladri di biciclette, Domenica d’agosto, Prima comunione e perfino Cinque poveri in automobile e Vent’anni? Il cinema d’autore nasce comunque da un contesto sociale e industriale e tecnico comune anche al cinema “basso”; ed entrambi concorrono alla definizione di un sistema dello spettacolo, in una data struttura e in una data epoca, di cui solo gli integerrimi cacciatori di sublime e gli applicatori rigidissimi di schemi prefabbricati hanno potuto non accorgersi.
L’equivoco del neorealismo prende le mosse da qui. La forza di un progetto unitario che si può anche genericamente definire, per comodo, col nome di “neorealista” è tuttavia esistita, ma ha attraversato buona parte del cinema italiano del tempo un po’ per la necessità di uscire dalle strade battute e condizionanti del passato regime, un po’ per la violenza dei fatti storici vissuti da tutti in modo così traumatico, e per trasformazioni e le richieste nuove del pubblico, un po’ per le precarie condizioni tecniche del tempo. Che ci fossero teorici coscienti della necessità di una scuola realistica è indubbio, ed è altresì indubbio che ci sono stati politici altrettanto coscienti della necessità di una linea di politica culturale che la sorreggesse. Ma anche questa linea (togliattiana) era fatta di mediazioni, dello sforzo di non rompere i ponti con certa tradizione cattolica e di accettare con questa molti punti d’incontro, del tentativo di conquistare un’egemonia che, per riuscire, aveva bisogno di scendere continuamente a patti con una realtà culturale “arretrata”.
I buoni sentimenti andavano bene per gli uni e per gli altri, per i comunisti come per i cattolici; cambiava solo l’ottica di una diversa finalizzazione politica: per gli uni, scelte tattiche ma con istanze progressive per l’affermazione del potere degli strati proletari attraverso l’affermazione del potere dei loro rappresentanti politici; per gli altri continuazione nella immobilità di una tradizione. E non va dimenticato che il potere di questi ultimi era enormemente cresciuto anche al confronto con il passato fascista: la chiesa non è mai stata tanto forte, nell’Italia di questo secolo, come negli anni tra il ’45 e il ’60. I buoni sentimenti dei cattolici e della destra erano lo strumento di conquista di un’egemonia conservatrice; quelli della sinistra erano lo strumento di conquista di un’egemonia progressista, ma non certo in vista di trasformazioni radicali. Buoni sentimenti restavano, ed era ovvio che tra quelli degli uni e quelli degli altri vi fossero convergenze tematiche, scambi, confusioni. Così, a sinistra, si prendevano per buoni i sentimenti assai discutibili di un Germi, come, a destra, si accoglieva favorevolmente un certo neorealismo d’impronta più consolatoria. Era obbligatorio, forse, che a partire dai buoni sentimenti e dalla difesa dei “valori dell’uomo” anzi “dell’umanità” venissero fuori vari pateracchi, che i più incerti dei registi si trovassero volta a volta ricuperati dall’uno o dall’altro fronte, o andassero bene per entrambi contemporaneamente.
La stessa confusione regnava nel cinema “basso”. I film di Matarazzo sono nella sostanza mistificatori o retrogradi. Ma quelli del pur molto moderato Cottafavi? I melodrammi di questo regista, ancora da riscoprire in ottica non francese ma italiana e sociologica, con le loro eroine tormentate e avvilite in lotta incerta contro un mondo ostile maschio e borghese, non rientrano certo facilmente nello schema dell’appendice del tempo. Se La nave delle donne maledette, barocco ferraniacolor che dopo il ’48 racconta (come è lecito interpretare oggi) la metafora della “giusta” sconfitta della sinistra (pirati e donne di malaffare) per mano del supremo volere divino, e la fine del disordine, è un film “democristiano”, si può dire lo stesso di Una donna ha ucciso, complesso pamphlet contro il delitto d’onore che mette in scena Lidia Cirillo in persona (colei che nel dopoguerra uccise l’americano d’occupazione che l’aveva sedotta e abbandonata) a sconsigliare l’attrice Lianella Carell nel ruolo di una Lidia Cirillo in potenza, e a narrarle per questo la sua storia, interpretata da Lianella Carell nel blocco centrale del film? E, nel campo del comico, il “qualunquismo” pulcinellesco di Totò (in I due orfanelli, in Totò cerca casa, in Fifa e arena) ha forse lo stesso segno, le stesse connotazioni, di quello della tetralogia di Macario e Borghesio (Come persi la guerra, L’eroe della strada, Come scopersi l’America, Il monello della strada) che, allora, gli contendeva il successo e veniva seguita con indulgenza dai critici “democratici”? Una rilettura trasversale si impone, oggi, a studiare commistioni e congiunzioni, ma anche a districare differenze.
Il cinema del dopoguerra è stato un cinema di generi. Il telefono bianco, vagamente sporcato di stracci neorealistici, continua con Camerini, Zampa, Blasetti, Castellani, Bianchi, Franciolini, Risi. La commedia diventa, da piccolo-borghese, populista, ma la sua struttura, e i suoi contenuti variano solo parzialmente, e più in superficie che non in profondità. Continua, dopo il ’48, il filone “eroico” e bellico, da fascista a nazionalista e nostalgico (vi si illustra Coletti), e ricupera i modelli virili dei Nazzari e Giachetti con i Crisa e i Ferzetti. Soldati pensa a rilevare l’eredità guazzottiana coi suoi corsari pur tuttavia salgariani. Il feuilleton lascia via via i costumi dell’Ottocento (ma che kitsch fragoroso fa in tempo a esplodere in I fratelli Karamazoff con Fosco Giachetti, Andrea Cecchi e Elli Parvo, in Il correire del re, alias Il rosso e il nero con Rosano Brazzi nei panni di Julien Sorel) e si ammoderna col trio Nazzari-Sanson-Lulli e il recupero tutto napoletano della sceneggiata e dei suoi perfettissimi schemi narrativi dove lacrime e pianto vengono conditi di canzoni e di una raffinatissima selva di caratteristi comici, dai Maggio alla Pica a Sorrentino. Il film comico lascia le aure dell’humour vagamente surreale e bonario per la corposità volgarotta dell’avanspettacolo, e introduce cosce e seni violenti.
Per qualche tempo Freda fa da cerniera tra i drammi in vesti rinascimentali d’anteguerra, dandoci nuove Beatrice Cenci e Il conte Ugolino, mentre Zeglio fa cassetta con Genoveffa di Brabante. Ma Freda ci dà anche I miserabili, e L’aquila nera da Puskin, paralleli a La figlia del capitano, sempre da Puskin, di Camerini, e anche uno Spartaco, e una Teodora l’imperatrice di Bisanzio, in concorrenza con la Fabiola di Blasetti, e in attesa dell’Ulisse cameriniano che, con la mediazione del Guerin Meschino e di La regina di Saba di Francisci, preludono a Le fatiche di Ercole dello stesso Francisci e agli innumeri altri Ercole, Maciste, Thaur, Ursus che costituiranno l’ultima epica di un mondo contadino alla deriva nell’emigrazione urbana. Gallone fa il suo Roma città aperta con Avanti a lui tremava tutta Roma, mescolando Scarpia e Kappler, e Tosca con la Pina di Rossellini. Ma, tra lui e Costa, quante altre opere filmate, e quante biografie di musicisti dell’Ottocento operistico non hanno fatto gorgheggiare dagli schermi in quegli anni! Costa, mutati lentamente i tempi, lascerà il bel canto di Tito Gobbi per quello di Claudio Villa e dell’impagabile Tajoli, aprendo la strada alle antologie di canzoni di Paolella, e alla obbligatoria presenza di Nilla Pizzi o Jula De Palma, Achille Togliani e Gino Latilla, di Giacomo Rondinella o Renato Carosone in tanti altri film. Prima che Pane, amore e fantasia, Poveri ma belli, Peccato che sia una canaglia incanaglissero ancora di più la commedia populista colorando sempre più in rosa-democristiano gli stracci di L’onorevole Angelina o di Sotto il sole di Roma.
E tuttavia, quale altro cinema, quantomeno europeo, ha avuto una così esplosiva ricchezza di generi, tutti in qualche modo legati a una realtà sociale e al passo con essa?
Premettiamoci di fare il giochetto dei “capolavori” minori e sconosciuti. Alcuni titoli sono già stati fatti. Altri riguardano piuttosto un cinema “alto”, come il clairiano Roma città libera di Flaiano e Pagliero o il dannunziano Giovanni Episcopo di Lattuada o il bistrattatissmo Un marito per Anna Zaccheo di De Santis, “lettura critica” della sceneggiata. Proprio nel cuore dei generi e delle loro convenzioni, come non ricordare ancora Noi cannibali di Leonviola, coi suoi echi di Ossessione e di Renoir filtrati nel ferrania squillante che illustra la passionalità di una Pampanini da bidonville commentata da una fisarmonica invadente? O Traviata ’53 di Cottafavi e Una donna libera, dello stesso, con le loro nordiche e nebbiose storie di donne-oggetto che non vorrebbero essere più tali e sono punite se provano a non esserlo, e una regia nella quale perfino i colpi di scena del melodramma acquistano un significato non gratuito e servono a svelare nei loro meccanismi reali? O quella strabiliante antologia della rivista degli anni ’47-48 cucita insieme da Mattoli sulle tavole di vari palcoscenici, e comprendente la Wandissima (mistero dei misteri resta per me il suo successo), Elena Giusti che si dondola in un nulla lussuoso cantando Perché non sognar, ma soprattutto l’Arcidiavolo di Totò, il più bel granfinale cinematografico del bersagliere-pirotecnico, e ancora di Totò il geniale sketch del Manichino, capolavoro di mimica, e di Dapporto una parodia di Monsieur Verdoux, ingannevole perché poteva far sperare in un grande comico che poi invece non c’era? O quel Monastero di Santa Chiara, sceneggiata di guerra che fa il paio con il migliore O’ sole mio di Gentilomo, sceneggiata resistenziale che ci ostiniamo a preferire al ben più retorico e populista Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, e che (il primo) ci mostrava a antefatto e chiusura un Moravia (proprio lui) bighellone curioso per Napoli a caccia di storie per i suoi romanzi? O I miserabili (in due parti: La caccia all’uomo e Tempesta su Parigi) di Freda, ammirevole per concisione e pathos e forse la migliore delle riduzioni cinematografiche del grande romanzo; e ancora di Freda quella Beatrice Cenci già citata che sintetizza come nessun altro film la tradizione del romanzo storico dell’Ottocento italiano e sceglie a eroina il più affascinante personaggio femminile della nostra vecchia mitologia, la parricida Beatrice di un fosco e pietroso Cinquecento? (Riproporrei questo film assieme a quelli più brutti, su altre eroine dimenticate: Pia de’ Tolomei, Ginevra degli Almieri e Genoveffa di Brabante, eroine popolari per eccellenza e simboliche di tutta una visione “classica” della donna estremamente contraddittoria e tutta da studiare per la sua passata presa “mitica” sull’Italia contadina).
Mi piacerebbe anche poter rivedere, oltre a tutto De Santis e vari altri film “maggiori”, i due primi film di Gora (Il cielo è rosso e Febbre di vivere), di contorta sensualità l’uno e di primo approccio a personaggi “borghesi” (come Le infedeli di Steno e Monicelli) l’altro; e perfino, su diverso versante, quell’Ebreo errante di Alessandrini, con efficace mescolanza, a quel che posso ricordarne, di feuilleton e attualità; il mitico Asvero attraversava la storia, dal Calvario ai lager nazisti, e si riscattava eroicamente, trovando infine la morte agognata, lottando (cattolicamente) per i deportati…
Si potrebbe continuare a lungo, mescolando ricordo e riflessione critica. Ma se in fondo è anche piacevole lasciarsi andare al gusto del ricordo e dell’aneddoto, e se in fondo questi film hanno pur rappresentato qualcosa e ci hanno aiutato a leggere un passato, c’è anche il rischio di lasciarsi andare a una delle tante operazioni di nostalgia cui oggi così spesso si assiste. E non è proprio il caso. È legittimo ricordare, e anche divertirsi nel ricordare; non è legittimo compiacersi e idealizzare.
Il cinema di genere è oggi, in Italia, spaventosamente decaduto: sesso, violenza e cascami sempre più poveri della commedia di costume (che ha avuto i suoi anni d’oro attorno al ’60-64). I generi di oggi sono a misura di un’Italia sconvolta, cupa, incerta, tuttora democristiana e democristianamente amministrata. Quelli di ieri rispondevano a una società di tipo diverso, più agricola che industriale, e avevano dalla loro il peso e i vantaggi di un rapporto assai più diretto che non quello possibile oggi con un pubblico vasto e ricco di sue tradizioni (come l’avanspettacolo, il melodramma, il romanzo storico e d’appendice). Ma non c’è da illudersi: erano tempi bui, sovrastati dalla morbosa ipocrisia di un Pio XII dalla mostruosa falsa coscienza, dalle stelle e strisce trumaniane, dalla falce e martello. Diciamo piuttosto che l’Italia è passata in questi anni da una sorta di medioevo, attraverso un limbo di pochi anni, a un nuovo e diverso medioevo.
Goffredo Fofi, I limiti della scena, Linea D’Ombra Edizioni, Milano 1992.