Ci sono film che sono come fiumi, se ci si abbandona al loro flusso possono trascinarci senza sosta, lasciandoci privi di riferimenti geografici, in balia della forza dei loro flutti. Il cinema di Maren Ade investe e travolge, a patto di voler rischiare di compiere un’esperienza che presuppone la giusta dose di messa in discussione del proprio ruolo di spettatori. La giovane autrice tedesca (classe 1976) è una dei rari cineasti che si sta adoperando per reinventare le strutture narrative, lavorando nel campo del cinema di finzione d’autore rivoluzionandolo dall’interno. Non è un caso che a lei si debba la coproduzione tedesca delle opere di un autore rischioso e geniale come Miguel Gomes, che non solo sostiene nelle complesse architetture finanziarie dei suoi progetti ma con cui ha un rapporto di complicità (sua era la voce di Angela Merkel in Redemption). E neppure la chirurgica precisione con la quale ha costruito l’inizio della sua carriera come regista, lanciandosi in progetti dalla difficoltà crescente, pienamente padroneggiata dal punto di vista produttivo e autoriale, che le hanno permesso di passare dal concorso del Sundace (con Der Wald vor lauter Bäumen, 2003) a quello della Berlinale (con Alle Anderen, Orso d’argento nel 2009) e infine alla competizione di Cannes (Toni Erdmann, 2016).
Il cinema di Maren Ade è – al contrario di quello di altri autori coetanei – estremamente strutturato e maturo, proprio su questa apparente solidità (di scrittura, recitazione, direzione della fotografia) si inserisce la peculiarità dell’autrice che è in grado di disinnescare gradualmente le attese, sfaldando le sicurezze e i riferimenti acquisiti per far emergere “un possibile” e “un diverso” che si insinua tra intenzioni e fatti, tra modelli e interpretazioni, tra figure moderne del linguaggio cinematografico e bruschi arresti della fluidità narrativa. Segno della piena consapevolezza nel suo percorso di autrice, Toni Erdmann è il film che più di tutti teorizza e porta a compimento “lo spiazzamento” come tecnica narrativa e la possibilità di reinventarsi dal nulla, attingendo a risorse che appaiono prosciugate dai rapporti di potere vigenti nella società capitalista.
Il presupposto di partenza di questo strano film sulla paternità è dichiarato fin dalla prima sequenza: un fattorino arriva alla porta di una villetta monofamiliare in cui un uomo di mezza età finge di chiamare qualcuno per ritirare il pacco. Torna travestito e, facendo finta di niente, istaura un rapporto diverso con il fattorino di turno. Il potere di uno scherzo. Il perturbante che si insinua tra due persone come unico ponte in una realtà in cui i rapporti tra persone sono troppo spesso sanciti da uno scambio di oggetti. Sappiamo ben poco di Winfried: ama la musica, insegna con passione ai bambini, vive da solo in compagnia di un cane fedele. Nel suo passato c’è una bella moglie (che evidentemente ha preferito una prospettiva di vita più facoltosa) e una figlia trentenne, Ines, troppo impegnata dalla sua carriera come manager in giro per il mondo per riuscire a passare anche solo qualche ora con il padre. L’uomo non si dà per vinto, nonostante ogni possibilità di dialogo appaia perduta. Parte per la Romania, dove Ines lavora per una multinazionale, e si presenta all’ingresso del suo ufficio travestito da bizzarro uomo d’affari: uno scherzo, che poco a poco diventerà la giusta messa in scena per “svegliarla” dai condizionamenti sociali e un dispositivo per sollevare domande radicali: da cosa è costituito questo rapporto padre-figlia? C’è qualcosa d’intangibile che permane nelle persone, qualcosa che non è cancellabile dal tempo e dalla distanza? Qualcosa che forma lo spirito del bambino e svela l’animo del genitore?
In questo rapporto tra padri e figli, alla ricerca di una “verità” capace di superare le vestigia del tempo, si era buttato a capofitto un acuto scrittore italiano, Andrea Bajani (della stessa età di Ade) nel romanzo Se consideri le colpe, raccontando curiosamente la storia speculare di un figlio, Lorenzo, e di una madre, Lula. Qui era la donna ad essere partita alla ricerca di una realizzazione come imprenditrice in Romania, il figlio – cresciuto con un padre non suo – aveva aspettato, si era allontanato e poi aveva rimosso la figura materna, che riappare con prepotenza solo nel momento della sua assenza definitiva. Un corpo da seppellire. Il fantasma delle sue sembianze nelle poche foto scattate durante la nuova vita, come unica traccia di un’esistenza da ripercorrere a ritroso. La Romania come non luogo, terra dove si sfiorano – senza mai veramente incontrarsi – i destini di una nuova classe imprenditoriale, pronta a mettere da parte la propria vita per colmare con il prestigio sociale un vuoto di affetti e d’ideali.
Ines e Lula sono diverse, appartengono a due generazioni che hanno ben poco da spartire, se non il fatto di essere in quel presente segnato dal mercato e dal successo come unico valore condiviso. Ancora una volta senza dilungarsi in alcuna spiegazione, Maren Ade ci immerge nella quotidianità di Ines, fatta di giornate in cui assiste a riunioni interminabili, di serate in cui ancora una volta è il lavoro (con le forze di potere in gioco) a regolare i rapporti, tra manager disincantati e donne d’affari inarrestabili. Non sappiamo cosa abbia portato Ines a scegliere la sua carriera di mangiateste, ma proprio questa mancanza di giustificazioni rendono la scelta della ragazza assoluta e totalizzante. Tanto che da un certo punto in avanti, in questo film di quasi tre ore, nella vita di Ines affiora quel tempo del lavoro espanso, che caratterizza ormai non soltanto i manager e le multinazionali, ma anche buona parte dei posti di lavoro che ci si ritrova a occupare.
Siamo manager di noi stessi, in un tempo che è perennemente produzione e consumo di merci, eventi, rapporti, in un turbine difficile da disinnescare anche quando si cerca di mantenere una distanza. I colleghi sono la compagnia di amici, i clienti diventano amanti, le mogli dei direttori dei surrogati di suocere da compiacere, in una geografia di rapporti che tende a programmarsi come sostitutiva di quella familiare e amicale. La storia che l’azienda ci racconta è talmente totalizzante da assorbire poco a poco il lavoratore in una dimensione altra, le cui finalità profonde sono ben distinte dal desiderio individuale. Cosa ci fa la giovane Ines in mezzo alle carampane di sue colleghe che frequenta nei party notturni? E quale è la vera finalità del rapporto con il collega/amante, il cui atto di piacere si consuma senza che possa esserci un contatto tra i loro corpi? E cosa si nasconde dietro alla deferenza di un’assistente che potrebbe essere una sorellina minore, la cui devozione è segnata da un’insormontabile separazione di classe?
In questo contesto opaco fa il suo ingresso in scena Toni Erdmann, ovvero il padre della ragazza travestito da eccentrico uomo d’affari dall’improponibile dentatura. La sua presenza, via via più improbabile, crea un crescendo comico nelle sue apparizioni a sorpresa, che scardinano la quotidianità rivelandone il lato più fasullo. Grazie alla sua maschera, Winfried diventa specchio della realtà che lo circonda, ne restituisce una visione deformata e grottesca, fornendo alla figlia la giusta distanza per guardare alla vita che si è scelta. Perché Ines questo strumento lo possiede, lo ha imparato da bambina, ma per ritrovarlo e riuscire ad applicarlo alla sua vita deve essere “violata” da un padre che si presenta nel suo doppio di orco, pronto a diventare una vera e propria ossessione. Toni Erdmann è dappertutto nel suo essere svincolato dalle regole del mondo di Ines: potremmo dire che mentre la ragazza pensa di seguire il “viaggio dell’eroe” (nella sua scalata verso il successo), Toni si impossessa del fuoricampo rendendo manifesto il potere dell’assenza, di ciò che non riusciamo a possedere/vedere, ma che comunque continua ad agire e indirizzare le nostre azioni. In questa sua funzione Toni Erdmann incarna il potere dell’immagine cinematografica, nel suo lato eversivo di possibilità e apertura, in confronto alla didascalicità delle immagini seriali da cui siamo ormai sopraffatti.
Così l’ultima parte del film si trasforma in un’esperienza quasi astratta, colta a raggiungere una dimensione intima che riaffiora bruscamente nella scena in cui l’improbabile Toni costringe Ines a fingersi la sua segretaria e accompagnarlo al compleanno di una seducente signora, dove inscena un karaoke. Proprio nel momento in cui Ines è vessata, letteralmente costretta da un padre-padrone a esibirsi in pubblico, scatta la magia di un passato che ritorna presente. Per Lorenzo – nel libro di Bajani – è il ricordo del gioco con la madre durante l’infanzia, per Ines è il canto al fianco di un padre che per un attimo la fa riconnettere con la parte più profonda di se stessa, provocandole una reazione corporea tanto forte quanto cinematograficamente impeccabile. Da questo momento la missione del padre è compiuta, la figlia sarà pronta a trasformarsi lei stessa in agente della sovversione, mostrandosi nuda: non solo nei suoi sentimenti (come nel canto) ma letteralmente in un naked party che svela in una sola scelta (svestirsi o meno) la falsificazione dei rapporti in atto nella sua vita. E mentre Ines si sveste, diventando via via più leggera, Winfried si traveste sempre più, palesandosi in un mastodontico costume peloso che lo trasforma in un vero e proprio feticcio. Uno spirito o un idolo, che sembra uscito da un disegno di Miyazaki, monumento alla centralità di un rapporto, ormai collocato puramente in una dimensione altra, in cui l’uomo non ha più un volto né un corpo, pronto a prefigurare una morte imminente seppure non annunciata.
Mentre i fantasmi si allontanano, riaffiorano le parole di Winfried: i ricordi si colgono solo retrospettivamente. E forse, sembra suggerirci il finale, trascendono l’immagine, anche se non ci piace pensarla così. La liberazione di una bambina che impara ad andare in bicicletta, la forza di una donna che ricomincia a scherzare. Sono attimi. Puro desiderio che si cristallizza in un momento condiviso, tra un padre e una figlia. Poco importa se Winfried non scatterà mai quella foto a Ines. L’attimo è fuggito, ma forse ha lasciato una traccia.