«Quando passeggio smetto di essere un io e divento un evento», afferma Deleuze mentre la sua silhouette – in una sovrapposizione impossibile – si proietta sul bois de Vincennes, il luogo dove dall’autunno del ’68 al 1980 il filosofo tenne una serie di corsi nel dipartimento fondato da Michel Foucault. Aggirandosi attorno al perimetro ove sorgeva il dipartimento, Claire Simon e la figlia del filosofo, Émilie Deleuze, cercano qualche traccia che ne testimoni l’esistenza: ma niente è scampato alla demolizione eccetto qualche tubo di rame sepolto dalla terra. Forse, se si continuasse a scavare, si rinverrebbero altri tubi sviluppatisi rizomaticamente. Eppure pare che le gemme del rizoma abbiano continuato a proliferare e insufflare la vita negli individui che oggi popolano il bosco dei sogni. Come ricorda Damiano Cantone: «L’Università di Vincennes è lontana dal centro di Parigi, e – visto il suo carattere sperimentale e antiaccademico – aveva il malcelato compito di tenere lontani dalla città gli studenti più attivi nelle lotte politiche di quegli anni»[1].
Non è possibile riassumere il documentario della Simon, presentato fuori concorso al Sicilia Queer Filmfest, volutamente sbilanciato, a tratti didascalico nella scelta delle persone da seguire, come se la regista assumesse, alla maniera del “Deleuze dei corsi”, uno stile più colloquiale. Il ritmo è scandito dall’alternarsi delle stagioni inaugurato da intermezzi poetici che tuttavia non paiono mai posticci. La semplicità dell’approccio permette così la germinazione quasi involontaria di una poesia – similmente a quanto accadeva nello splendido documentario di Silvano Agosti, D’amore si vive (1984) – che di rado si propaga “dall’anfiteatro” – nel senso frontale, paternalistico, accademico che rintraccia Deleuze – che potrebbe qui coincidere con l’ego della cineasta. Così il personale addetto alla sorveglianza e tutela della fauna finisce col disquisire di piacere e istinto osservando la danza seduttiva degli animali dotati di spermatofore.
Gli interventi della Simon si limitano allora a domande scarne o, ancora, a semplici interiezioni che concedono alle persone qualche attimo, prima di riprendere il discorso, e riconoscono al tempo una dimensione circolare non tiranneggiata dal presente, ma schiusa all’avvenire, ossia alla possibile ri-presentazione del passato e alla progettualità del futuro (come adesione/opposizione al passato). Emblematiche, in tal senso, le sequenze dedicate alla celebrazione del capodanno cambogiano e ai guineani festaioli, in cui gli individui lasciano lo spazio ai motivi audiovisuali connessi alla collettività («[…] Anche se stiamo scomodi qui possiamo parlare tutti», diceva Deleuze). Non si inciampa né nel folclore becero né nel campionamento sociologico: ed è forse questa una delle ragioni che contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa, avulsa dai ritmi della competizione omologata della società, la stessa che rifiuta l’eremita trascorrendo giornate intere a dormire per ritrovare se stesso.
Le persone che frequentano il bois – limitandosi ai sentieri più limpidi ed esposti o addentrandosi tra quelli deliquescenti nell’afrore del sottobosco – lo fanno malgrado tutto, nella piena consapevolezza di trovarsi in un luogo geograficamente fuori Parigi ma amministrativamente appartenente alla città. La sua fauna annovera un uomo, figlio di un G. I., che si allena ogni giorno sollevando i tronchi, forse fantasticando un incontro sentimentale; un pittore che riconosce la propria mancanza di genio e rimane nel bosco fino al calare delle tenebre per meglio dipingere ciò che non si vede; una madre che passa spesso intere giornate parlando soltanto con il figlio di nove mesi; delle prostitute che non rinunciano all’indipendenza e che, nei giorni più deprimenti, spendono il guadagno del giorno al centro commerciale; un gruppo di degenti di un istituto psichiatrico tra i quali svetta il «coraggioso Bernard», che non ricorda più quale fosse la sua professione; un voyeur che riconosce a distanza le coppie disposte a essere osservate; un giovane che fa cruising con una pazienza che coincide con «la più eroica delle virtù», perché è necessario un coraggio testardo per accettare l’improbabilità che un incontro vada oltre il rapporto sessuale, malgrado la promessa d’intimità secreta nelle fronde sussultanti al ritmo del coito.
Un film la cui alternanza tra individui e motivi audiovisuali, a tratti torpida perché tendente ad avvitarsi – come nei drone ininterrotti di Eliane Radigue – su se stessa, avvolge lo spettatore ignaro e ben presto errante nello spazio disvelato dalla macchina da presa, allo stesso tempo reale e virtuale.
[1] D. Cantone, Deleuze lettore di Kant: I corsi di Vincennes, in Esercizi filosofici, vol. 1, 2006, p. 100.