Occuparsi della relazione tra sesso e televisione è sempre complicato. Da una parte, sempre più serie mostrano scene di sesso, anche perché i canali via cavo e le piattaforme di streaming non sono tenuti a rispettare gli standard dei network, e così tette, culi e penetrazioni abbondano. In particolare nei canali via cavo a pagamento, dove si può cronometrare quanto ci metterà una serie a mettere in pratica il suo diritto alla nudità: di solito, meno di cinque minuti. D’altro canto, poche cose possono essere considerate problematiche quanto il sesso in tv.
Lo standard per il sesso esplicito in televisione, sviluppatosi di pari passo con il crescente prestigio dei drama antieroici, è quello buono a procurare il tipico contentino allo sguardo maschile. Personaggi femminili che a malapena hanno un nome si tolgono il pezzo di sopra e/o/mentre un altro personaggio femminile, magari dotato di nome, viene brutalizzato. Le ragazze del Bada Bing mostrano i seni sullo sfondo mentre la dottoressa Melfi viene stuprata violentemente nel garage. Le comparse di Game of Thrones mostrano i loro ben acconciati peli pubici mentre Sansa Stark viene violentata sadicamente in un castello. Ci sono eccezioni, certo; Emily Nussbaum ha appena scritto un pezzo su The Americans e Outlander, due serie che si occupano di sesso in modo molto diverso e più appropriato.
Violenza e titillamento dei sensi vanno spesso a braccetto perché sono intrinsecamente connessi: la brutalità è intesa a bilanciare la frivolezza. Una serie può contenere nudità disimpegnate ma ciò non significa che consideri le donne solo come oggetti scenici: True Detective mostra le tette della ragazza di Marty Hart perché l’intero show riguarda l’inquietante e insidiosa minaccia nei confronti di donne indifese. Più donne compaiono nel crime procedural, più grottesco e perverso è il modo in cui muoiono, come se una cosa potesse bilanciare l’altra. Viceversa, la nudità spesso implica ipocrisia, perpetuando la reificazione delle donne che si propongono di prendere sul serio i rischi di questa stessa oggettificazione. Se davvero ti stanno a cuore i tuoi personaggi femminili, dagli qualche battuta!
In questo campo minato ci imbattiamo nell’affascinante The Girlfriend Experience prodotta da Starz, una serie che non si limita a dialogare con i temi dello sguardo maschile, dell’autonomia femminile, del solleticamento erotico, con il sesso e la violenza, ma letteralmente si basa su questi temi. Protagonista è Riley Keough (nipote di Elvis, dotata di un inquietante carisma e un fantastico picco della vedova nodoso) nei panni di Christine Reade, una studentessa di legge di Chicago che diventa escort d’alto bordo per scelta, e la serie prende spunto dal film di Steven Soderbergh dallo stesso titolo.
Christine, che sul lavoro si fa chiamare Chelsea Rayne, non si ritiene sfruttata. O meglio, non lo è. È difficile sostenere tale affermazione, e The Girlfriend Experience è consapevole di quanto sia difficile anche solo pensare una cosa del genere. Siamo culturalmente abituati ad avere una determinata opinione riguardo la prostituzione, la serie ne è consapevole e cerca di prevenirla fin dal principio. Va avanti per la propria strada dribblando ogni facile spiegazione riguardo il comportamento di Christine e la tiene lontana dalle conseguenze potenzialmente più pericolose della sua professione. Christine non ha una storia traumatica alle spalle, proviene da una famiglia solida, non ha problemi finanziari. È perfettamente impiegabile in altri campi: all’inizio della serie capiamo che ha appena ottenuto uno stage in un prestigioso studio legale. Christine teme di poter essere psicopatica, ma probabilmente non lo è. Il sesso che fa non è particolarmente pornografico o estremo, anzi. Christine sa cosa le piace, e le piace esattamente così. Gli uomini sono quasi tutti attraenti, non violenti, rispettosi, sicuri di farla godere. Dopo la breve intercessione di una protettrice, si mette a lavorare in proprio.
A Christine piace il proprio lavoro, e non solo dal punto di vista sessuale. Le piacciono i soldi che fa e la chiarezza del rapporto professionale. “Non mi piace perdere tempo con la gente a meno che non si possa ottenere qualcosa” dice a sua sorella (Amy Seimetz, una dei due ideatori della serie – l’altro e Lodge Kerrigan). Ma all’interno del parametro del guadagno, le piace passare del tempo con la gente: gli unici momenti in cui la si vede ridere è quando in compagnia di qualche cliente.
Se c’è una serie in cui il pubblico può sentirsi del tutto a suo agio e con la coscienza a posto nell’eccitarsi guardando una bella donna che fa sesso con un sacco di uomini più vecchi, è proprio questa: Christine vuole essere guardata almeno quanto piace a lei stessa guardarsi mentre si masturba. Allo stesso tempo, e questo è il suo merito, The Girlfriend Experience, non è quella serie. Certamente Christine vuole vendere il proprio corpo e la gente vuole comprarlo, tuttavia c’è qualcosa di compulsivo nella sua libido: Christine è una workaholic, è dipendente dal lavoro che fa. A rendere la serie così intrigante – nonché una delle poche capaci di servirsi dell’assenza completa di humour a proprio favore – è il fatto che Christine faccia un sacco di sesso consensuale, soddisfacente per entrambe le parti con uomini più anziani in vari hotel moderni ed eleganti, risulti allo stesso tempo eccitante e profondamente inquietante. Lo show è sessualmente provocante e intellettualmente provocatorio, è glamour e sordido, erotico e disturbante.
Più la serie va avanti (forse 13 episodi sono troppi, ma almeno durano poco: c’è bisogno di più serie da 30 minuti!), più la vita di Christine viene complicata e messa in crisi esattamente dal tipo di giudizi che la serie cerca simultaneamente di suscitare e inibire nel proprio pubblico. Non c’è niente di male in una donna che fa esattamente ciò che vuole con il proprio corpo, se non fosse che quasi nessuno nella vita di Christine sembra vederla nello stesso modo. I suoi genitori, i suoi colleghi, i suoi amanti non a pagamento, i parenti dei suoi clienti, e persino un paio di questi ultimi – inclusi gli spettatori – hanno delle riserve, se non autentico rimprovero, riguardo ciò che fa, e sono queste opinioni, più che il suo comportamento, a complicarle la vita. The Girlfriend Experience costringe lo spettatore a prendere in considerazione la maniera in cui si pone non di fronte all’idea di una donna che fa quello che crede, ma di fronte a uno specifico caso in cui ciò accade.
Lo show più vicino a The Girlfriend Experience, in questo senso, è Mr. Robot: proprio come Mr. Robot, anche The Girlfriend Experience parla di un individuo isolato, alienato e furioso, in cerca di una connessione tra le vie socialmente non sanzionabili create dalla corruzione del capitalismo. (“Tutti sono pagati per essere dappertutto, si chiama economia” grida Christine a un suo ex-amante in una delle ultime puntate, difendendo la propria scelta). Christine, come Elliot Alderson, è un’ape industriosa che trova il proprio posto infrangendo la legge, entrando in conflitto con aziende ipertecnologiche e malvagie e con l’ipocrisia sessuale. Diversamente da Elliot, però, Christine non tenta di distruggere il sistema, ma solo di farlo funzionare ai propri fini: lei ha qualcosa da vendere. Di certo non le dispiacerà se questo fa vendere anche iscrizioni a Starz. A patto che la paghino.