Film che sembra scorrere liscio dall’inizio alla fine, a uno sguardo appena ravvicinato Alle Anderen si rivela spaccato in due da una sequenza collocata esattamente a metà. Si tratta di un’escursione sulle rocce in cui Chris marcia imperterrito vero la vetta, totalmente incurante di Gitti, la sua compagna, costretta ad arrancare sempre qualche passo più giù; del resto analoga trascura riscuotono gli sforzi di lei di attirare la sua attenzione (ad esempio con un luculliano picnic a sorpresa tra una roccia e l’altra).
Da quel punto, tutto impercettibilmente cambia. Fino ad allora, la cinepresa di Maren Ade si era tenuta sulla giovane coppia tedesca in vacanza in Sardegna, marcandola molto stretta, fin nella loro più privata intimità; ora, però, il punto di vista si sbilancia sensibilmente su di lei. Complici svariate commissioni di lavoro che impegnano lui altrove, davanti all’obbiettivo c’è ora soprattutto la radicale metamorfosi che in poco tempo trasfigura Gitti da così a così. Magistralmente assecondata dalla sua interprete (una straordinaria Birgit Minichmayr che di punto in bianco si mette a giocare sulle sfumature dopo aver passato un’ora di film a nascondersi dietro l’eccesso espressivo), Gitti scopre amaramente che nessun alibi ormai può sottrarla alla consapevolezza di ciò che, senza dubbio, ha sempre saputo fin dall’inizio, ovvero che sostanzialmente al centro della vita di Chris esiste solo Chris medesimo e la sua sbocciante carriera di giovane architetto idealista, il quale, come tutti i veri idealisti, sente oscuramente che le sirene del pragmatismo sono dietro l’angolo e che non solo non potrà, ma non vorrà fare nulla per resistere loro.
E lei? A lei, in sostanza, non rimane che una cosa da fare, e cioè accettare il suo ruolo da comprimaria, da spalla, partendo da posizioni diametralmente opposte: non si tratterà certo di “fare la donna”, ma piuttosto di vestirsi da donna, di truccarsi da donna (vedremo presto perché); all’inizio, quando il loro rapporto si crogiolava ancora nella presunzione di una sorta di complicità amicale, immune non solo dalle gerarchie di coppia, ma dalla necessità stessa di porsene il problema, il trucco femminile lo dava sulla faccia di lui (e, anche a letto, “l’uomo” era lei). Sul tavolo del gender, dunque, Ade gioca un gioco molto rischioso, ma ha troppa intelligenza per non vincere su tutta la linea. Privo di qualsivoglia giudizio rispetto a come si evolvono i rapporti della coppia protagonista (vale a dire che lei accetti di eclissarsi dietro di lui), Alle Anderen si riscatta da qualsiasi superficiale sospetto di maschilismo in virtù del fatto che, con ogni evidenza, l’unico soggetto attivo del film è Gitti, anche se la sua attività principale consisterà in una resa. Ed è per questo che il film finisce per sposare il suo punto di vista.
E lui? Non è forse lui ad essere davvero “attivo”, visto che finalmente proprio nei giorni di quella villeggiatura vengono gettate le basi per un’affermazione professionale sempre vicina, ma finora mai davvero raggiunta? In realtà, no. Chris ce lo dice fin dall’inizio: “Io pensavo che si diventasse uomo con l’età, e invece non succede mai niente, a parte i capelli che cadono”. E infatti il bisogno di “marcature” della virilità, stante la loro sconcertante assenza, arriva fino a doversi inventare Schnappi, un buffonesco pene finto ricavato da un pezzo di zenzero, precursore della geniale protesi dentale di Toni Erdmann. Ma “diventare uomo”, ovviamente, non ha nulla a che vedere con peni veri o finti. Si diventa uomo, letteralmente, così, per un concorso di circostanze che nulla o poco hanno a che vedere con l’iniziativa personale. Basta dare un’occhiata all’arruffata pinguedine, alla barba studiatamente di-tre-giorni, al sorriso compiaciutamente vacuo e all’indigeribile sbruffonaggine di Hans, “l’uomo delle coincidenze”: collega più anziano di Chris, è per quest’ultimo un’immagine ideale su cui, dopo averla inizialmente stigmatizzata, voler ritagliare la propria carriera, per poi rendersi conto che in realtà “non si diventa uomini”, che una soglia del genere non esiste, e che il navigato Hans è fondamentalmente poco più che un bamboccio, mentre Chris è già perfetto nel ruolo di padre (per i figli della sorella), subito a ridosso dei titoli di testa. Non così la compagna, ancora tremendamente a disagio nel ruolo di (finta) madre.
Per questo, l’azione e il cambiamento sono solo di Gitti. Chris “diventa uomo”, ma questo fondamentalmente vuol dire rimanere esattamente come prima. Chris insomma non fa altro che scivolare impercettibilmente verso l’immagine di Hans, il collega “arrivato” e solidamente pragmatico, fino a quasi coincidervi, seguendo una traiettoria che era già lì fin dall’inizio, e che Chris comunque non fa nulla per assecondare attivamente. Semplicemente succede, come per forza di inerzia.
Ecco perché il principale punto di forza di Alle Anderen è quello di assomigliare irresistibilmente, nel complesso, non già alla scena-giro-di-boa dell’escursione sulle rocce, ma al suo contrario. Il film, insomma, assomiglia a una discesa, lungo la cui china Chris, assorbito sempre e solo da se stesso, ruzzola giù senza problemi (la sua non è certo una virile, attiva “ascesa professionale”), dritto verso lo status di professionista-con-moglie-geisha, unico esito possibile di un’attitudine come la sua (dopo una “fase acerba” in cui lei era per lui poco più di un alibi per non guardarsi veramente allo specchio). Gitti, invece, scende meno velocemente, perché fatica ad adeguarsi a quello che potrà essere, inevitabilmente, il suo unico ruolo a fianco di Chris. Pur confusamente, cerca di resistergli. Ed è per questo che il film sceglie di interessarsi soprattutto a lei.
È di Gitti, infatti, il macigno più grande da lasciare alle proprie spalle, quel temperamento squisitamente melodrammatico, appena nascosto da una foglia di fico cui si fa ricorso tanto frequentemente quanto improbabilmente: l’ironia. Come già viene suggerito dalla primissima scena, Gitti (e così la coppia stessa, quando è lei a tenerne le redini) oscilla costantemente tra una “melodrammatica” nitidezza nella definizione dei ruoli (c’è l’uomo e c’è la donna, l’idealista e il pragmatico…) e la loro confusione grazie a quel jolly, convocato davvero ossessivamente dai due, che è l’ironia. A lei infatti ripugna la prospettiva di diventare come Hans e Sana (la sua compagna), coppia con molto humour ma senza alcuna ironia, con ruoli nettamente ed esclusivamente delimitati. Qualcosa però la terrorizza ancora di più: mutare in quella coppia, solidificarsi in ruoli ben definiti, senza neppure la soddisfazione di chiamare le cose col proprio nome, rinunciando a definire i contorni, le funzioni, le identità (bisogno in lei fortissimo: l’ironia le serve appunto ad illudersi che possa farne a meno). Ma proprio questo è il terreno scivolosissimo in cui dovrà imparare a muoversi (pena la mutazione coatta nella coppia “da incubo” Hans-Sana): un terreno in cui manca sia qualunque comodo contrassegno delle identità, sia il jolly che permette di confonderle a piacimento (l’ironia); un terreno in cui si “cade” nei ruoli per forza di inerzia, senza un accettabile controllo, da parte propria, su questo processo, né sulle identità che esso viene a determinare, senza insomma che ci siano segni chiari di quello che succede e di quello che si diventa.
Ed è proprio questo il terreno in cui Alle Anderen fa di tutto per gettare lo spettatore. L’impressione epidermica è che tutto sia a fuoco: il digitale (luci, composizione del quadro) è usato nel senso della massima nitidezza e di una tagliente definizione dei contorni; l’architrave drammaturgico si regge su un controllatissimo, certosino proliferare di simmetrie, tanto rigorose quanto poco invadenti (solo a una seconda visione si rendono davvero visibili), e la stessa cosa verrebbe da dire del dialogo ai limiti della lucidità programmatica… se non fosse che il dialogo, anch’esso sempre taglientemente preciso, subisce una rarefazione e dilatazione tale per cui finisce per avere un peso maggiore il ricco “rivestimento” visuale tutt’intorno: in primis il linguaggio del corpo degli attori (che comanderà dunque una certa parsimonia nel montaggio), all’occorrenza preciso anch’esso ma più spesso incline a una certa indeterminazione dei comportamenti e degli atteggiamenti. Di conseguenza il film viene segnato da un’atmosfera stranamente sospesa (sospensione di cui, di nuovo, la scena centrale dell’escursione è l’esempio più flagrante), che assomiglia meno alla sospensione vacanziera che al sogno (inconsapevole) di Gitti di sospendere l’inarrestabile mutazione in Hans-e-Sana.
Perché se il film cresce e si sviluppa nel segno di questa trasparenza opaca, che riesce nel decisivo intento di ritrarre il terreno di incontro (e di scontro) tra i due protagonisti come un terreno sempre rigorosamente sconosciuto e misterioso, è perchè Gitti in qualche modo finisce per avvertire che l’extrema ratio per salvare il loro rapporto (e nulla garantisce che questa difficilissima via Gitti e Chris riusciranno a imboccarla e percorrerla con successo – ma quantomeno l’hanno intravista) sia quella di confrontarsi per davvero con la trasparenza e con le sue ambiguità. Perché in fondo, l’unico ruolo che Gitti può avere nel loro nuovo rapporto, è quello di non esistere: solo annullandosi potrà riuscire nel suo intento principale, che è quello di venire riconosciuta agli occhi del compagno. Come la trasparenza è, al proprio fondo, opaca, il nulla è, a ben guardare, qualcosa di più di zero. Così, la donna potrà anche truccarsi da donna (farla, come Sana, mai), ma non tutto sarà perduto.
Melodrammatica fino in fondo, anche se prova a fingere di non esserlo grazie all’ironia, Gitti si butta dalla finestra – ma non succede niente. Chris sbatte contro una porta a vetro, ed ecco il sangue che subito gli esce copioso dalla testa. Che non ci si illuda che la trasparenza dell’aria sia completamente vuota.