Chi è cresciuto negli anni ’70 e ’80, e andava al cinema nei primi ’90, conosce l’imbarazzato entusiasmo provocato dal vedere corpi nudi impegnati in un amplesso sul grande schermo. Incredibile a dirsi, si è trattata di un’adolescenza cinefila che le generazioni successive non avranno più modo di vivere, e vale dunque la pena soffermarvisi, per raccontarla, non senza un pizzico di vergogna. Perché si era lì, con occhi sbarrati e cervello offuscato, inchiodati alla poltrona nell’istante in cui Sharon Stone accavallava le gambe svelando l’assenza di biancheria intima sotto la gonna in Basic Instinct. Che l’attrice fosse o meno controfigurata nelle scene di sesso con Michael Douglas (e non lo era) importava ben poco – i due si erano vantati di averlo fatto davvero sul set, diffondendo voci da “scopata del secolo”: si trattava di un rituale celebrato in un luogo pubblico e per partecipare non c’era altro modo che comprare il biglietto e prendere posto in poltrona. Non era la prima volta, naturalmente: Douglas aveva visto la propria vita matrimoniale andare in frantumi dopo una scappatella con una collega (Glenn Close) in Attrazione fatale (1987 – candidato a ben sei premi Oscar!); il regista del film, Adrian Lyne, l’anno prima aveva spogliato Kim Basinger in 9 settimane e 1/2 e negli anni ’90, dopo aver girato il suo miglior film, Allucinazione perversa, tornerà ai pruriti erotici con Proposta indecente (1993) e il remake di Lolita (1997), pallidi testimoni del tramonto di un’epoca. E qualcuno ricorda Paul Brickman? Forse no, e forse molti tra i lettori di questa rivista sono troppo giovani per aver visto in sala le scene di sesso tra un giovanissimo Tom Cruise e la squillo Rebecca De Mornay in Risky Business, anno di grazia 1983; lo stesso in cui Richard Gere e Valerie Kaprinsky ci davano dentro in piscina e sotto la doccia in All’ultimo respiro di Jim McBride.
1983-1993: questo il decennio cruciale in cui Hollywood non ha fatto mistero del sesso, servendosene anzi platealmente come strumento di lancio al botteghino. Un decennio che corrisponde in toto agli edonisti ’80, preannunciati da American Gigolo di Paul Schrader e dal nudo frontale di Gere che acconsentì a mostrarsi laddove John Travolta oppose rifiuto. Chi avrebbe mai detto che avremmo finito per rimpiangere (si fa per dire) film come quelli sopracitati e che nel corso dei decenni seguenti avremmo assistito a un rinserrarsi delle maglie censorie, a una recrudescenza del moralismo, al trionfante ritorno del buonismo e del politically correct? Laddove la norma ci insegnava che si poteva solo andare oltre, verso più nudità, più sesso, più pornografia. Ma davvero è quanto è successo? Davvero nei nostri occhi di spettatori, oggi, ci sono meno nudità, meno sesso, meno pornografia? Evidentemente no. Eppure qualcosa è radicalmente cambiato, e il cinema popolare, d’intrattenimento, ha epurato il sesso dal suo repertorio, eliminandolo quasi del tutto dal menù. Ma come? dirà qualcuno: e Nymphomaniac di Lars Von Trier? Il sentimental-porno di Love di Gaspar Noé? Il lesbo-melodramma di La vita di Adele di Kechiche? Verissimo: ma qui a essere chiamato in causa non è il cinema d’autore europeo, che non ha mai smesso di flirtare con la rappresentazione del sesso. L’indagine riguarda Hollywood, la macchina dei sogni che ha smesso di fare sogni bagnati, come quello che apre Risky Business: il diciassettenne Joel entra in casa dei vicini, la trova apparentemente deserta, sale al piano di sopra dove sente lo scrosciare di una doccia. Schiude lentamente la porta del bagno e, nel vapore che offusca la stanza, scorge la sagoma di una bella ragazza sotto il getto dell’acqua. Il film era meno stupido di quello che il titolo italiano (Fuori i vecchi… i figli ballano) lasciava supporre: un brillante e corrosivo atto d’accusa nei confronti degli ideali di successo e benessere americani (e con le musiche dei Tangerine Dream!), in cui il giovane protagonista trasformava la propria villa in una casa d’appuntamenti, facendo soldi a palate, proprio come a scuola gli insegnanti e a casa i genitori, momentaneamente assenti, lo avevano motivato a fare. Un film improponibile, nel panorama odierno, e non solo per le scene di sesso tra Cruise e De Mornay, ma anche per quello: la prima, con la finestra che si spalanca lasciando entrare in sala un turbine di foglie secche mentre il ragazzo solleva il vestito di lei scoprendo l’assenza totale di biancheria; la seconda in metropolitana, su un vagone in corsa. Evviva gli anni ’80, maledizione!
E dopo cosa è successo? Non è semplice capirlo, e i testi che qui pubblichiamo non sono che una prima ricognizione, il tentativo di fornire suggestioni, si spera stimolanti, riguardo una questione sfaccettata e complessa, che meriterebbe analisi più approfondita. Certo è che a rivedere oggi Basic Instinct, venticinque anni dopo la sua uscita (fin d’apertura del Festival di Cannes 1992), si ritrova non solo un cinema in cui si fumava molto di più (tanto che nei primi 2000 lo sceneggiatore Joe Eszterhas – colpito da un cancro alla gola – fece pubblica ammenda per aver “glamourizzato” il fumo), ma anche un cinema dove si scopava molto di più, e quando si scopava non ci si limitava a far immaginare allo spettatore che si scopava ma glielo si faceva vedere. Non che il sesso messo in scena fosse particolarmente realistico, tutt’altro, ma poco importa, non lo era nemmeno il resto. Il cinema hollywoodiano degli anni ’80 era testosteronico, fisico, colmo d’azione, ed era tale perché era un cinema pre-internet. Non che internet non esistesse, ma il cinema non ne teneva ancora conto, nemmeno in ambito fantascientifico, e se è vero che in Basic Instinct si fuma e si scopa tanto, quando Michael Douglas fa una ricerca al computer riguardo la vita passata di Catherine Tramell si serve di un macchinario antidiluviano (o almeno, così appare oggi), e sull’orrido schermo squadrato compaiono sfilze di fosfori verdi. Davvero? Nel 1992? Davvero. Inutile dire che quando internet è entrato prepotentemente a far parte della quotidianità di chiunque sono scomparsi i fosfori verdi e sono arrivate tonnellate di pornografia a domicilio, in un aumento esponenziale che ha portato i siti a luce rossa a crescere del 2000% tra la seconda metà degli anni ’90 e la fine degli anni 2000. Una diffusione di tale portata da mettere in crisi la stessa industria del porno – non a caso quella italiana, fino ad allora malamente regolamentata e gestita da un manipolo di avventurieri di basso cabotaggio, è crollata in un istante, dissolvendosi in nulla. In aggiunta a questo, consideriamo che dalla seconda metà degli anni ’90 in avanti, gli Studios hanno cominciato a targetizzare sempre di più i loro prodotti a favore di un pubblico adolescenziale, portando a uno stadio ulteriore il processo di infantilismo spettatoriale avviato già nel decennio precedente con le saghe di Ritorno al futuro, Ghostbusters, & co., e il gioco è fatto. Il sesso è lentamente uscito dalla porta principale (grande schermo) per rientrare, trionfalmente, da quella di servizio (piccolo schermo).
Il cinema, insomma, non è più il buco della serratura attraverso il quale spiare amplessi e nudità, benché non abbia affatto perso la propria portata dirompente nel momento in cui sceglie di mostrare: le misure dello schermo, unite al buio e alla dimensione collettiva della visione, moltiplicano la percezione del senso di tabù. Ma tant’è: il sesso è approdato su altri schermi, più piccoli, più mobili, più privati, e lì si è moltiplicato. Non solo su quello del computer, ma anche su quello televisivo – in attesa che diventino una sola cosa. Mai come negli ultimi anni, infatti, abbiamo visto la componente sessuale, in tutte le sue varianti, entrare a far parte dei palinsesti TV grazie alle serie, sempre più drammaturgicamente elaborate e ricercate, capaci di veicolare contenuti “estremi” in formati di nuova eccellenza (anche perché, dando per scontato che i loro abbonati siano tutti maggiorenni, le reti cable americane non hanno le restrizioni cui deve sottostare il cinema). Gli incesti e gli stupri di Game of Thrones, per cominciare, ma l’elenco è potenzialmente infinito e va da The L World a The Americans, Billions, Black Sails, Californication, Homeland, Looking, Shameless, Sons of Anarchy, True Detective, Weeds, e poi Girls, The Knick, Masters of Sex, Orange Is the New Black, Outlander, Scream Queens, Ricordo persino un pene eretto in bella vista nel bordello di Deadwood… Non che se ne voglia fare di diritto una questione di merito ma è evidente (e ne abbiamo scritto anche qui) che la produzione seriale americana ha soppiantato nell’immaginario delle nuove generazioni (e non solo nelle loro) la cartografia di vite, passioni, esperienze e avventure che un tempo era proprietà del cinema, ormai sempre più rifugiatosi a fantasticare come un ingenuo fanciullo in un mondo di CGI e supereroi. Il cinema ha battuto mestamente in ritirata, dunque, sconfitto nei numeri e nelle potenzialità di riscatto, schiacciato da meccanismi produttivi strettamente omologanti, tanto che oggi il trailer di un film di Hollywood non può mostrare una scena di sesso, a meno che non si tratti esplicitamente di un’opera destinata a un pubblico adulto. E forse è meglio così, come dimostra l’adattamento cinematografico del bestseller Cinquanta sfumature di grigio: un pavido e imbarazzato tentativo di riportare in auge un genere che non esiste più e che non può più esistere, non in quei modi e in quelle fattezze.
Non che il cinema d’autore non abbia patito il colpo: a ben vedere, tende a ghettizzare il sesso in film che parlano solo di quello (Love e Nymphomaniac sono casi eclatanti); e anche quando sceglie di avventurarsi nello spinoso territorio della rappresentazione esplicita dell’eros lo fa non senza goffaggini o sottolineature, come a rimarcare l’intenzionalità del gesto. La scopata – quando di scopata si tratta, ed è sempre più raro – come atto militante a fronte non più di un rimosso ma della sua onnipresenza. In ogni caso senza un barlume del gioioso entusiasmo che ne caratterizzava la messa in scena trent’anni fa: andate a (ri)vedere Richard Gere che, fa cadere l’asciugamano cinto in vita e scardina l’anta della doccia cantando Suspicious Minds di Elvis in All’ultimo respiro, prima di saltare addosso alla divertita Kaprinsky. Il sesso nel cinema contemporaneo è malsano, sofferto, autoinflitto, punitivo, portatore di colpa, strumento di perdizione, alienante nel suo non essere più liberatorio, vissuto come dannazione (Shame), sempre più una questione cerebrale che fisica. C’è la crisi, si sa, e anche il sesso ne risente, ma non è un caso che proprio l’ultimo film di Paul Verhoeven, Elle, presentato allo scorso Festival di Cannes testimoni in pieno questo cambio di rotta, scegliendo di non mostrare niente pur parlando di stupro (e fantasia di stupro) e pur includendo a più riprese il sesso nella narrazione. Lo stesso Verhoeven marca dunque una distanza netta (in fatto di rappresentazione, sia chiaro, che il film è notevole) tra il suo cinema degli esordi in Olanda (Fiore di carne, Il quarto uomo, Spetters), gli exploit americani di Basic Instinct e Showgirls e il ritorno alla produzione europea. D’altra parte, cosa c’è di più algido del sesso ispirato da Isabelle Huppert, e chi meglio di lei può incarnare la malattia del sesso così come la concepiamo oggi?
L’avvento di internet ha dato il colpo finale a un processo di disgregazione del sociale e della collettività in atto ormai da decenni, acutizzando forme di individualismo e solipsismo che trovano un’inevitabile ricaduta anche nella sfera sessuale. Un tempo dopo aver fatto sesso si fumava una sigaretta, ora “dopo aver fatto sesso cancello la cronologia”, recita un detto circolato in rete qualche tempo fa. Non è questo il luogo in cui entrare nel merito delle trasformazioni legate alla vita sessuale nell’epoca di Chatroulette, Bazoocam e affini, ma certo il discorso a sfondo sociologico andrebbe intrecciato a quello sul cinema e sulla rappresentazione sempre più diffusa di una sessualità alienata, distaccata, disfunzionale, morbosa, cupa. Molti sarebbero gli esempi da menzionare, a conferma di un raggelarsi della passione, di un dominio del masturbatorio e della separazione tra soggetto desiderante e oggetto desiderato, a sancire il dominio della concupiscenza a scapito del possesso. E, come volevasi dimostrare, a illustrare in pieno questo fenomeno non è un film ma una serie TV, peraltro tratta da un’opera cinematografica: The Girlfriend Experience, elaborazione di atmosfere e temi dell’omonimo film firmato da Steven Soderbergh nel 2009. Caso esemplare come nessun altro, perché se da una parte c’è un film per il grande schermo con protagonista una pornostar (Sasha Grey) che nonostante interpreti una squillo di lusso si nega totalmente allo sguardo dello spettatore, dall’altra c’è una serie per il piccolo schermo la cui protagonista (Riley Keough) si concede completamente in ripetute scene di sesso con uomini e donne, in ciascuna delle tredici puntate che compongono la prima stagione. Eppure, nel suo arco narrativo, la serie non fa che articolare in maniera compiuta proprio il senso di distaccata alienazione che caratterizza la sessualità odierna, a cominciare dall’impassibilità perenne sul volto della protagonista, soprattutto quando fa sesso. E se il sesso diventa negazione del godimento come può il cinema rappresentarlo, se non negandolo, ghettizzandolo, alienandolo?
Il sesso al cinema non può più avere un valore liberatorio perché siamo già stati liberati. Gli anni ’80 sono stati l’apice di spregiudicato consumo del frutto di tale libertà e oggi non ci resta che contemplare i resti dell’orgia. E dopo, averlo fatto, cancellare la cronologia.