A un livello superficiale si potrebbe affermare che il cinema di Claudio Giovannesi ami trattare storie di adolescenza complessa, di gioventù irrequieta e votata all’illegalità, immersa in un sostrato comune di borgate che generano durezza e alienazione.
Non è sbagliato, ma può essere riduttivo. Fiore, il suo ultimo film, si discosta in questo senso dall’opera che l’ha preceduta, Alì ha gli occhi azzurri. Anche qui il regista romano raccontava di periferie e giovinezza bruciata nelle partiture collaterali di una città che non sempre riesce ad abbracciare tutti con eguale affetto; Alì, ispirato alla profezia di Pasolini e “costola” di un precedente lavoro documentaristico di Giovannesi (Fratelli d’Italia, del 2009), è un film geometrico, quasi ossessivo nei confronti dei due giovani protagonisti, sui quali la macchina da presa insiste nel voler catturare sensazioni, percezioni tattili e sentimenti – senza rinunciare a claustrofobiche spietatezze e a una riflessione importante, sul piano civile e politico, riguardo l’integrazione degli adolescenti stranieri nella società italiana. Non c’è fuga, non c’è evasione: tutto ritorna nel medesimo, annichilente universo di piccole miserie e disperazioni. Nell’ideale di un’apertura mai negata alla possibilità di un riscatto, Fiore appare invece la messa in scena di un atto d’amore. Quello, specialmente, di un autore verso il suo giovane personaggio: una ragazzetta che ruba cellulari in metropolitana e che ha un rapporto insoluto, di silenziosa morbosità, con il padre ex galeotto. È questo il punto di partenza che consente a Giovannesi di girare un film che, a conti fatti, aggiorna il concetto di realismo sviluppato in precedenza: se è indiscutibile che la sceneggiatura e i dialoghi – firmati con Filippo Gravino e Antonella Lattanzi – cerchino fedelmente di trasudare credibilità, il lavoro dell’autore punta a più articolati obiettivi di trasfigurazione.
In Fiore il procedere dei giorni e dei mesi appare in maniera visibile sullo schermo, come a segnare e a scandire un flusso ritmico ed emotivo che incide in maniera inflessibile nelle singole esistenze. La sostanziale differenza con l’opera precedente è legata invece all’idea di spazio: laddove Alì raccontava il percorso del protagonista nel dedalo dall’ampio respiro delle periferie, in Fiore l’irrequietezza della protagonista è compressa nei cubicoli di un carcere minorile; qui Giovannesi dilata il tempo del dolore, scrutando le reazioni morali e sentimentali degli interpreti. Rigorosamente non professionista, dolente, silenziosa e ribelle in sottrazione, Daphne Scoccia vive i drammi e il cambiamento del personaggio mentre il carcere, attorno a lei, si popola di storie e micro-storie di cui si fa testimone. Fino a quando si ri-scopre, grazie all’incontro con un giovane, anch’egli rinchiuso, che poco a poco comincerà ad amare.
Il regista abbandona la via della durezza per intraprendere un percorso di dolcezza e di candore che, se da un lato apre un varco a un ragionamento di spessore sul reale, dall’altro si concede parentesi che virano decise verso altri universi – le parti oniriche o l’intera, significativa, sequenza del ballo. Proprio quest’ultima, da volontà dell’autore, ricorda un po’ Il tempo delle mele di Pinoteau: Giovannesi attinge anche da questo immaginario, che intreccia con efficacia al retaggio nazional popolare. Una cantante in arrivo da un talent di successo re-interpreta Maledetta primavera di Loretta Goggi, al centro di uno dei passaggi (quello, per l’appunto, del ballo di Capodanno) più importanti del film. Frammenti che, in definitiva, testimoniano come l’autore non sia interessato a un discorso realistico se non quando può scartarne le regole. Dafne non è, più precisamente, la Rosetta dei Dardenne – e il realismo di Giovannesi non è quello dei fratelli belgi. Quella scelta dall’autore è una calibratura quasi “classica”, priva di orpelli ma anche di eccessive crudezze. Più che i Dardenne viene in mente L’intervallo di Leonardo di Costanzo, un’opera di valore che il cinema italiano sembra avere già dimenticato: in un contesto spazio-temporale aperto a infinite suggestioni, si macerava l’incontro tra due adolescenti in una Napoli criminale ma fantastica, immaginifica.
Fiore, suddiviso idealmente in tre blocchi, colloca quello ambientato nel carcere minorile al centro, anticipato da un quadro prodromico e seguito dal finale: è tra le ridipinte pareti del penitenziario che il percorso di Dafne assume connotazione e robustezza sognanti. È qui che il personaggio diventa testimone trasfigurante dell’umanità che le si piazza davanti agli occhi, è qui che bacia il suo innamorato avvolta dal ferro delle sbarre e vede altre labbra a contatto tra loro – Giovannesi filma un bacio saffico di grande intensità, espressione di un dolore imminente e prolungato. In Fiore riecheggiano insomma i disegni del sogno e della fuga, la dolcezza di una vita immaginata e mai ammessa; il dolore di Dafne implode quando il padre rifiuta di portarla con sé, scompare quando pianifica la propria fuga verso la vita. Sono questi i momenti in cui il sodalizio tra Giovannesi e Scoccia si afferma in maniera determinante: la visione di entrambi, in forme chiaramente differenti, valorizza l’intero film. Lo si intuisce nei momenti che seguono l’ambientazione carceraria: quando Dafne si rifugia nelle tenebre di un baretto in una periferia che non può non richiamare il cinema di Claudio Caligari, o corre sulla spiaggia in controluce, legalmente libera per poche ore o forse per l’intera esistenza, percepiamo la fantasia della sua silente, rabbiosa rivoluzione.