Nell’indimenticato saggio L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau, Eric Rohmer distingueva immediatamente tra spazio pittorico, architettonico e filmico le tappe processuali della creazione registica: da una parte la fotografia, dall’altra la scenografia, infine la messinscena e il montaggio. Questa premessa, evidentemente pacifica fino a quando non ci si inoltra nel territorio dell’effettiva percezione, è tanto più determinante quanto più radicale è il lavoro di un cineasta su un singolo ambiente, che nel caso dello spazio domestico, universalmente inteso, finisce per coincidere con una delle figure più ricorrenti della Storia (delle storie) del cinema, dalle origini alla contemporaneità. Decisiva a circostanziare la drammaturgia e il suo claudicante progredire, l’organizzazione spaziale della casa di Sieranevada, quinto lungometraggio di Cristi Puiu in concorso all’ultimo Festival di Cannes, è soprattutto il riflesso, l’estensione di una maniera di abitare realtà e relazioni, generando fertili connessioni tra il privato e il pubblico: le mura di un angusto appartamento di periferia divengono infatti il guscio, faticoso e asfittico, dentro cui un’intera famiglia, composta da almeno tre generazioni distinte, si raccoglie per la commemorazione funebre della figura paterna, unica (apparente) assente in questa reunion rituale carica di impasse e disincanto.
L’interno domestico di Sieranevada, set quasi esclusivo fatta eccezione per il lungo incipit durante cui ci si prepara a entrare, e il pre-finale quando con una scusa ce ne si allontana per un momento, è uno spazio per così dire a pianta centrale, con un piccolo disimpegno di ingresso sul quale si affacciano, circolarmente, numerose stanze: la cucina, una sala da pranzo apparecchiata, due bagni, diverse camere da letto. La famiglia che si trova ad occuparle conta la moglie del defunto, sua sorella in crisi con il marito presunto fedifrago, un’esigua ma vivace rappresentanza di amici e parenti avanti nell’età, i figli e le figlie di entrambe le donne, indicativamente tra i trenta e i cinquant’anni, alcuni professionalmente affermati e ormai lontani dalla cultura d’origine, altri loro malgrado ancora ancorati al nido familiare, molti sposati o sentimentalmente impegnati, un paio neo-genitori a propria volta, fino allo sparuto gruppo di giovani o giovanissimi della casa, divisi tra fedeltà un po’ supina e ribellione tardo-adolescenziale (una di loro con amica straniera, ubriaca persa, al proprio seguito).
A generare una sorta di aggregatore narrativo rovesciato, capace non di accelerare l’azione ma al contrario dilatarla, fomentando l’esasperazione dei singoli senza farli venir meno al rispettoso impegno della loro visita, è l’interminabile attesa che saranno costretti ad attraversare prima che alla porta di casa bussi l’uomo di Dio, il prete ortodosso incaricato di officiare la commemorazione funebre e la benedizione del domicilio, solo dopo le quali sarà possibile sedersi alla tavola e, finalmente, consumare il pranzo in continua preparazione per quasi tre ore di film. In questo gioco di interruzioni e procrastinazioni forzate, all’impazienza e alla fame si sommano le parole: prima innocue chiacchiere di circostanza, contraddistinte dal disagio ben riconoscibile sul volto di Lary, il primogenito del defunto, ben presto confronti confusi e ininterrotti, in cui a regnare è lo smarrimento, la mancanza di riferimenti certi. All’indomani degli attentati parigini a Charlie Hebdo, i giovani parlano di terrorismo e cospirazione, una vecchia zia rimpiange i tempi di Ceausescu, la padrona di casa e le figlie si rifugiano nelle dignitose formalità della religione, la moglie di Lary nelle lusinghe omologanti del consumismo. L’unità familiare è evidentemente arrangiata in nome della correttezza verso chi non abita più quella casa, cioè della sopravvivenza allo status quo. Attraverso una mirabile direzione degli attori, Puiu ottiene, da questi pochi spunti peraltro autobiografici e aperti all’improvvisazione, un effetto dirompente di realtà, fatto di voci a vuoto, equivoci, aggressioni verbali al limite del grottesco, in cui il regista riesce nell’impresa di innestare il tema del difficoltoso rapporto con la verità e la menzogna di un intero Paese. La Romania, vista attraverso la famiglia di Sieranevada, è un luogo non riconciliato con la quintessenza della propria Storia, incapace di mapparsi in maniera oggettiva, in cui la farsa collettiva prevale sui minuti sentimenti individuali.
Non stupisce dunque che, a fronte di un impianto fotografico volto a sottolineare la freddezza delle luci invernali, e di una scenografia millimetrica stratificata dai segni del tempo, sia proprio il movimento di macchina, cioè la costruzione dello spazio filmico, a fare della messinscena il correlativo formale della sottile satira domestica in atto. Con un’incerta, irriducibile pseudo-soggettiva del morto, la regia di Puiu incrocia alla poetica del piano sequenza l’inebetimento dello sguardo entro perimetri soffocati, noto del resto anche dal suo precedente film Aurora, rispetto a cui tuttavia si inasprisce l’incapacità di scandire l’ordine del discorso, mentre i corpi si susseguono quasi istericamente, ognuno preda di un alibi, complessivamente incapaci di ascoltarsi: in questo film dove gli improvvisi tagli di montaggio si rivelano indiziari di una discontinuità diffusa, incapace di suturare il conflitto, si passa da una stanza all’altra con la convinzione che le cose potranno soltanto peggiorare, senza però far male a nessuno. Anche per questo Sieranevada tradisce, da un certo momento in avanti, la sua programmatica natura di commedia, e come ogni commedia senza risoluzione effettiva è destinata a chiudersi nel nulla di fatto di una risata, e dei personaggi, e dello spettatore.