A decretare il successo di Grave (titolo internazionale Raw, cioé crudo), più che il giustamente entusiastico applauso che ha concluso la prima proiezione alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes, e stato il numero cospicuo di persone che hanno abbandonato la sala durante alcune scene, appunto, troppo crude. Perché Grave è un horror, e di quelli capaci di disturbare sul serio.
Ambientato nel campus belga di una facoltà di veterinaria, il film vede la sedicenne Justine, figlia-modello timida e posata di una famiglia di animalisti vegetariani, alle prese con la scoperta dei propri istinti, non solo sessuali: costretta dalla sorella maggiore a mangiare carne, realizza con crescente orrore di essere una cannibale. Lo spettatore si trova ad accompagnare l’ottima Garance Marillier nelle fasi di questa incontenibile discesa agli inferi della natura umana dapprima con sgomento e poi con euforia.
Da subito si comprende come la regista Julia Ducournau miri a rendere palpabile l’animalità che soggiace alla civilizzazione, o meglio il confine labilissimo tra esseri umani e animali: nell’incipit una ragazza si getta sotto a un’ auto in mezzo alla campagna come uno dei tanti animali che si vedono schiacciati in autostrada, i goliardi del campus invitano a camminare carponi e a perdersi nel gregge o nel branco, la zoofilia è evocata a piene mani nel rapporto simbiotico con i cani… Ma lo scopo della regista non e tanto quello di riflettere sulla violenza che si nasconde (per palesarsi però spesso e volentieri) nei riti della socialità, quanto innanzitutto rivelare con dovizia di particolari gory il rapporto tra eros e thanatos e la sua traumatica scoperta durante la pubertà. Grave è chiaramente un film sugli aspetti più terrificanti e atavici del desiderio, e ci regala, tra le altre scene memorabili, anche una delle prime volte più belle viste al cinema, violentissima e tra un ragazzo omosessuale e una cannibale vergine. Quello tra Justine e il suo compagno di stanza gay (Rabah Naït Oufella) è solo uno dei rapporti che Ducournau indaga con più interesse, l’altro è quello tra la ragazza e la sorella maggiore Alexia (Ella Rumpf). Già passata attraverso la stessa scoperta della propria identità mutante, Alexia è un personaggio complesso, diviso tra la necessità di trovare nella sorella una complice e il disagio provato nel rendersi conto di non essere unica. Il cannibalismo reciproco che caratterizza i rapporti tra fratelli, fatto in egual misura di competizione e collaborazione, è stato raramente messo in scena con tanta violenta efficacia. Parlare della scoperta dei propri impulsi sessuali utilizzando due relazioni basate sulla parentela e sull’amicizia è una prospettiva piuttosto inedita nella nostra società, che tende a rappresentare il coming of age sempre nei termini dell’amore romantico, e questa scelta rivela una concezione del rapporto tra sessualità e identità molto perspicace e assolutamente non scontata da parte della regista.
Tuttavia, i temi sono espliciti e tutte le metafore (in primis quella del desiderio che implica il consumare l’altro) sono rappresentate alla lettera. Fortunatamente a Ducornau non interessa fare un film “sottile”, anzi è proprio il gusto che prova nel rappresentare le scene più splatter a rendere Grave un film perfetto. Vorace come la sua protagonista, la regista francese pesca a piene mani nella tradizione dei b-movies, da Rob Zombie a La bambola assassina, ma anche naturalmente dal body horror à la Cronenberg, da Żuławski, da Carpenter, cita De Sade, si rifà a film recenti che giocano la tematica femminista in chiave grottesca come Denti o Wet Lands, fino ai manga e a serie tv come Buffy l’ammazzavampiri.
In questa sua fame inesauribile riesce a regalarci una rappresentazione fedele, complessa e entusiasmante dell’adolescenza.