Dopo aver fondato Ring Film nel 2010, Tommaso Bertani ha prodotto tre lungometraggi che, conclusi quasi in contemporanea, hanno ricevuto tra il 2015 e il 2016 attenzioni e riconoscimenti in tutto il mondo. Dietro a Il Solengo, Arianna e Frammento 53 esiste un disegno produttivo sensibile e versatile alle direzioni di autori differenti, che ha inquadrato Bertani, trentaquattro anni, tra le figure più rappresentative di una nuova generazione di produttori in Italia, in continuo dialogo con il mercato del futuro. Abbiamo incontrato Bertani a Venezia e successivamente nel tour di presentazioni di Arianna, opera prima di Carlo Lavagna, in giro per le sale italiane e abbiamo iniziato una conversazione che è confluita in uno scambio di idee sul cinema italiano e la sua relazione con i festival europei.
Come definiresti il tuo percorso, e quali ragioni ti hanno spinto verso il lavoro di produttore?
L’impostazione del mio percorso è, potrei dire, tutta attitudinale… Anch’io ho cominciato da filmmaker, facendo film e video, lavorando a partire da una visione personale delle cose. Un po’ per mentalità e provenienza, un po’ per crescente passione, mi sembrava fosse ogni volta più interessante sviluppare le capacità che un cinema fatto di produzione richiedeva come parte integrante di una pratica artistica. Mi ha sempre stimolato il fatto che dietro a un lavoro ci fossero attitudini produttive precise, lo riscontravo del resto in molti autori anche indipendenti che amavo, e così è nata la voglia prima di autoprodursi, poi di entrare in dialogo con le persone con cui si condividevano gli stessi orizzonti. Mi piace fare squadra. Quando con Carlo Lavagna e Carlo Salsa, regista e sceneggiatore di Arianna, abbiamo deciso che avrei prodotto il film, ci siamo comprati delle magliette da basket per festeggiare. Abbiamo preso uno studio a Roma – all’epoca vivevo a Torino – e abbiamo cominciato la pre-produzione.
La produzione di Arianna si affiancava a quella, già attiva da tempo, di Frammento 53, a cui poi si è rapidamente aggiunto Il Solengo.
Sì, stavo già lavorando con Carlo Gabriele Tribbioli e Federico Lodoli a Frammento 53, un progetto liberiano partito almeno quattro anni fa e che, dopo un primo sopralluogo, si era trasformato in un reportage per la Rai, ma che nel tempo avevamo ulteriormente sviluppato, spingendo il risultato in una direzione molto teorica. In questo caso i finanziamenti sono stati raccolti anche a partire da ambienti diversi: per almeno un quinto del budget è stato fondamentale il contributo del Centro di Arte Contemporanea di Ginevra, e a co-produrre il film si è aggiunta la Galleria Federica Schiavo di Roma. Il lavoro è stato presentato in un montato non definitivo proprio durante la Biennale dell’Immagine in Movimento di Ginevra, poi ha esordito al CPH:DOX di Copenaghen nella sezione New:Vision, è stato ad Art of the Real, al Lincoln Center, e anche ad Ann Arbor, un festival a cui tenevamo moltissimo. Ora prosegue il suo percorso. Nello stesso periodo in cui nasceva lo studio, nel novembre 2013, al CinemaXXI di Roma ho conosciuto invece Alessio Rigo De Righi e Matteo Zoppis, che presentavano il documentario Belva nera. Mi era molto piaciuto e mi sembrava che anche con Alessio e Matteo ci fosse la giusta condivisione di attitudini e orizzonti, ci siamo proposti di fare insieme il film successivo e abbiamo avviato Il Solengo. Siamo riusciti a raccogliere circa un terzo del budget attraverso una campagna di crowdfunding e siamo partiti. Abbiamo vinto due importanti festival, DocLisboa e Torino, e stiamo girando il mondo in lungo e in largo. Il Solengo uscirà in due sale di Buenos Aires a maggio grazie al talento della co-produttrice argentina Agustina Costa Varsi, e speriamo di uscire anche in Italia tra non molto.
Qual è stata la tua attitudine di movimento fra tre film così eterogenei fra loro? Arianna si inserisce in una modalità di racconto finzionale, più inclusiva nei confronti dello spettatore nonostante la cura molto personale della materia trattata, ma in definitiva anche Il Solengo e Frammento 53 praticano percorsi di ricerca differenti all’interno del documentario. Si intuisce una forte idea di apertura, un orizzonte produttivo al di là dei confini netti tra generi e formati.
Non è stato facile, anche se spesso, quando parlo con i registi di questi film, io tendo a mettere i tre lavori sullo stesso piano. Mi fanno immediatamente notare che i tre film sono entrati in relazione a partire da premesse molto diverse. Questo riflette il mio desiderio di creare un gruppo, o per lo meno un’onda in cui ognuno cerchi di migliorare l’altro: anche a fronte di profonde differenze, sento coerenti gli approcci delle singole ricerche e nell’oggetto molto limitato del film avverto molta materia comune. Dopodiché, il formarsi di una linea editoriale è un problema ancora aperto, che sono ben consapevole vada affrontato nel momento in cui riusciremo a realizzare nuove opere. Quali, e come farle, è tutto da capire.
Hai la sensazione che questa linea editoriale debba uniformarsi per sostenersi o che un’eterogeneità di proposte sia un’ipotesi praticabile nel tempo?
Prima di tutto bisogna confrontarsi con il fatto che questi siano film considerati di nicchia, parola che viene associata alla sfortuna, alla povertà e forse alla solitudine (una nicchia umida, una cella monacale). Dobbiamo invece lavorare perché questa parola produca percezioni diverse, e diventi un luogo piacevole dove andare a stare; affinché esista una minoranza di persone che abbia voglia di vedere questi film, soprattutto in sala: un mercato di nicchia è un mercato minore ma può essere molto florido e ricco. È il conformismo che porta con sé la solitudine: nella minoranza ci si sente tutti meno soli, pochi ma buoni. I venditori parlano di durate, formati, parametri, specialmente per il documentario. Anche se la formula esatta non esiste, si percepiscono le attese di una certa “popolarità”, che significa adeguamento al mercato o al pubblico. Ti trovi così a domandarti: che film facciamo la prossima volta? Un film che possa piacere al pubblico? Non significa nulla, il pubblico non esiste se non in un’ottica di adeguamento al gusto. È come se fosse una commissione astratta. Alla Ring Film facciamo anche lavori su commissione, sia chiaro, e ci piace. Per il resto, come in ogni impresa, è tutta una questione di organizzazione e pianificazione. Nell’iniziare questa avventura mi sono detto: se la Ring Film compie lo sforzo di produrre tre film insieme, forse diventerà più riconoscibile. E così di fatto è stato: con Arianna siamo riusciti a fare breccia anche in un ambito più istituzionale, la prima a Venezia, la nomination per il David, il Ministero, la Rai. Le questioni sono dunque più legate alla gestione del denaro che alla scelta dell’uniformità dei film: bisogna capire come muoverlo in maniera diversa dagli altri per proteggere un modo di lavorare, e come riuscire a preservare i rapporti e le relazioni generati dai film precedenti. L’approccio è quello del “mattoncino dopo mattoncino”. Senza scendere nello specifico di budget, percentuali, metodi, semplicemente il business deve essere al servizio dell’obbiettivo esattamente come la tecnica deve essere al servizio della forma, e non viceversa.
Quali sono le direzioni che più ti interessa percorrere, sondare, in particolare rispetto alla cesura, crescente nel nostro microcosmo nazionale, fra i film destinati a un solo mercato interno, e quelli capaci di varcare i confini della cultura italiana?
Faccio un esempio: Bella e perduta è un film che più italiano di così non si può, c’è un pulcinella che se ne va in giro per le campagne tra un ouverture di Respighi e un tombarolo che recita D’Annunzio, ma il valore che esprime viene colto in tutto il mondo perché è libero da auto-rappresentazioni valide solo per spettatori “locali”. La rappresentazione deve avere una forza universale, non di costume. Avverto una forte tendenza, nel nostro paese, a vivere di surrogati dell’immaginario americano (dove ogni forma è al servizio della tecnica), dei riflessi di un’Europa noiosa (la rappresentazione di stato senza neanche l’ebbrezza dell’identità), dell’iniziativa effimera degli youtubers (la solitudine che si vive nel retrobottega del sito pornografico). È così in tutto il mondo, è normale. L’importante è riuscire a valorizzare anche iniziative più originali, o radicali. Poi ognuno fa quello che vuole: io, ad esempio, visto che tifo la Roma e mi immedesimo nella grande narrazione della competizione sportiva, non sento il bisogno di vedere il tal film con Ben Affleck che deve raggiungere il tal scopo, perché sono già appagato dal calcio. Ma quando è agosto e il campionato è fermo, vado a vedermi di tutto al cinema. Ci sono prodotti che hanno successo e allora arriveranno consigli che ti indicheranno di ricalcarli: “Perché non fai un film alla tal de tali!”. Bisogna lavorare sulla comunicazione e vendere anche film di nicchia. Il mio amico Erion Kadilli pochi giorni fa diceva giustamente che la gente si stuferà di stare da sola. Bisogna lavorare sulla distribuzione e sui cinema, cercando di far convergere gli interessi di soggetti diversi o sviluppando nuovi modelli.
A questo proposito, quali sono state finora le tue esperienze con la distribuzione, specialmente nel caso di Arianna?
Distribuire un film è quasi come produrlo, o meglio sarebbe giusto considerare la distribuzione come la quarta fase della produzione, cominciando a pianificarla da subito. Bisogna lavorare molto sul rinnovamento di questa fase, sarà un processo lungo e se si continuerà a fare film di nicchia bisognerà creare un circuito di nicchia che, ribadisco, può essere ampio e ricco. La nuova legge sul cinema incentiverà l’investimento sulle sale e la distribuzione autonoma da parte delle società di produzione: il discorso è molto tecnico e complesso, il succo è che deve nascere un nuovo circuito. Arianna è stato distribuito dall’Istituto Luce, forse il marchio più bello del mondo, che sicuramente tornerà a splendere nei prossimi anni grazie alla guida di persone esperte e lungimiranti, e magari nella creazione di un nuovo circuito.
Quale ruolo ti ritagli all’interno dei film e in particolare quale dialogo hai tenuto e tendi a tenere con i registi?
È sempre un dialogo teso a un discorso cinematico. La libertà di questi film sta nella fedeltà che hanno mantenuto nei confronti dell’idea, nell’ideale di un buon linguaggio, di bel canto. Il mio ruolo è stato semplicemente quello di tenere chiaro, anche agli occhi degli autori, il potenziale di partenza del lavoro nel corso di tutta la produzione. Se ci si smarriva, ricordare che “quello di cui avevamo parlato prima era un’altra cosa”, cercare di arrivarci, mantenere la tensione verso le premesse iniziali. Mi piace pensare a una casa di produzione come a un’etichetta musicale, il producer è chi tira fuori il meglio dall’idea della canzone, la fa “suonare”. In Italia, purtroppo, nei rapporti tra produzione e regia vige il modello padre-figlio, con il regista che dà del fascista al produttore perché vorrebbe girare di più e il produttore che cerca di educare il regista. Questa dinamica è pericolosa, perché può portare a facili alibi: il produttore finisce per fregarsene – l’importante è che il prodotto alla fine sia impacchettato – e l’autore finisce a rivendicare i torti subiti. Non mi interessa questa situazione. La bellezza dei film spesso sta nell’approccio, nell’esperienza della pratica artistica, che per forza di cose si riflette nella rappresentazione.
Quali film di riferimento citeresti rispetto alla recente produzione italiana?
Seguo il lavoro di Paolo Benzi, di cui ho apprezzato enormemente L’estate di Giacomo di Alessandro Comodin, e rispetto moltissimo l’operazione fatta con Roberto Minervini. Mi spiace che Louisiana non abbia vinto il David come miglior documentario, lo avrebbe sicuramente meritato. Di Bella e perduta mi piace l’approccio produttivo, e mi piace moltissimo il nome Avventurosa, la società di produzione. Il lavoro di Tempesta è un lavoro serio e di grande qualità, e lo stesso vale per Vivo film e Gregorio Paonessa. Mi fa anche molto piacere citare il lavoro di Damiano Ticconi, che è il co-produttore di Arianna. Mi interessa molto la figura del produttore delegato. E poi mi va di fare i complimenti a tutti i produttori che hanno il coraggio di affrontare seriamente il lavoro anche se i loro film non mi piacciono. In ogni caso penso e spero che la Ring Film si distingua per un motivo o per l’altro, fosse anche soltanto per la sua insegna specchiata.
A quali progetti stai lavorando?
Sto lavorando al nuovo film di Yuri Ancarani, girato in Qatar, una co-produzione con la Francia. Lo avremo concluso probabilmente in settembre. Come si potrà immaginare, è un documentario di forte impatto visivo, ma si confronterà con una durata superiore a quelle dei suoi lavori precedenti (ecco, parlo di durata anche io!). Per tutto quel che riguarda il futuro stiamo scrivendo e sviluppando nuovi soggetti, i nuovi film. C’è il nuovo lavoro di Alessio e Matteo che è una storia di emigrazione negli anni Trenta, fra l’Italia e le Americhe, e un’idea di Carlo Gabriele che ha ancora a che fare con la guerra. Con Carlo Lavagna spesso ci incontriamo e iniziamo a discutere, ci interroghiamo, alla fine arriviamo alle solite ipotesi: “Perché non facciamo una commedia?”. Il fatto è che, semplicemente, rischieremmo di finire per fare un film su noi stessi.