Come era facile prevedere, la prima edizione dell’International Film Festival Rotterdam dopo il cambio al vertice (Bero Beyer è il nuovo direttore) non si è scostata, nella sostanza, da una cauta continuità. Benché l’itinerante cicaleccio festivaliero continui già da qualche anno (e con buone ragioni) a paventare qualche cedimento, la formula dell’evento continua a risultare pressoché irresistibile, per via della sua offerta mastodontica (una dozzina di sale impegnate una quindicina di ore al giorno per una decina di giorni) e abbondantemente variegata (un concorso – sempre più anodino, in verità – di opere prime; una sezione con cineasti emergenti; una con altri più affermati; centinaia di cortometraggi, tra i quali trovano posto non pochi programmi spiccatamente sperimentali; varie retrospettive, tra cui una di matrice più storica e una più “autoriale”… e molto altro). Ma se Rotterdam riesce ogni anno a vincere la diffidenza con cui gli addetti ai lavori tendono sempre di più ad approcciarvisi, è perché oltre a fornire una ghiotta occasione per recuperare ció che si è perso del circuito festivaliero dell’anno precedente, riesce sempre a “pescare” ció che le troppo usurate o grossolane reti dei festival maggiori non sono riuscite, colpevolmente, a trattenere.
In questo senso risulta clamoroso, ma non troppo, il caso di Mother (Mama) di Vlado Škafar, presentato qui dopo aver “bucato” un bel po’ di selezioni nel corso del 2015. “Clamoroso”, perché la sua eccezionale qualità è stata prontamente riconosciuta da tutti, come testimonia la notevole accoglienza immediatamente riscossa presso la critica online internazionale. “Ma non troppo”, perché obiettivamente un film del genere Cannes, Venezia e compagnia bella non se lo meritano. Buttato nel calderone di qualche “sezione minore”, o peggio di qualche “giornata” o “quindicina”, insieme a qualche bellimbusto esordiente pompato dai FilmLab, Mother sarebbe stato, purtroppo, scambiato per quello che decisamente non è, ovvero un facile esercizio di minimalismo in provetta come se ne vedono tanti. E invece, Škafar il minimalismo non lo tiene affatto in provetta, ma lo mescola, appunto, chimicamente con il lirismo, reagente tanto più potente quanto distante dal primo. I due sfumano l’uno nell’altro, come i primi piani delle due protagoniste si uniscono in una medesima, nebbiosa dissolvenza in grigio durante l’incipit. Da un punto di vista strettamente narrativo, quella nebbia è lí per restare; fino alla fine e oltre, immersi in una sorta di vuoto temporale in cui solo “qualcosa” di epidermicamente fisico e/o fotogenico accade e solo quello merita attenzione, non capiremo mai cosa succede, sappiamo solo che madre e figlia non si parlano o quasi, che c’è di mezzo una casa isolata sui monti che dovrebbe riavvicinarle ma non lo fa, e un centro di recupero in cui la figlia, forse, dovrebbe accettare di venire ospitata. Ma il punto, naturalmente, non è lí. Lo è molto di più, semmai, nel leitmotif vegetale che fa da tenue, unico cordone ombelicale che lega la madre alla figlia, quasi mai viste insieme, ma quasi sempre in scene che ritraggono l’una o l’altra da sola, e più di una volta appunto alle prese, oltre che con le proprie emozioni mentre guadagnano con delicatezza la superficie, con piante, foglie, alberi… Anche perché la metafora vegetale, tutto sommato, si attaglia benissimo alla stessa regia di Škafar e ai suoi appena percettibili movimenti di macchina, attentissimi al passare “organico” di un istante in quello successivo, in modo da creare le condizioni per l’emergere di innumerevoli epifanie visuali lungo la via, nei volti, nella natura, negli ambienti, in tutto ció su cui riesce a posarsi la luminosità, spinta fino al coraggio, della fotografia di Marko Brdar.
Il segreto è semplice: si tratta solo di sapere, avvertire, sentire che quando si spara un magnificat a tutto volume, alla macchina da presa conviene scendere lentamente, seguendo le fronde verdi di un albero verso il basso, fino a incontrare in campo lungo il rosso di un fiore, di un rosso appena visibile ma che risulta più violento ancora delle note trionfali in sottofondo. La maggior parte dei film oggi, questo segreto l’ha perso: tanto peggio per i festival, che si accontentano de “la maggior parte dei film oggi”. Vlado Škafar no. La cura per la tessitura di ogni scena, di ogni sua piega anzi, e l’inusitata posta in gioco emozionale di cui le immagini accettano di farsi carico come quasi nessun cinema oggi accetta di fare (la prima e la seconda componente essendo, ovviamente, inscindibili), fanno di Škafar uno dei maggiori cineasti europei in attività – e gli straordinari Letter to a Child (2008) e Dad (Oča, 2010) sono lí a confermarlo.
L’altro highlight di questa quarantacinquesima edizione è stato, non c’è dubbio, Wake (Subic) di John Gianvito, già mostrato alla scorsa Viennale e in varie occasioni oltreoceano. Si tratta della seconda parte di For Example, The Philippines, dittico iniziato nel 2010 con Vapor Trail (Clark), ed esito di un’indagine condotta da Gianvito nel 2006 circa i disastri ambientali prodotti da ció che rimane delle basi militari statunitensi di Clark (aviazione) e Subic Bay (marina) nelle Filippine, tra le più imponenti in assoluto al di fuori del Nord America. Nel 1991, il senato locale votó per l’espulsione degli americani, i quali se ne andarono senza minimamente preoccuparsi delle conseguenze della loro dismissione. Fra le altre cose, esse includevano la liberazione di materiale tossico nelle acque del circondario e altrove; ne risultarono innumerevoli casi di tumore, leucemia, nascite premature o deformi, disturbi nervosi e cardiaci, allergie della pelle, aborti spontanei e quant’altro. Tutto ovviamente ignorato o insabbiato dalle autorità, nonostante i caparbi e lodevoli tentativi di alcuni attivisti di fare luce su questa piaga, fare opera di sensibilizzazione al riguardo, cercare di porvi rimedio.
A costoro (soprattutto all’encomiabile Teofilo “Boojie” Juatco), oltre che alle vittime e ai familiari, vanno il grosso delle interviste, corredate da documenti d’archivio, cartelli esplicativi e altro materiale che Gianvito organizza in senso diametralmente opposto rispetto alle fanfaronate di, poniamo, un Michael Moore. Laddove i montaggi di quest’ultimo hanno come unico fine l’efficacia comunicativa, attraverso cui portare lo spettatore dalla propria parte, Gianvito cerca una forma attraverso cui i propri materiali possano dispiegare la propria coerenza e necessità interne. In Vapor Trail (Clark), si trattava dunque di dare tempo, spazio e respiro alle interviste, lasciando che il montaggio finale sfiorasse le quattro ore e mezza, perché non si trattava solo di informazioni da fornire, ma anche di dare un’idea concreta di cosa voglia dire vivere e abitarci, in quelle zone infestate, e soprattutto della fatica che comporta quel lavoro autenticamente fisico che è l’attivismo politico in casi come quelli, in cui sembrerebbe che non si possa fare altro che sbattere contro un muro invisibile. Se si indugia cosí a lungo nelle interviste e nelle situazioni, è perché l’empatico “stare-con” quelle persone, dentro la loro durata, è importante tanto quanto l’assorbimento delle informazioni. Wake (Subic), di durata analoga (277′), nella sua prima metà prosegue e porta ad ideale compimento l’approccio di Vapor Trail (Clark); il carro funebre che la cinepresa segue in una delle primissime immagini si rivela contenere, un paio d’ore dopo, un bambino deforme morto per i postumi dell’intossicazione, con il quale, a quel punto, abbiamo condiviso un bel po’ di tempo di proiezione. Il cartello che ci avvisa di punto in bianco della sua (data di) morte, anche se non sorprende, gela comunque il sangue. Nella seconda metà, ció accadrà un altro paio di volte, con altrettanti soggetti in precedenza lungamente intervistati.
Di nuovo: Gianvito è l’anti-Moore, dunque non va pensato nemmeno per un istante che questi siano “pugni nello stomaco” assestati per arruffianarsi lo spettatore. Di nuovo: in primo piano ci sono le esigenze autonome della forma, volte unicamente a che il fenomeno si dispieghi nel modo giusto, secondo la propria coerenza interna. L’emozione dello spettatore non è un fine (come per il pavloviano Moore), ma un necessario sottoprodotto della struttura che il film deve avere per stare in piedi. Rispetto ad essa, l’emozione è ai margini, ma non puó non esserci. Perché? Perché proprio la struttura che dà forma al film verte, in definitiva, sul fatto che quel disastro ambientale non riguarda solo le Filippine, ma ci riguarda tutti.
In che senso? Nella seconda metà, la struttura del film si solidifica in una rigorosa tripartizione. Gianvito alterna tra il passato, il “tossico” presente, e i tentativi degli attivisti per porvi rimedio. “Passato” qui si riferisce alla guerra mossa dagli Stati Uniti alle Filippine nel 1899, ripercorsa attraverso documenti (dichiarazioni ufficiali, cronache, fotografie…) di allucinante brutalità. Innescata dalla volontà di aprirsi vie commerciali in Asia, la guerra filippino-americana ha tracciato e spianato la strada a quello che sarà, nei decenni a seguire, l’imperialismo economico statunitense, ancora vivo e vegeto sotto le mentite spoglie della “globalizzazione”. Spesso rimosso e dimenticato, questo conflitto fu dunque, invece, centrale e decisivo per le sorti non solo di tutto il secolo scorso, ma anche di quello che stiamo vivendo. E l’enfasi sull’inquinamento, se da un lato riguarda quella singola specificità storica (le Filippine contemporanee), allo stesso tempo si allarga facilmente a qualsiasi altra latitudine geografica: si tratta, in altre parole, di un segno facilmente universalizzabile, che punta dritto allo strapotere delle multinazionali (ovviamente le prime a buttarsi su quella ghiotta occasione immobiliare e non solo che erano le basi dismesse) di fare quello che gli pare, grazie soprattutto alla loro provvidenziale “invisibilità” e imprendibilità giuridica, capace di riversare su noi tutti valanghe di rovine (tossiche) scambiate, proprio in virtù di quell’imprendibilità e invisibilità, per inevitabili fatalità senza origine. Facendo mulinare insieme il passato della guerra, il presente dell’inquinamento e l’impegno degli attivisti (il futuro?) fino a farle risultare inscindibili, Gianvito vuole suggerirci una prospettiva ben definita: quella per cui, “sotto” allo sfacelo di questo presente, i cui contorni sembrano non lasciarsi definire, pulsa ancora il colonialismo e l’imperialismo che furono. Ed è in questo senso, che questa tragedia ci riguarda tutti: è il presente di tutti, ovunque siamo, che si lascia afferrare solo se illuminato dalla luce della storia passata, ovvero dalla consapevolezza di colonialismo e imperialismo che continuano ancora oggi a trionfare con altri, meno riconoscibili mezzi. È qui che il rigore storiografico della struttura di Wake (Subic) incontra, prevede e determina il prodursi dell’emozione ai propri margini: non puó non esserci coinvolgimento, perché nella sostanza nessuno oggi vive in un mondo diverso da quello, cascame rovinoso di un irrisolto e traumatico passato colonialista e imperialista. E lungo la via, in effetti, più di un brivido attanaglia lo spettatore: ad esempio quando per via del puramente formale affiancamento tra i tre strati menzionati si viene sfiorati dal tremendo sospetto (che non va frainteso, ma non bisogna nemmeno fingere che non esista) che un filo sottile (quello ideologico della fede nella teleologia lineare) possa collegare i lodevolissimi attivisti che spendono tutta la loro vita e le loro energie per indirizzare gli abitanti di quei luoghi verso l’emancipazione, e i massacri compiuti in nome dell’“esportazione del progresso”. Oppure quando una giovane funzionaria, messa alle strette, è costretta a ricorrere con riluttanza alla solita formula passepartout (per la coscienza soprattutto): “beggars can’t be choosers”.
È cosí dunque che proprio da una struttura di un rigore che all’apparenza sconfina nella freddezza finisce per prodursi un coinvolgimento sempre crescente, fino a una impervia, fiammeggiante parte finale. Ma la lucidità non viene affatto persa per strada: per chiudere questo suo capolavoro, Gianvito sceglie la più perfetta delle metafore: la lapide commemorativa dell’innesco della guerra filippino-americana, oggi una sagoma vuota il cui contenuto è stato rubato, su di un ponte che dà su acque di clamorosa sporcizia. I passanti, interrogati, non sanno cosa sia, né a cosa si riferisca. Alcuni. Altri lo sanno. Più di quanto si immaginerebbe. L’oblio non è irreparabile.
Se mai qualcuno pensasse che l’estetica e la politica siano due sfere che al cinema vanno tenute distinte, e che la loro unità è un’idea balzana con cui ci si è invano baloccati in passato, Wake (Subic) è il film che smentisce definitivamente questa mal riposta opinione.