Mózes, il pesce e la colomba è il buon esordio alla regia della giovane ungherese Virág Zomborácz, nata a Budapest nel 1985 (titolo originale dell’opera Utóélet-Afterlife, letteralmente Oltre la vita, nel 2015 vincitrice del 33° Bergamo Film Meeting).
Mózes, giovane laureato in teologia, e il padre, pastore protestante, hanno un rapporto fortemente conflittuale. L’atteggiamento svalutante e opprimente del genitore nei confronti del figlio non si risolve dopo il ricovero di quest’ultimo in una clinica psichiatrica e nemmeno dopo la morte improvvisa del primo. Anzi proprio la morte del padre metterà in risalto le disgregazioni presenti nel nucleo famigliare e nella comunità, di cui il disagio di Mózes non è che una immatura dimostrazione esemplare. Infatti il guaio, per Mózes, è che la sua già difficile esistenza viene messa a dura prova dalle continue apparizioni, solo ai suoi occhi, del fantasma paterno.
Nonostante anche il padre, in principio, si limiti ad apparizioni mute, ben poco c’è di amletico in quel fantasma. Come ci informa la regista stessa, lo spunto nasce da alcuni sogni riguardanti il proprio padre, avuti nei mesi successivi la morte del genitore. Ed in effetti, al di là dello straniamento iniziale, è molto chiaro come non una vendetta di matrice shakespeariana sia il fulcro della vicenda, bensì un racconto di formazione (o meglio di maturazione) del giovane disagiato protagonista.
Questa chiarezza e semplicità, di intenzione e di narrazione, ci permettiamo di dire, sembra essere il limite principale di questo pregevole lavoro. La pulizia del racconto, la dimensione surreale che non scade mai nella gratuità del non-sense, ma che invece aggiunge valori simbolici e onirici, a volte rimbalza addosso allo spettatore un senso di perfezione esageratamente meccanica e calcolata, priva del sentimento capace di generare empatia e quindi comprensione ed affetto verso il protagonista.
Evidente come ciò che abbiamo definito limite è, almeno in parte, un sentimento di freddezza funzionale alla vicenda. Non secondario deve essere stato, data la moltitudine di piani ravvicinati, il lavoro effettuato sul corpo dei personaggi e la ricerca di quei due particolari volti: gli ungheresi Márton Kristóf (il figlio, dai lineamenti vagamente keatoniani) e László Gálffi (il padre). Volti a tratti così straordinariamente inespressivi e insignificanti da ben figurare la tremenda soggezione che aleggia sopra Mózes e che intrappola tutta la comunità. Un ulteriore elemento significativo si trova nello spazio in cui si muovono i personaggi: uno spazio impacchettato in un cielo sempre cupo e plumbeo, in un clima freddo e angosciante che perfettamente si addice alla personalità insensibile del padre. A tal proposito si veda la sequenza iniziale nella clinica (un’opaca luce verde al neon nel corridoio) o quella della cena (in cui il figlio vegetariano viene obbligato a mangiare la carne) o, ancora, quella relativa alla seguente gelida gita a pesca. Limite quindi trascurabile nell’insieme dell’opera.
Il percorso di maturazione di Mózes attraversa situazioni surreali (si veda la figura del meccanico esperto di spiritismo) e incontra figure simboliche (i due animali presenti nel titolo e il pitbull del Decano, la solita macchina della polizia che a volte si ripresenta) a volte anche estremamente complesse o di non facile interpretazione, ma che comunque non perdono la possibilità di una forte pertinenza alla narrazione. Questi elementi si confondono col percorso di Mózes e ne diventano complementari: la colomba bianca riuscirà finalmente a volare; il pesce, dopo aver rischiato, tornerà libero nel lago; il pitbull, che fin dalla sua prima apparizione ha sempre costituito una minaccia per Mózes, verrà crudelmente giustiziato dalla sorella adottiva (la quale spesso gira munita di fucile, col benestare della polizia).
Se gli ambienti, i colori e i simboli svolgono un ruolo basilare nella riuscita dell’opera, non si può evitare di sottolineare la figura determinante di Angéla (la giovane attrice serba Andrea Petrik). Bionda, nettamente in contrasto con la tristezza prima descritta, col suo fascino selvaggio (ballando sensualmente sulle note di Dancing with Myself di Billy Idol) sedurrà Mózes (già maldestramente in cerca della “relazione seria”, attraverso un annuncio), sciogliendone la rigidità iniziale e trasformandolo infine in un soggetto attivo nella propria esistenza. È lei che tiene il pesce in vita, trovandogli una sistemazione temporanea. Azione non da poco se poi Mózes, nel finale, si addentrerà nel lago proprio per liberare lo stesso pesce dove lo aveva pescato e in questa circostanza incontrerà una giovane fanciulla, con la quale poter scambiare un sorriso. Un sorriso che, nel blu dell’acqua e del cielo soleggiato, è uno sguardo nuovo. Uno sguardo probabilmente maturo e sereno, consapevole del fatto che, come ci ricorda nei titoli di coda Belinda Carlisle, Heaven Is a Place on Earth.