Caro collega Girish,
il tuo libro suscita molte riflessioni – in tutti i suoi lettori, ne sono sicuro. Lo apprezzo davvero moltissimo: per la sua generosità intellettuale, per la ricchezza di riferimenti bibliografici, per la scrittura elegante ed essenziale. Riesci, in poco spazio, ad affrontare moltissime questioni! E qui mi torna in mente una suggestiva dichiarazione di Jean Louis Schefer in un’intervista rilasciata per qualche rivista verso la fine degli anni novanta: la sua idea era che il compito di un autore non fosse quello di studiare un argomento ‘in profondità’ (come da cliché), ma di coprire, di mappare una superficie più vasta, di tracciare una serie di connessioni fino a quel momento invisibili… è questo è esattamente ciò che tu sei riuscito a fare così bene.
Questi sono alcune dei ragionamenti che il tuo libro mi ha spinto a fare. In primis, la ‘nuova’ cinefilia. Quando viene attribuito a qualcosa l’etichetta di ‘nuovo’, immediatamente mi chiedo quale fosse la sua ‘vecchia’ declinazione, e quando esattamente quest’ultima sia definitivamente tramontata. Non è in discussione il fatto che ci sia, in effetti, qualcosa di nuovo in quella che tu definisci Nuova Cinefilia (detesto quel tipo di argomentazioni liquidatorie e tranchant, così diffuse in ambito accademico, che partono dal presupposto che non ci sia “niente di nuovo sotto il sole”); quello che vorrei fare è contestualizzare questa attribuzione da un punto di vista storico, per vedere cosa si può ricavarne.
Ora, i discorsi sulla ‘nuova cinefilia’ risalgono almeno a un testo di Louis Skoreki del 1978 (il suo purtroppo mai tradotto Against the New Cinephilia, poi riproposto nel volume Raoul Walsh et moi) – e forse anche a una pubblicazione precedente, Notes on the New Spectator di Jean-Louis Comolli, del 1966 (questa tradotta). Quali erano le questioni che vi si dibattevano? In realtà, si tratta di prime reazioni a un cambiamento che anche tu rilevi: a infastidire i ‘vecchi cinefili’ della metà degli anni sessanta (e a entusiasmare un giovane Comolli) era l’abitudine sempre più diffusa tra i giovani a non guardare soltanto i film proiettati al cinema, ma anche in televisione! Quando Skorecki scrive la sua affascinante (e piuttosto contraddittoria) invettiva, la tecnologia video (alla base della distribuzione cinematografica su videocassetta) si profila oltretutto all’orizzonte a stravolgere ulteriormente la situazione… c’è sempre questa presa di distanza, che si instaura gradualmente, tra la supposta ‘innocenza primigenia’ della ‘vera’ esperienza cinematografica, e la sua verosimilmente alienata versione veicolata e mediata attraverso i circuiti elettronici, i piccoli schermi, e infine anche lo streaming e il download…
Come te (credo), non ho mai trovato convincente questa argomentazione (o questo modo di sentire, per quanto lo comprenda e lo rispetti), semplicemente perché, in quando adolescente già pienamente parte di quella generazione ‘cresciuta dalla TV’, devo la gran parte della mia cultura cinematografica e della mia scoperta dei ‘classici’ (del cinema d’essai, di Hollywood, del cinema di genere) a questo mezzo. Difficilmente avrei potuto vedere in altro modo Ugetsu (I racconti della luna pallida di agosto, Kenji Mizoguchi, 1953), Rocco e i suoi fratelli (Luchino Visconti, 1960) o Alphaville (Jean-Luc Godard, 1965) o They Live by Night (La donna del bandito, Nicholas Ray, 1948) nella periferia di Melbourne quando avevo 14 o 15 anni! E anche oggi, pensando alla lista dei miei film preferiti, mi rendo conto che ho visto By the Bluests of Seas (Boris Barnet, 1936), Behindert (Stephen Dwoskin, 1974) e alcuni lavori di Garrel solo in VHS, in DVD o al computer.
Ciò nonostante, ci sono molte sovrapposizioni ed elementi di continuità fra la vecchia e la nuova cinefilia, malgrado si possa decidere di considerarle come due fasi distinte. Entrambe (come hanno sottolineato intellettuali tra cui Jean Douchet e il recentemente scomparso Paul Willemen) si definiscono attraverso i propri rituali, il loro ‘feticismo’ (per usare l’espressione meno gentile). Rovistando fra vecchie carte di recente, ho ritrovato le testimonianze di una manifestazione della passione cinefila ormai decisamente superata – del tutto cancellata da internet: il collezionare foto di scena, poster, volantini, eccetera (molti dei quali sembrano inutili e perfino un po’ bizzarri con il loro bianco e nero, utilizzato allora per facilitarne la stampa). Questo collezionare immagini ha oggi il suo esatto (e direi anche superiore) equivalente digitale nel salvare screenshot e nel disporli con cura sul proprio Tumblr. Entrambe le attività sono manifestazioni di uno stesso desiderio rituale, quello di possedere un ‘pezzo’ (per quanto ‘fuoriposto’) di un film, per conservarne il ricordo con un segno tangibile – come spieghi chiaramente nel tuo libro –, con la differenza (in generale) che Tumblr è (potenzialmente) una vetrina pubblica, molto di più dei ‘reliquiari privati del cinefilo’ (rappresentati e allegorizzati da Truffaut nella “camera verde”) o dei raduni tra collezionisti di una volta.
Mi sembra, Girish, che buona parte del tuo libro riguardi l’atto di ricordare i film, il ‘processarli’ nella propria mente. Ricorri con grande efficacia (anche attraverso i lavori di Victor Burgin, Catherine Fowler e altri) alla distinzione tra un cinema ‘qui’ e un cinema ‘altrove’, il cinema che viene ricordato, per esempio, nel ‘coccolare’ (in molti modi!) quelle testimonianze in forma di immagini fisse descritte pocanzi. E, in un certo senso, tu opponi all’estenuante dibattito sull’istupidimento a cui ci indurrebbe il digitale (questa discussione ha, pure, una lunga tradizione che risale almeno a quando certi individui dal turbamento facile lamentavano la proliferazione di ‘troppe immagini’ nell’Occidente industrializzato!) la ‘grazia salvifica’ che deriva dalla possibilità di ‘connettere’ le nostre menti, in forma ancora più allargata, attraverso la rete, e il poter sfruttare hard drive e supporti per l’archiviazione dei dati come fossero delle protesi e delle banche dati della nostra memoria…
Questo mi ricorda una precisa figura filosofica e culturale: la monade (così come la definisce Leibniz). Io percepisco una tensione, una dicotomia nel tuo libro, Girish, tra l’esperienza individuale e collettiva. L’esperienza collettiva è quella a cui tu alla fine aspiri: in special modo all’incontro, al dialogo con il pubblico non cinefilo. Tuttavia, molta della rivoluzione digitale che tu descrivi, per il modo in cui ne delinei le metodologie, è in sé un’esperienza fortemente individuale, ‘monadica’: dai un’occhiata alle tue liste e alle tue notifiche, salvi e conservi qualche articolo, fai qualche discussione (a volte perfino di un certo spessore intellettuale!) sui social, e così via. La moderna rêverie della monade, tuttavia, non prevede affatto che essa sia solitaria o alienata (o, per lo meno, la monade non vorrebbe percepirsi come tale); si tratta piuttosto di un’esperienza simile alla strana comunità virtuale descritta meravigliosamente da Thierry Rousse (in un articolo che ho tradotto per «Rouge»), quella del ‘pesce nell’acquario’: non si tratta di un’esperienza di condivisione in stile ‘canzoni intorno al fuoco’, ma di nuotare nello stesso stagno immaginario, più o meno, separati dai riflessi di uno schermo, i nostri percorsi che si incrociano occasionalmente…
Esistono possibilità di incontro – comunità online, gruppi – tra la monade al suo portatile e il vasto, sterminato mondo là fuori, fatto anche di chi non capisce de Oliveira, che forse possiamo sperare di raggiungere e ‘convertire‘ a un evento pubblico, in classe, o attraverso un volume che abbia venduto almeno qualche copia? Questa, per me, è la domanda principale che il tuo libro solleva. Una possibilità è certamente rappresentata dalle piccole, ma agguerrite attività editoriali collettive legate alla pubblicazione di riviste – un’altra forma di rituale cinefilo, più elaborata, diretta all’esterno, un tipo di discorso pubblico che è stato elevato a uno statuto quasi religioso nel film-saggio di Manuel Mozos dedicato a João Bénard da Costa, intitolato non a caso Others Will Love the Things I Loved (per dare l’idea, quindi, del sogno cinefilo del trasmettere – trasmettere sia la conoscenza che la passione).
Per tornare di nuovo a Paul Willemen (egli stesso incarnava un’interessante sovrapposizione fra cinefilia classica e cinefilia dell’età della videocassetta): rimasi sorpreso, nei primi anni Duemila, dalla sua mancanza di entusiasmo per le pubblicazioni on-line con cui collaboravo, come «Senses of Cinema» e «Rouge». Contribuiva puntualmente alla loro pubblicazione e ne riconosceva l’ampio raggio d’azione, ma per lui erano ‘senza dimora’, prive di un contesto culturale: come la storia dell’insegnamento ha dimostrato, gli studenti spesso si imbattono in singoli articoli usando Google, senza capire tante volte che essi sono parte di un sito, di una rivista e di una identità editoriale più articolata. E per Paul, il progetto di concepire collettivamente una rivista, questo piccolo ‘scenario sociale’, erano essenziali: i singolo critici e i loro articoli contavano meno per lui di un ‘sentire comune’ e di una certa politica del gusto (differente per ogni rivista) innalzata come un vessillo. Per lui tutto questo su internet si perdeva. E, di questi tempi, sono per metà d’accordo con lui: io e te abbiamo creato LOLA insieme e amiamo pubblicare testi che apprezziamo e nei quali, in un certo senso, ci identifichiamo, ma non c’è niente di lontanamente simile (se posso affidarmi alla mia ‘immaginazione proiettiva’), diciamo, agli incontri durante il weekend (e spalmati nel corso di mezzo secolo!) della redazione di «Positif» per decidere insieme l’immagine di copertina, il film del mese, a chi affidare le recensioni dei nuovi libri ricevuti eccetera.
L’incostanza è qualcosa con cui bisogna sempre fare i conti nell’era digitale – l’incostanza nelle sue molte, costanti evoluzioni. Abbiamo assistito, proprio su questo blog, a conversazioni che rifluivano e migravano altrove (principalmente su Facebook), come alcuni (me incluso) hanno notato e lamentato. Sono perfino troppo consapevole, nelle mie abitudini digitali, della tendenza a salvare fra i preferiti e a scaricare i testi piuttosto che leggerli davvero – un rinviare costante che non avveniva, in linea di massima, quando invece acquistavo il testo fisico, da possedere e da tenere in mano. L’incostanza digitale è un fenomeno connesso a fattori molto facilmente evocabili ma difficilmente compresi: disattenzione, desiderio di novità, spettacolarizzazione, e quel tipo di “ritenzioni” mentali ad ampio raggio e a breve termine che Bernard Stiegler discute (a volte nei modi tipici della vecchia cultura alta) nel suo lavoro. Di recente sono stato introdotto (grazie agli interventi di Catherine Grant e di Chiara Grizzaffi nel corso di una conferenza alla University of East Anglia) alle idee di Kenneth Goldsmith, guru della ‘scrittura non creativa’, che allegramente sottolinea i benefici della distrazione al tempo dei new media, con una motivazione che si rifà grossomodo al pensiero surrealista: essere in balia di tanti input diversi, navigare tra di essi, è qualcosa di analogo (per Goldsmith) alla pratica surrealista di sfruttare la fase di dormiveglia, aperta alle derive e alle illuminazioni dell’inconscio creativo. Ma l’incostanza in azione ha, naturalmente, anche un suo lato insensibile, noncurante e indifferente – e questo può viziare i nostri sforzi di creare una cultura cinematografica quando meno ce l’aspettiamo.
Per alcuni lettori (me incluso) il passaggio su Smiley Face è il migliore nel tuo libro. Non lo citerò per non rovinare ai fan di Anna Faris/Gregg Araki la sorpresa di incontrarlo verso la fine del tuo discorso. Ma posso dire che il suo scopo è il seguente: prendere le distanze da una visione completamente positiva dell’essere nativi digitali, e poi riordinare le idee per un’altra proposta in equilibrio tra ottimismo e pessimismo. Come ho accennato, parte di ciò che tu auspichi alla fine è un punto di incontro con “la gente”, col pubblico dei non cinefili; un incontro che avvenga attraverso la discussione aperta di una certa tipologia di film politico, di finzione o documentario, che nell’ultima decade è diventato sempre più popolare (un esempio recente è Citizenfour).
In un certo senso, tu auspichi qui il ritorno a una nozione a suo tempo molto amata: quello di ‘sfera pubblica’, in cui le idee sono discusse e condivise in uno stretto legame (nei casi migliori) tra esperienza personale e orientamento politico collettivo. Ma la sfera pubblica è cambiata altrettanto rapidamente nell’era digitale – e lo dico in quanto persona che si è trovata a esercitare assiduamente la pratica giornalistica, da critico cinematografico, per quasi quindici anni (tra la fine degli anni ottanta e la metà degli anni duemila), in un quotidiano nazionale australiano, alla radio e in TV. Non ho alcuna illusione riguardo la vecchia nozione di sfera pubblica: quando le persone la invocano, ciò che desiderano (consapevolmente o inconsapevolmente) è un orizzonte culturale da classe media (e da cultura middlebrow), tramite cui i leader di opinione possano controllare e mediare qualunque forma di esperienza sociale ed estetica.
Ma internet ci piomba di colpo al centro di quello spazio caotico che era sempre stato ignorato con noncuranza o spietatamente represso dalla sfera pubblica della classe media: un miscuglio di sottoculture, molte delle quali costituite da quelle monadi o pesci nell’acquario che lottano per ricevere un po’ di attenzione. È su questo che mi trovo d’accordo con il mio amico Philip Brophy e con quello che era il suo motto negli anni ottanta, cioè che tutte le culture si fondano sull’attrito, sul reciproco dissenso. E molti dei teorici contemporanei (Rancière, Bifo, Nancy, Papastergiadis, Wark) cercano incessantemente di prendere le misure di questo nuovo terreno di confronto, che si modifica rapidamente intorno a noi.
Personalmente giungo a conclusioni diverse dalle tue su questi argomenti, in parte per via del mio temperamento (che certo è diverso dal tuo!). Penso di aver rinunciato, non molto tempo fa, a convincere le persone circa la giustezza della cinefilia. Si riduce tutto per me a uno di quegli argomenti basati sull’evidenza che Bill Routt ha analizzato così bene: se qualcuno non riesce a comprendere la cinefilia immediatamente, non lo farà mai. Non potrò mai davvero convincere un colto consumatore di ‘cultura ufficiale’che una ‘storia delle forme’ nel cinema dell’artificio (e tutto il cinema è artificio) sia più importante che il realismo dei personaggi, dei temi, dei luoghi o della presenza di “questioni sociali”. Ci sono persone con le quali non riuscirò mai a trovare un punto d’incontro e, a questo punto, preferirei non dovermi ulteriormente innervosire nel tentativo di discute con loro.
Per farla breve, internet fa per me: posso trasmette la mia voce (in qualunque forma e combinazione la multimedialità mi consenta), e verrà ascoltata (o meno) da chiunque voglia sintonizzarsi su quella particolare frequenza nella gamma di lunghezze d’onda a disposizione. Ripensandoci, è così che ho descritto istintivamente la passione cinefila – e la sua espressione attraverso la critica cinematografica – più di venti anni fa nell’introduzione (S.O.S) al numero di «Continuum» Film – Matters of Style: come un messaggio in una bottiglia, che galleggia tra i flutti. Allora, era un’immagine in un certo qual modo malinconica, specie perché ricordava i polverosi, desolati e abbandonati scaffali di una libreria fisica o di un archivio; ora, online, può costituire qualcosa che, almeno potenzialmente, è sempre presente, vivo, dinamico. Il messaggio, insomma, non è più “salva le nostre anime”, ma piuttosto, semplicemente, “guarda qui”! Ed è proprio per questo che mi unisco a te nel gioire della Nuova Cinefilia.
I miei più affettuosi saluti,
il tuo compagno d’avventura Adrian.
[traduzione di Chiara Grizzaffi]