Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.
Walter Benjamin, Sul concetto di storia
Lo straordinario Saul Fia di László Nemes, presentato a Cannes e uscito nelle sale italiane qualche mese fa, ha dato un considerevole scossone al sempre fervido dibattito intorno all’irrappresentabilità della Shoah, riscuotendo consensi più o meno unanimi tra gli addetti ai lavori e intellettuali non nuovi a incursioni nel mondo del cinema. L’appassionata lettera di uno storico dell’arte come Georges Didi-Huberman (già pubblicata in Francia) e l’Oscar come miglior film straniero a distanza di pochi mesi, danno forse l’idea della trasversalità del suo successo. Eppure prima di gridare al capolavoro, tutti (o quasi) hanno aspettato l’intervento dell’autore del film-monumento Shoah, ovvero Claude Lanzmann che ha sempre rigettato non solo qualsiasi ricostruzione cinematografica dei campi di sterminio, ma anche opere realizzate a partire da immagini di archivio, definite “immagini senza immaginazione”. Ebbene Lanzmann ha benedetto Saul Fia, apprezzandone in particolare la grande modestia dell’autore, provocando un discreto numero di sospiri di sollievo e lasciando campo aperto alla lunga fila di elogi. Quando viene toccata la Shoah, e più in generale tutta la questione ebraica, si può polemizzare con il cineasta francese e si può persino aver ragione, ma non si può certo ignorarlo, ancora oggi.
Ho introdotto le discussioni intorno al film di Nemes come pretesto per constatare l’incorrotta attualità del pensiero e delle posizioni lanzmanniane, che hanno portato alla realizzazione di uno dei documenti più importanti di sempre partendo letteralmente dal “nulla”, ovvero dalla volontà nazista di sterminare, insieme agli ebrei, la memoria dello sterminio. Per usare una formula tanto cara al regista, «il tempo non ha mai smesso di non passare» e Shoah interroga, risponde e insegna (dall’attento Rithy Panh allo scaltro e vigliacco Joshua Oppenheimer che Lanzmann, sono sicuro, prenderebbe volentieri a ceffoni) con la stessa veemenza di trent’anni fa. L’altra buona ragione per tornare a parlare di Lanzmann è l’uscita del cofanetto curato da Eureka! Shoah and Four Films After Shoah, a ricordarci come il regista francese abbia sentito, nonostante la realizzazione di un film lungo quasi dieci ore, la necessità di insistere senza posa nella mappatura dell’evento che più di tutti segna la zona d’indifferenza tra l’umano e l’inumano.
Far sfuggire la Shoah all’oblio è, oggi come ieri, l’imperativo di Lanzmann (L’ultimo degli ingiusti è stato presentato a Cannes nel 2013); in fondo il tempo non ha mai smesso di non passare. Non si può giacere tra le comode braccia della cultura istituzionale, è obbligatorio affidarsi continuamente alla testimonianza (concetto assai complesso, ne parlerò più avanti) dei “salvati” e la frase che apre Sobibór, 14 Octobre 1943, 16 heures è la via del regista alla memoria: «Musei e monumenti istituiscono l’oblio tanto quanto i ricordi. Ascoltiamo ora le parole vive di Yehuda Lerner». Lanzmann documenta una storia, poi un’altra, poi un’altra ancora, proprio come Shahrazad racconta le sue, notte dopo notte, per vivere un giorno di più. Impossibile non pensare anche a Benjamin Murmelstein, protagonista de L’ultimo degli ingiusti, capace di rimandare a oltranza e infine evitare la chiusura del ghetto di Theresienstadt (che sarebbe equivalso alla deportazione di tutti gli ebrei reclusi al suo interno) grazie alla sua capacità di prender tempo, ispirato proprio dalla “tecnica” dell’eroina de Le mille e una notte. Una testimonianza dietro l’altra per combattere l’oblio, nelle quali «i vivi si sarebbero annullati per farsi portavoce dei morti, […] in grado di raccontare il destino di tutto un popolo», nelle quali «i suoi messaggeri, dimentichi di se stessi, nella bruciante coscienza del loro dovere di testimonianza, avrebbero naturalmente parlato a nome di tutti, considerando insignificante e meschinamente aneddotica la questione della loro sopravvivenza, giacché anche loro sarebbero dovuti morire» (Claude Lanzmann, La lepre della Patagonia). Lo stesso Lanzmann si colloca nella ferita della testimonianza dimenticando il meschino ruolo dell’autore e addirittura della propria persona per lasciare a un popolo il racconto di uno smisurato “coro testimoniale” senza Maestro. Una testimonianza che non avrebbe avuto luogo se a vigere fosse stata la legge dell’integrazione; solo essere contemporaneamente dentro e fuori, vivo e non morto, ebreo e non deportato, cineasta e non autore hanno permesso a Lanzmann di parlare anche per conto dei morti. Non sarebbe di certo riuscito a regalare al mondo i più abbaglianti affreschi di Israele (Pourquoi Israël) e del suo esercito (Tsahal) se non avesse vissuto da francese l’assolato work in progress che è stato lo Stato ebraico negli anni ’60-’70. Da tempo ormai Israele sembra aver decretato la fine dei lavori e l’esercito del suo ruolo di collante dell’intricata identità nazionale e mai come oggi i film del nostro dovrebbero incalzare i dimentichi cittadini israeliani a scorgere una nuova collisione dell’ora con il ciò che è stato.
Queste ultime battute di chiara matrice benjaminiana ci riportano con un balzo a Shoah e ad alcune scelte cruciali che lo rendono non solo un documento fondamentale, ma anche un film fondamentale. Non sono il primo a chiamare in causa Benjamin riguardo al cinema di Lanzmann: Didi-Huberman ad esempio, nel mirabile articolo Il luogo malgrado tutto, vede nell’incontro tra il Ciò che è stato e l’Ora l’impresa del “campo” cinematografico di Shoah. Lasciamo dunque al saggio sopracitato l’approfondimento sul luogo dell’immagine per concentrarci su un altro punto di contiguità con Benjamin: le innumerevoli ed estenuanti panoramiche sul presente dei campi di Chelmno, di Treblinka, di Belzec, di Auschwitz, di Birkenau, di Sobibór. Il rifiuto di qualsiasi immagine d’archivio e le ossessive “spazzolate” da sinistra a destra, poi da destra a sinistra (o viceversa) non sono altro che l’adempimento al compito del materialista storico: «Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo della trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista storico, quindi, prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo» (Walter Benjamin, Sul concetto di storia). Filmare come un pazzo il verde rigoglioso di quei campi e di quelle foreste è il gesto eccezionale di Claude Lanzmann per giocare da interdetto la partita con la conoscenza e sparire nella viva e presente verità della Shoah.
Shoah and Four Films After Shoah, cofanetto dei documentari di Claude Lanzmann, ed. Eureka! The Masters of Cinema, versione originale in francese/tedesco/ebraico, sottotitoli in inglese.