Dear Sir/Madame, we – the director, producer, and co-producers – are writing to inform you of a fundamental change in the concept of the documentary film Havarie (working title) by Philip Scheffner that has emerged over the course of the editing. The changes should be understood as a supplement to an update of the previous letter and concept dated January 6, 2015 you have already received. Each of the shoots was successfully carried out as described in that concept. The video material is available and there is nothing wrong with it on either a technical or artistic level.
È questo l’incipit del comunicato firmato da Philip Scheffner e Merle Kröger il 30 settembre 2015, in nome del collettivo pong che la coppia ha fondato nel 2001 a Berlino e al quale, nel 2014, si sono aggiunte le filmmakers e produttrici Alex Gerbaulet e Karoline Kirberg. Le ragioni per cui il lavoro di questo gruppo è una delle realtà più interessanti nel mondo del documentario sperimentale verranno fuori direttamente dalle risposte di Sheffner, dalla ricerca irrequieta di una forma filmica che sia di volta in volta adeguata ai contenuti della narrazione e, prima di tutto, ai suoi personaggi. La lotta spietata contro generi e categorie non è per il regista tedesco, attivo dalla metà degli anni 80, un vezzo, ma una preoccupazione reale che influisce sulle sorti della distribuzione cinematografica e quindi, inevitabilmente, sul pubblico. I due film presentati durante l’ultima edizione della Berlinale nella sezione Forum, Havarie e And-ek ghes (co-regia di Colorado Velcu), sono, proprio nella loro estrema diversità, la messa alla prova di un esperimento che per Sheffner è inscindibilmente poetico e politico: la ricerca di un punto di osservazione imprevedibile, non in quanto a tutti i costi stilisticamente originale ma aperto alla contaminazione degli sguardi. Havarie è il risultato di questo gioco dialogico tra filmmaker, protagonisti del film e spettatore, i cui sguardi si fanno prismatici, si disperdono e si moltiplicano nel tentativo di incontrarsi su un piano che non annulla i conflitti ma sovverte le gerarchie e gli stereotipi. L’ultimo progetto di Scheffner prende forma a partire da un filmato di 3 minuti e trentasei trovato su youtube. Si tratta del video girato il 14 settembre 2012 dall’irlandese Terry Diamond, uno dei passeggeri della nave da crociera che lungo la sua traversata si è imbattuta in un gommone in avaria che trasportava un gruppo di migranti partiti dall’Algeria. L’idea iniziale di realizzare un documentario seguendo le storie di tutti i protagonisti coinvolti nella vicenda, durante la fase di montaggio, subisce un’efficace metamorfosi. Il filmato amatoriale viene protratto fino a una durata di novanta minuti e l’immagine del gommone in mezzo al mare diviene l’unica finestra visiva di un racconto fatto di voci e suoni, di intercettazioni. Un’avventura alla ricerca dello sguardo dell’altro.
Vorrei cominciare con Havarie. Per me è stato molto stimolante, durante la Berlinale, guardare il tuo film il giorno dopo la proiezione di Fuocoammare di Gianfranco Rosi. Non perché si tratti dello stesso soggetto – più volte hai detto infatti che il tuo non è un documentario sui migranti – ma perché ritengo che entrambi i lavori, nella loro estrema diversità, offrano un’alternativa alle immagini consumistiche offerte ogni giorno dai media in tempo reale. Pensi in questo senso che estendere il video, da tre minuti e trentasei a novanta minuti, sia stato un espediente per offrire allo spettatore tempo e spazio per metabolizzare l’accaduto?
I novanta minuti hanno prima di tutto un significato concettuale perché corrispondono al tempo effettivo in cui la nave da crociera e il gommone si sono trovati l’una di fronte all’altro. Le registrazioni radio del Salvamento Marittimo hanno esattamente la stessa durata e scandiscono ogni singolo frame. Inoltre novanta minuti è la lunghezza media di un film di fiction, cosa che ha supportato la struttura narrativa. In qualche modo quindi ci è sembrato naturale portare il video a novanta minuti, così che lo spettatore potesse avere la stessa percezione temporale dei passeggeri e fosse costretto a guardare e ascoltare, a soffermarsi veramente sulla scena; avere modo di cambiare idea, di provare emozioni differenti e riflettere su quello che aveva di fronte, cosa che di solito non succede quando si leggono/ascoltano le notizie: non c’è il tempo, non c’è la pazienza, non c’è lo spazio.
A questo proposito c’è una parola di cui i media abusano e che è strettamente connessa con la simultaneità, ovvero “emergenza”, una dimensione che, a mio avviso, non è invece presente, quantomeno in questi termini, in Havarie.
È chiaro che si tratti di una situazione di emergenza, di un salvataggio, ma sono prima di tutto le immagini a non trasmettere questo stato di allarme perché la gente sul gommone è abbastanza tranquilla, nessuno chiede aiuto urlando e non c’è panico nei gesti. Sia la squadra di salvataggio spagnola all’opera quel giorno che i passeggeri della crociera, non conservano un ricordo tragico di quanto è accaduto, ma la hanno descritta come una situazione normale. Ovviamente ”normale” come può essere un evento di questo tipo, ovvero non sono presenti tutti quegli elementi che di solito attirano l’attenzione dei media: donne, bambini, morte. Non c’era nulla di particolare da ricordare. E in un certo senso questo è ciò che ci è piaciuto subito, perché realizzare un film con questo tipo di materiale consente di soffermarsi sull’atemporalità e la routine quotidianità di quanto accade nel Mediterraneo. Il gommone è sempre lì, magari lo è ancora. Un invito a porsi in maniera differente di fronte all’emergenza.
Quindi è stata anche questa tranquillità ad attirarvi quando avete visto il video per la prima volta su youtube?
Sì perché appunto siamo abituati alle immagini tragiche offerte dai media e questa è…è un’immagine bella. C’è il sole e vedi la gente sul gommone, ma come puoi dire che si tratta di migranti? Non ci sono indizi visivi inequivocabili. A un certo punto si vede qualcuno che fa dei cenni con le braccia ma nulla di più. Naturalmente, quando ho visto il video, mi sono immediatamente accorto che si trattasse di un gommone di migranti, anche per via del titolo esplicito, ma quando hai 90 minuti per osservare questa immagine hai modo di chiederti “Perché penso che lo sia? Che idea ho nella mia mente? Quali stereotipi?”.
In più occasioni hai definito Havarie come un documentario sul guardarsi reciproco, sul tentativo di colmare un dislivello comunicativo che nel tuo film è rappresentato dall’altezza del punto di osservazione, la nave, rispetto al gommone.
Man mano, guardando sempre la stessa immagine, questa prospettiva viene alterata.
Mi ha molto colpito, però, un altro elemento fondamentale nel processo della ricerca progressiva di questo avvicinamento, ovvero la testimonianza di Abdallah. La sua descrizione del viaggio attraverso il Mediterraneo è una narrazione puntuale e variegate di questa esperienza, raccontandone anche gli aspetti piacevoli: il mare calmo, i delfini, il sole la mattina presto. Non pensi che dare voce, significhi proprio dare la possibilità di raccontare le sfumature di una storia in modo da combattere le pericolose semplificazioni?
Sono d’accordo. Abdahlla ha fatto quella traversata più volte, anche se non è tra le persone sul gommone quel giorno. Racconta la sua esperienza proprio come un’avventura “siamo partiti di mattina presto che era ancora buio e poi è successo questo e quest’altro”. Cercando su internet si trovano moltissimi video ripresi con il cellulare dalla gente che compie questo viaggio e quello che emerge è un incredibile sentimento di speranza, una forza enorme, l’orgoglio di avercela fatta. Altrimenti come si spiega la scelta di caricare i filmati online? Fin dall’inizio ci siamo chiesti come poter restituire e mettere in evidenza questo sentimento di rivalsa, senza cadere ancora una volta nella trappola della vittimizzazione.
Presentare i migranti esclusivamente come delle vittime è in fondo un espediente per parlare al posto dei protagonisti, una forma di neocolonialismo mediatico. Non ti pare?
Esatto, omettendo come stiano effettivamente facendo qualcosa, rischiando la loro stessa vita. Abdahlla ha sottolineato più volte di come si tratti di una reazione forte, un cambiamento rispetto al rimanere passivi aspettando che, forse, la propria vita potrebbe migliorare. Sono rimasto molto colpito da questa descrizione e abbiamo quindi cercato di fare un film che andasse oltre la disperazione e la richiesta di aiuto, evitando dall’altro lato di creare eroismi.
La scelta di non mostrare il girato ma di lavorare sull’audio, estendendo il video originale, è anche un modo per evitare questo vittimismo?
No, non è stato questo il motivo scatenante della scelta finale al montaggio, ma la volontà di esplorare il “dislivello“ tra i passeggeri delle due imbarcazioni. Abbiamo cercato quindi di ridurre in un certo senso le informazioni così che ci si potesse concentrare sugli elementi importanti, avendo il tempo di riflettere e porsi nuove domande invece di essere distratti dai volti, dai tagli di capelli, dal modo di vestire. Abbiamo avuto l’impressione che le personalità dei protagonisti si rivelino meglio nel momento in cui lo spettatore è costretto a immaginarli, costretto ad ascoltare le loro storie e guardare il gommone che è lì, e forse è ancora lì. Non si vede il momento del salvataggio, ma solo la camera che a un certo punto perde il suo “oggetto del desiderio”. Sai che i passeggeri del gommone sono stati salvati ma la loro presenza in questo modo rimane.
Si perdono così le coordinate temporali…
Sì, in un certo senso diventa atemporale e non ci si può quindi identificare con la vicenda. Penso infatti che il processo di identificazione possa diventare una trappola per cui ci si smette di interrogare su ciò che si sta guardando. Quindi, quando dico che Havarie non è un film sui migranti intendo proprio questo. É un film sul guardarsi reciproco, sulla ricerca di un contatto, di uno spazio di dialogo, senza impietosire lo spettatore.
Quando ho visto il tuo film, ho subito pensato di essere di fronte a una delle risposte più convincenti al tipo di immagine che vuole sedurre e scioccare lo spettatore criticata da Farocki nel suo lavoro del 1969, Inextinguishable Fire. La soluzione scelta allora dal regista tedesco prendeva le mosse da un distanziamento metaforico, Havarie invece si fonda su un processo di astrazione visiva per cui in certi momenti le forme si dissolvono quasi completamente e diventano irriconoscibili…
Uno dei miei film preferiti è Blue di Derek Jarman, un regista che ammiro molto. É un rimando ovvio, ci sono così tanti livelli in quest’opera di Jarman… L’ho sempre avuto in mente mentre montavo Havarie, soprattutto pensando che una delle caratteristiche principali di Blue fosse la bellezza. Il suono, quello che racconta, questa sorta di ambivalenza tra il perdere la vista e il desiderio di donarsi all’infinito blu, alla bellezza. La stessa bellezza che ho trovato in quell’immagine e che, nonostante la situazione avversa, volevamo mantenere e non distruggere, enfatizzandola e rendendola tangibile. Qualcosa nel video di Terry Diamond ha risvegliato in me spettatore di Blue.
Sembra quasi paradossale che tu abbia preso a modello un film sulla perdita della vista per riflettere sulle possibilità del guardarsi reciproco.
Esattamente, ma è l’effetto che ho avuto quando ho visto Blue, tanti anni fa, un film che forzava lo spettare ad ascoltare, a guardare il blu e a costruire il suo proprio filma a partire dagli stimoli sonori e visivi. Tenendo conto degli effetti che ha avuto Havarie sul pubblico, è possibile individuare dei pattern ricorrenti: “Guardando le immagini a un certo punto mi sono perso e poi sono tornato sull’immagine pensando che stavo pensando a qualcosa di completamente differente”. Una sorta di andirivieni tra ciò che si sta guardando e le proprie divagazioni.
Sì, è vero ci si perde nell’immagine, a un certo punto talmente astratta da generare altre figure che in realtà non sono presenti nell’inquadratura.
Sì, è affascinante come in questo tipo di immagine digitale si possano trovare tanti piccoli dettagli e puoi cominciare a speculare su ombre, puntini.. penso che questo sia produttivo e non significhi affatto perdere il contatto con le persone sul gommone.
Durante l’ultima Berlinale hai presentato due film costruiti a partire da un approccio completamente differente, Havarie e And-ek ghes. Ovviamente non è un caso, mi parli un po’ della relazione tra i due lavori?
Quando lavoriamo ai nostri film cerchiamo di sviluppare nuovi linguaggi filmici a partire dal contenuto. Prima cerchiamo di analizzare il materiale e poi cerchiamo di dargli una forma cinematografica appropriata. Quindi il risultato è naturalmente differente, anche se non siamo ossessionati dalla ricerca di uno stile distintivo. Sicuramente questi due film sono completamente diversi, ma penso anche che abbiano molto in comune, perché si pongono il problema di costruire un dialogo tra lo spettatore, il regista e i protagonisti del film. And-ek ghes per esempio è un film “liquido” da questo punto di vista: chi sono i registi, chi gli attori, chi è l’audience? Per me esplorare i diversi punti di vista a partire dai quali una storia viene vista e raccontata è una questione politica. Nel caso di And-ek ghes si tratta di una co-regia tra me e Colorado Velcu, quindi avevamo due piani di lavoro, cosa che ha generato ulteriori livelli: la collaborazione, lo sforzo nella negoziazione dello spazio, delle immagini, cosa è importante mostrare, cosa no. Ma il processo è parte stesso del film in cui rimane una traccia evidente di questa negoziazione.
La questione autoriale è molto presente in tutti i vostri lavori, anche in Havarie le cui immagini sono state girate da Terry Diamond. Pensi che sia un tema legato in qualche modo alla tua lunga esperienza nei collettivi?
Non so, sicuramente ho imparato a fare film lavorando in un collettivo perché non ho mai frequentato un corso di regia. Sono stato fortunato ad avere lavorato con gente che invece si era formata nelle scuole di cinema e mi ha insegnato tutto. Era davvero un lavoro di gruppo in tutte le sue fasi di realizzazione, dalle riprese, al montaggio, alla postproduzione, tutto quanto. Si discuteva molto, ci si confrontava sulle scelte, ci si ascoltava e si litigava animatamente. Ricordo lunghe discussioni attorno a un singolo editing. Credo di avere interiorizzato questo processo e tutte le domande connesse: cosa significa fare cinema? Che visione offro del mondo tramite il mio film dal momento che non posso avere uno sguardo oggettivo? E questo è ciò che fa del cinema un atto politico. Interrogarsi sul metodo, sulla propria prospettiva.
Come vivi gli effetti che hanno i tuoi documentari sulla vita dei personaggi che incontri? Ti senti responsabile per questa interazione?
Prima di tutto mi avvicino alle storie con curiosità, questo il mio punto di partenza. Incontro le persone e trascorriamo del tempo insieme, si instaura un rapporto di fiducia che significa anche responsabilità. Ovviamente non nasce sempre un rapporto di amicizia. Il caso di Colorado è molto speciale perché all’inizio, durante Revision, è stato difficile, poi è diventato co-regista di And-ek ghe e adesso siamo amici. Ma è stato un percorso lungo, durato anni, e soprattutto si è trattato di un caso particolare. Alcune volte ci possono essere dei problemi. Per esempio per Havarie, quando abbiamo deciso di eliminare il girato è stata una scelta molto complessa su più fronti. Abbiamo dovuto contattare i produttori, il canale televiso Arte, ma la cosa più difficile è stato spiegarlo ai protagonisti perché non volevo pensassero semplicemente che le riprese non andassero bene o che ci fossimo approfittati di loro. Ci siamo davvero confrontati, soprattutto con Terry Diamond che in un primo momento ha detto “Ok, si tratta del tuo film, spetta a te decidere. Ma sei venuto fin qui, a Belfast, abbiamo girato l’Irlanda insieme, come mai hai completamente cambiato idea?”. Poi ci siamo sentiti su Skype, gli ho mandato la nuova versione e l’ha apprezzata. Addirittura durante la Berlinale ha presentato e discusso il film, spiegando al pubblico perché avessimo preso questa decisione. Per noi è stato molto toccante. Perché gli stessi protagonisti stavano spiegando cosa ci fosse alla base del film. Abbiamo avuto il tempo di stabilire un rapporto con loro prima di filmarli e questo ci ha permesso successivamente di discutere con loro la nuova scelta.
Ho letto che vorresti fare del girato una video installazione in una galleria. Cosa ne pensi di queste altre possibilità espositive? Cosa ti incuriosisce dal momento che uno dei tuoi maggiori interessi è proprio il rapporto con lo spettatore?
Ci sono diversi livelli di accesso a questo lavoro. In principio pensavamo a una versione lineare ma se la presentassimo in una galleria assumerebbe un’altra struttura narrativa, un percorso attraverso il quale lo spettatore possa viaggiare liberamente. Vedremo, adesso che la Berlinale è finita, come rielaborare il materiale. Ho già fatto un’esperienza simile per Half Moon Files, per me importante e liberatoria, perché ho potuto utilizzare le parti rimaste escluse dal documentario, creando una composizione differente. Un’esperienza che mi ha soddisfatto molto. L’idea di presentare un percorso in cui le storie dei diversi personaggi vengano mostrate parallelamente credo possa funzionare anche nel caso di Havarie. Poi rimane la questione di come presentarlo nelle sale cinematografiche, pensiamo infatti che la categoria di documentario non giovi ai nostri film. Abbiamo già avuto in passato questo problema quindi penso che cercheremo di avvicinarci piuttosto al mondo dell’arte, mantenendo la sua natura cinematografica ma cercando magari un altro tipo di spazio. Già durante la Berlinale ho avuto la sensazione che il film fosse accolto bene ma rischiasse di essere soffocato dall’etichetta di “documentario sui migranti”. Lo stesso rischio potrebbe presentarsi nelle sale cinematografiche e quindi poi richiamerebbe un certo tipo di pubblico. Come è avvenuto per Revision, quando la gente è rimasta delusa aspettandosi un’inchiesta che smascherasse chissà quale scandalo, che ovviamente c’è, ma viene mostrato in un altro modo. Il pubblico non riconosce i nostri lavori come documentari, cosa che per me va bene, ma il problema per noi rimane e va affrontato. Dovrebbero essere per esempio enfatizzati altri aspetti come il tempo, lo spazio, l’esperienza percettiva e tutti questi elementi che allontanano Havarie dal documentario tradizionale e lo avvicinano al mondo della video arte. Come, esattamente, non so ancora. Intanto Havarie uscirà al cinema anche grazie all’aiuto del nostro distributore che ci ha supportato molto, nonostante le sue preoccupazioni iniziali circa la nostra scelta di non mostrare il girato.
In una scena di The Day of the Sparrow dici ad Axel che è difficile capire quando arriva il momento giusto per agire. Era il 2010, hai cambiato idea nel frattempo? Fare cinema per te è un atto politico?
Questa è una domanda insolubile ma credo che la risposta possa emergere tramite Havarie. Tu stai lì, seduto, e guardi l’imbarcazione in mare aperto, ma quando fai veramente qualcosa o in che modo si può agire? Fare film e agire politicamente sono due cose diverse che non si escludono. Ci sono molti modi per intervenire politicamente. Se fai un film come Revision, per esempio, in cui incontri e intervisti le persone coinvolte nella vicenda, non puoi semplicemente commentare le loro risposte dicendo “ Oh mio dio ma questo è terribile! Grazie per l’intervista, adesso vado a casa”. Non puoi farlo senza contemporaneamente contattare un avvocato per una consulenza sul caso e dopo le riprese discutere con loro se possono essere delle soluzioni giuridiche. Questo può anche essere parte del film ma non è indispensabile. In Revision, per esempio, questo momento non è stato incluso ma è avvenuto e lo ritengo una parte fondamentale. Si può quindi anche agire nel concreto politicamente facendo film, ma questo non ti dispensa dal trovare altri modi per agire politicamente.
Credo che le tue produzioni musicali siano molto rilevanti per la comprensione del livello sonoro dei tuoi film. Sono molto affascinata da come la traccia audio riempia ogni inquadratura, conferendo nuovi significati alla dimensione visiva in cui il rapporto tra politico e poetico diventa molto potente. Specialmente in The Day of the Sparrow, per poi evolversi in maniera diversa in Havarie.
Fin dall’inizio il rapporto tra immagini e suoni era parte del concetto stesso di The Day of the Sparrow. Non abbiamo mai filmato la gente mentre parlava, quindi si tratta sempre di voci off montate sulle immagini di un tipico paesaggio naturale tedesco. Questa reinterpretazione di un clichè visivo crea l’atmosfera che descrivi perché consente allo spettatore di accedere altri significati. Nella scena in cui io e Axel siamo filmati mentre osserviamo gli uccelli in volo, quello che stiamo facendo influenza il nostro modo di parlare; dovevamo essere molto silenziosi per non fare scappare gli uccelli! In questo modo abbiamo scoperto che usare questo tono di voce, privo di enfasi e agitazione, per raccontare per esempio il modo in cui si è svolto un arresto, ne cambia la percezione. Perché non ci siamo abituati. Non ci ho mai riflettuto ma c’è una connessione in questo senso con Havarie perché la presenza del cameramen ha decisamente influenzato il modo di parlare della gente intervistata che si sarebbe comportata in maniera completamente differente se – consapevoli fin dall’inizio di voler utilizzare solo l’audio – avessimo registrato solo con un microfono in studio. Sarebbe venuta meno la consapevolezza di essere filmati mentre si raccontano eventi privati e si è circondati da altre persone. Non vengono mostrati i luoghi, ma si percepisce l’ambiente attorno, si sente il rumore delle tazze, degli oggetti nelle stanze. Per me questo crea una terza dimensione, in cui vengono connessi luoghi tra loro lontani come Belfast e l’Algeria. Nella realizzazione di un film l’aspetto sonoro è per me la priorità. L’ho capito quando il collettivo con cui lavoravo da otto anni, dogfilm, si è diviso perché ognuno ha preso naturalmente direzioni differenti. Realizzavamo ogni progetto insieme, quindi ritrovarmi da solo è stato davvero spiazzante e complesso, non sapevo da dove cominciare. Mi concentrai allora sul suono, anche perchè richiedeva meno denaro. Ho lavorato a quattro cd, uno dei quali commissionato da un progetto radio di sound art. Il mio approccio al suono era influenzato dal mio background cinematografico ed era quasi esclusivamente un lavoro di field recording abbastanza narrativo, a cui seguiva una fase di montaggio. Avevo come l’impressione che il suono nel documentario fosse sottovalutato, sia teoricamente nei manuali di cinema sia rispetto all’impatto politico delle scelte audio. Ho trovato alcune risposte nella sound art e nella musica concreta, in Michael Chion e in Pierre Schaeffer anche se il loro mondo di riferimento era esclusivamente quello musicale e mancava l’aspetto politico, o quantomeno io non sono riuscito a coglierlo. Il confronto con questa scena musicale è stato estremamente produttivo. Poi per caso qualcuno ha trovato il mio cd a/c in un negozio di dischi da qualche parte in Francia e mi ha invitato a partecipare a un festival di musica sperimentale in Svizzera. Ero molto contento ma non avevo idea di come usare un mixer durante una performance, quindi proposi di realizzare un film a partire dalla soundtrack di a/c, non un videoclip ma un vero e proprio film e questo fu il mio ritorno al cinema, attraverso il suono. Dovendo costruire la traccia video a partire da quella audio, ho sperimentato e imparato molto sulle differenze nella percezione del tempo in musica e al cinema. È stato davvero un momento cruciale che successivamente ha influenzato i miei documentari. Adesso non so ancora cosa verrà dopo Havarie.