Il cinema italiano che negli ultimi anni sta conquistando la ribalta internazionale dei festival trae la propria linfa vitale dalla realtà. O meglio: da un confronto con la realtà radicalmente aperto alla relazione tra investigazione e scoperta, ricerca e rivelazione. Comodin, Di Costanzo, Frammartino, Marcello, Minervini, Rohrwacher, Rosi sono tutti autori che, in maniera diversa, fanno cinema a partire dalla messa in discussione dei confini tra luoghi dell’immaginario e consuetudini del reale, instaurando un dialogo proficuo con il mondo e con la pratica cinematografica. Interrogando la pertinenza delle forme di rappresentazione a partire dall’oggetto della propria indagine e viceversa, esercitando il proprio sguardo su scenari cangianti, mobili, in trasformazione.
Tra questi, Gianfranco Rosi è quello che più di tutti ha approfondito la relazione tra stasi e movimento, tra ciò che resta intrappolato entro i confini dell’inquadratura e ciò che a essa si sottrae, nel tentativo di forzarli. Le figure dell’immobilità, del girare in tondo, della linea retta percorsa in un senso e nell’altro, ricorrono nella sua opera, sia a livello fisico che mentale. Boatman ha per guida un giovane barcaiolo che fa avanti e indietro lungo il Gange, dove le anime dei morti e dei vivi si mettono in silenziosa comunicazione, e stratificazioni sociali si sovrappongono trovando rara mescolanza; in Below Sea Level un gruppo di reietti della società vive accampato nel mezzo del deserto californiano, un’ultima spiaggia sotto il livello del mare dove provare a riallacciare sfilacciate relazioni umane e curare le ferite di un doloroso passato; El sicario, clamoroso instant-movie girato nell’arco di una manciata di ore, riprende un killer del cartello del narcotraffico messicano mentre illustra, seduto su una poltrona, sadici rituali di morte vergandoli su un grosso quaderno per mezzo di simbologie minimali, quasi infantili. L’immobilità della confessione, stretta nel piano fisso e ravvicinato, cede nel finale alla necessità di una esibizione liberatoria, teatrale. Sacro GRA, infine, fa del raccordo anulare romano il crogiuolo circolare di tante vite che si avvitano su se stesse, in cerca di un perno, un luogo intorno a cui gravitare, e allo stesso tempo procedono irrequiete per traiettorie eccentriche, a disegnare nuove e impreviste simmetrie, in una cartografia che solo dall’alto, o dal centro, è possibile osservare e misurare.
La distanza da cui si guarda è un parametro fondamentale del cinema documentario, l’unico intorno al quale si giocano le questioni di etica dello sguardo e di messa in scena. In questo senso, Fuocoammare non fa che confermare la disposizione del regista a porsi al centro della tensione tra costrizione all’immobilità e propensione centrifuga (la vita nell’isola da una parte, i viaggi dei migranti dall’altra), ma anche l’inadeguatezza di buona parte del pensiero critico intorno alla forma documentaria e alle sue mutazioni. Tante, troppe, le perplessità intorno al film, all’indomani della proiezione berlinese e della sua uscita in sala, per non far pensare che ci sia uno scarto tra la portata innovativa del linguaggio di un cineasta come Rosi e la riflessione che su di esso dovrebbe esercitarsi. Fuorvianti, se non del tutto fuori luogo, i dubbi sulla possibile messa in scena di alcune sequenze, così come quelli di tipo morale legati all’esposizione dei corpi accatastati nella stiva.
Rosi fa cinema consapevolmente, e lo dimostrano sequenze magistrali come quelle in cui il piccolo Samuele prova per la prima volta la fionda con l’ausilio (o sarebbe meglio dire l’ostacolo) degli occhiali, il dialogo tra il bambino e il medico, o quella nel finale con l’uccellino, da far invidia alla quasi totalità del cinema di finzione italiano e non solo. E non si vede perché non debba continuare a fare cinema anche quando filma i migranti, i loro volti, i loro canti, i loro corpi martoriati, in lotta per sopravvivere allo strazio dei viaggi, o sconfitti nella morte. Rosi continua a fare cinema oltre tutto ciò che noi stessi scegliamo di negare al nostro sguardo e che il pudore del regista ci risparmia, perché le struggenti parole del medico possono solo lasciare immaginare la vera portata della tragedia che si consuma a Lampedusa.
C’è una retorica ormai radicata, intorno alla questione degli sbarchi, una deriva banale da reportage che offusca gli occhi (pigri?) di molti e rende obiettivamente difficile affrontare con lucidità la materia. C’è un senso pregiudiziale contro il quale un regista come Rosi si trova a fare i conti: quello che vorrebbe il documentario ancorato a pratiche linguistiche che ormai non gli appartengono più – non perché non siano più valide, ma perché sono state ormai metabolizzate e trascese. Semmai i limiti di un film come Fuocoammare possono essere riscontrati nelle rare concessioni al folklore, brevi frammenti illustrativi che devono aver trovato spazio nel montaggio finale per offrire respiro all’andamento complessivo dell’opera, ma il resto è quanto di più intenso e potente abbia offerto il cinema nella stagione in corso. Attimi di vita colti sul fatto, frutto di una lunga attesa e frequentazione umana, che l’occhio del regista – magnifico direttore della fotografia e acuto ascoltatore – coglie con mirabile sensibilità e senso dell’imprevisto. Un imprevisto cui lo stile del cineasta si deve per la prima volta adeguare oltre ogni possibilità di preparazione, laddove i corpi vengono passati da un’imbarcazione all’altra e bisogna scegliere se filmare o meno, senza indugi, e da dove.
Gianfranco Rosi è uno dei massimi registi di questi anni per via dell’istintivo coraggio con cui sceglie di raffrontarsi al reale, fuori dalle regole imposte dalla società e dal cinema, al servizio dell’unico imperativo morale proprio dell’arte documentaria, quello di una rappresentazione precisa, accurata e frontale del mondo, anche all’interno di stive che sono le camere a gas dei nostri tempi.