Carlo Shalom Hintermann è produttore e filmmaker (The Dark Side of the Sun) tra i più eccentrici d’Italia. Ha prodotto e diretto l’unità italiana di The Tree of Life di Terrence Malick e co-prodotto numerosi film, tra i quali spiccano Tsili e Rabin, the Last Day di Amos Gitai, Dal ritorno di Giovanni Cioni e Rhinoceros di Kevin Jerome Everson. Attualmente sta producendo l’ultimo film di Amir Naderi, Mountain. Abbiamo incontrato Hintermann a Nyon, dove si tiene il sempre fertile Visions du Réel, festival che l'ha coinvolto in qualità di giurato nella sezione Regard Neuf. Nei ritagli di tempo tra un film e l'altro lo osserviamo scrivere mail interminabili, probabilmente per chiedere ai suoi collaboratori se le richieste di un regista anarchico come Naderi facciano ancora parte di questo mondo. Riusciamo a incastrarlo all’ora di pranzo e col suo passo dinoccolato ci raggiunge in un container riservato allo staff del festival dove, dopo aver rubato un paio di banane e aver notato compiaciuti l'aria cospirazionista dell’incontro, lo intervistiamo.
La prima volta che ho sentito, anzi letto, il nome Carlo Hintermann è stato non come produttore, ma come critico: ovvero leggendo la monografia su Otar Ioseliani (Ioseliani secondo Ioseliani, Ubulibri) da te curata insieme a Villa e Barcaroli. Avevi poco più di vent'anni quando l'hai scritta: in che modo la tua vocazione cinefila si è trasformata in pratica critica?
La cinefilia ha sempre fatto parte della mia vita, fin dall'adolescenza, un po' come rifugio dal teatro dove mio padre lavorava come attore. Ho sempre sofferto moltissimo nel vederlo recitare, prendersi la responsabilità di ricominciare ogni sera tutto da capo relazionandosi ogni volta con un pubblico diverso. Fin da subito ho visto il cinema come un luogo meno traumatico e mio padre, che ha lavorato sui set dei grandi maestri del cinema italiano, ha avuto un ruolo determinante nell'originarsi di questa passione. All'università ho scelto di studiare cinema, prima in Italia poi a New York. Tra il periodo universitario in Italia e quello negli Stati Uniti ho iniziato a collaborare con Daniele Villa e Luciano Barcaroli: volevamo conoscere i registi che amavamo e ci venne l'idea di scrivere un libro-intervista su Ioseliani. Così provammo a mandare al regista georgiano un prospetto su come avremmo voluto impostare il libro e poco dopo Ioseliani mi lasciò un messaggio in segreteria dicendo: “Se volete domani vengo a Roma”! Il giorno successivo ci siamo tuffati in questa sessione fluviale, nella quale abbiamo toccato un po' tutte le nostre passioni: un vero scambio intellettuale in un turbinio folle che Ioseliani era ben felice di alimentare e di innaffiare continuamente di alcol. L'editore con il quale ci eravamo messi in contatto rifiutò il libro e Daniele, per niente preoccupato, iniziò a inviarlo ad altre case editrici (numerosissime all'inizio degli anni Novanta, e ormai quasi tutte scomparse). Ricevemmo solo rifiuti, fino a quando mi chiamò Franco Quadri, figura fondamentale della nostra vita. Ci incontrammo e decise fin da subito di voler pubblicare il libro. Dopo poco più di un anno eravamo caporedattori della sezione cinema di Ubulibri. Franco è una persona che non ha mai avuto alcuna remora nell’avallare anche idee totalmente folli, tanto che avremmo dovuto fare un talkshow gestito da lui e Jean-Marie Straub disciplinato solo dal cinismo, nel quale tutti gli ospiti invitati sarebbero stati demoliti nel giro di pochi minuti. Inutile dire che il progetto non è mai stato realizzato. Gli anni a Ubulibri sono davvero stati caratterizzati dalla follia nostra e di Franco, convinti che ogni libro fosse una sorta di film su Ioseliani, Straub o Terrence Malick. Il tutto condito da collaborazioni deliranti con Enrico Ghezzi, come ad esempio una riedizione mastodontica del Patalogo. Abbiamo progettato cose senza alcun senso, che hanno però alimentato l’incontro diretto con persone e realtà che stimavamo enormemente. Non so se tutto questo sia cinefilia o volontà di creare una sorta di controsocietà, sostenuta dalle energie di visionari come Franco Quadri. Le esperienze intense e spericolate difficilmente riescono ad avere una continuità e anche la nostra stagione di sperimentazione editoriale e organizzativa (tra cui una retrospettiva romana su Ioseliani) si è arenata. Ad esempio, un altro progetto abortito è il libro su Aki Kaurismäki, il quale, la prima volta che ci siamo incontrati ci disse: “Fantastico! Tre ragazzi e non ce n’è uno normale!”. Da lì però, è iniziato un grande rapporto d'amicizia attraversato da serate alcoliche, sovversione slapstick di eventi istituzionali e gag di ogni tipo.
Vista la tua presenza in giuria qui a Visions du Réel e la tua produzione come regista, mi piacerebbe parlare di documentario. Sono anni di grande vivacità, ma anche di un sempre più accentuato rigore formale. Costruire una narrazione, utilizzare un elegante movimento di macchina piuttosto che intervenire sulla luce vengono visti spesso come un tradimento alla realtà, col rischio di scartare in blocco opportunità e aperture a nuovi linguaggi. Quando questo rigore rischia di trasformarsi in aridità?
Ogni volta che una forma diventa qualcosa di aprioristico, una regola che non entra in dialogo con il contenuto, c'è questo rischio, ma è un problema che tocca tanto il documentario quanto la finzione, anche se nel documentario è sicuramente più marcato. Quando i progetti compiono dei percorsi all’interno di atelier di sviluppo, anche se utili, a volte si sa già dove un film verrà posizionato, si crea dunque il rischio di una forma asfittica immaginando a priori quale percorso farà il film, in termini di circolazione ai festival e dinamiche distributive. Le cose più vitali sono sempre quelle in cui la forma viene lavorata in relazione a un contenuto, perché ogni contenuto merita una riflessione sul linguaggio, e questo a maggior ragione nel documentario. Nei miei lavori ho sempre amato utilizzare tutti i mezzi a disposizione per tentare di rendere omaggio alla realtà, perché molto spesso più sei distante più riesci a cogliere l'essenza di una realtà. Fare film difficili da incasellare, eccentrici, tentando di restituire allo spettatore una reazione totalmente imprevedibile, credo sia la parte più vitale del cinema. Il film inteso come seme che germinerà, andando anche incontro al rischio di essere “fuori tempo”, ossia di incontrare un pubblico non ancora pronto ad accoglierlo. Come del resto sta succedendo a Terrence Malick e agli ultimi suoi film, a cui ho avuto il grande piacere di collaborare. C'è invece un cinema già addomesticato, già digerito, che vivacchia per un po'… Si tratta di autori appoggiati per un periodo limitato, e poi abbandonati nel momento in cui il trend cambia. Tutto ciò non significa che bisogna rifiutare il rigore formale, ci sono infatti autori con approcci rigorosi assolutamente consustanziali ai film che fanno. Il punto è che ogni soggetto merita l’invenzione di un linguaggio, che sia rigoroso o meno deve esserci questa tensione ad avere un linguaggio proprio.
Parlando del tuo percorso cinefilo mi viene da pensare a quanto possa essere difficile come produttore il rapporto con autori, da Gitai a Naderi, affermati, strutturati e caratterizzati da una forte visionarietà. Il dialogo tra con registi del genere sarà sicuramente stimolante ma allo stesso tempo piuttosto complicato…
Noi, come Citrullo International, siamo produttori abbastanza consapevoli di tutte le dinamiche che portano alla costruzione di un film e abbiamo sempre in testa l’idea che la prassi sia la via per risolvere i problemi, rispetto magari all’intavolare discussioni teoriche dalle quali raramente si esce con una soluzione. Il più delle volte gli incontri con gli autori si basano su una fiducia condivisa e il nostro coinvolgimento non si limita solo all’impegno economico o a seguire il percorso festivaliero e distributivo che il film deve fare. Si apre un dialogo intellettuale molto forte all’interno del quale si elaborano spazi per qualcosa di estremamente concreto. Ci sono ovviamente momenti di tensione, ma quello che aiuta, secondo me, è focalizzarsi sul film e non sulla carriera dell’autore e del suo stile che siamo abituati a riconoscere. Con alcuni registi questo dialogo è molto naturale, come con Terrence Malick. La sua modalità produttiva credo sia la più all’avanguardia al momento e la sua geniale intuizione è quella di aver capito che il film non è di un regista ma è qualcosa di più: è una società, un pezzo di mondo che entra ed esce dal film. Tornando a una modalità più semplice, il contributo, la maggior parte delle volte, è quello di spingere gli autori fuori dalla gabbia, ovvero dalla considerazione che gli vengono create intorno, troppo spesso da spettatori ma anche da critici e programmatori di festival vogliono vedere il film che si aspettano da un autore. Io sono contro la cinefilia quando diventa rassicurante, questo anche perché critici e programmatori di festival fanno la loro carriera sugli autori e appoggiarne uno con uno stile riconoscibile e apprezzato è un po’ come appiccicare un bollo di qualità. Il mercato ti mette dentro una casella, il festival ti mette dentro una casella, la critica ti mette dentro una casella quindi perdiamo tanti film potenzialmente rivoluzionari perché giochiamo sul sicuro. Il ruolo del produttore è quello di scardinare questo sistema, prendendosi dei rischi enormi con gli autori, con la reazione dei festival e con quella del mercato.
Quali sono gli interlocutori, incontrati nel tuo percorso, capaci di seguirti in questa idea che comporta anche dei rischi?
Non ci sono interlocutori privilegiati, la cosa interessante è prendere pezzi di universo produttivo che sulla carta non si occuperebbero di un determinato progetto e coinvolgerli in qualche modo. Ad esempio, nel film di Naderi (Mountain), in cui siamo produttori maggioritari, abbiamo portato un produttore francese che ha vinto la Caméra d'Or l'anno scorso a Cannes e Michel Merkt, che ha prodotto Maps to the Stars di Cronenberg: in questo modo abbiamo messo insieme persone e, di conseguenza, pezzi di un budget che mai si sarebbero incontrati su un film. Oltre ai fondi più istituzionali, abbiamo convinto poi uno sponsor privato, legato alla birra e al territorio in cui sono avvenute le riprese, a sostenere con un contributo la produzione. Insomma, credo nel cercare di mettere insieme fondi istituzionali, investimenti privati e qualsiasi altra cosa permetta di dare credibilità al film, un lavoro lungo e snervante ma necessario se si ama il film che si vuole fare. Il lavoro produttivo è creativo tanto quanto quello realizzativo, dietro i migliori film c'è sempre un produttore “illuminato”, vedo come un pericolo quello di scollare i due elementi. Sta poi all’intelligenza del regista instaurare un rapporto strategico, se vuoi anche seduttivo, con i produttori e i registi che riescono a dare continuità al proprio lavoro sono quelli capaci di incalzare e allo stesso tempo ammaliare i produttori. Dall'altro lato il buon produttore ha, come dicevo prima, la capacità di allontanare il regista dalla propria comfort zone, mentre i più visionari riescono anche ad inventarsi una nuova stagione di cinema insieme agli autori con i quali collabora. Questo è un po' il motivo per cui abbiamo deciso di aprire la nostra società di produzione in un ecosistema come quello italiano con tanti vizi e pochi interlocutori. Un film è una responsabilità condivisa da tutti, dal produttore al regista, passando per i programmatori e i critici, e a volte quando qualcosa di importante succede non sempre tutti coloro che coinvolti si dimostrano pronti. Ci sono state volte in cui sarei stato disposto a farmi uccidere per l’importanza di un film se fosse stato necessario. Questo è l'atteggiamento che cerco, perché molto spesso i film non sono pronti a essere recepiti.
Proprio riguardo film non pronti ad essere recepiti, avete prodotto gli ultimi due film di Gitai (Tsili e Rabin, the Last Day) che in Italia non sono stati distribuiti…
Il rapporto con la distribuzione, soprattutto in Italia, è davvero complesso, azzoppato da innumerevoli vizi. Molto spesso non è nemmeno colpa dei distributori, questo è un altro pregiudizio. Finché c'è un esercizio pazzo, che non ti permette di rientrare nemmeno di un investimento modesto è normale che sia un problema quello di distribuire film sui quali servirebbe un lavoro mirato per raggiungere il pubblico in maniera diversa. Servirebbe forse un consorzio che si prenda carico di questo lavoro di ristrutturazione dell’esercizio, perché ogni volta che hai un film “difficile” devi inventarti un sistema per farlo vedere ed è una lotta titanica, lo abbiamo fatto per Ana Arabia di Gitai e quello che abbiamo investito ci è rientrato a malapena. L’investimento tra l’altro deve essere importante per poter creare un network che in Italia non c’è e gli esercenti con una programmazione diversa si dicono talmente occupati dai loro film che sembra di parlare con la Casa Bianca, bisogna pregarli per uno spazietto e così diventa deprimente. Ripeto però che la colpa non è dei distributori, considerando che un buon 80% si trova in grandissima difficoltà: è il sistema a dover essere rivoluzionato perché nessuno trae beneficio da quello attuale.
Non so se in meglio o in peggio, ma l’irruzione di Netflix nel mercato italiano cambia qualcosa?
In Italia alla comparsa di un nuovo fenomeno si è sempre creato un oligopolio e quindi un dialogo ristretto a pochissimi soggetti. Questa però è anche una responsabilità dei piccoli produttori che troppo spesso si relegano in un angolo, mentre noi della Citrullo International vogliamo farci sentire anche nei grandi circuiti. È chiaro che, se arriva Netflix, e dopo tre secondi ha come interlocutori i soliti noti la situazione rimane del tutto invariata. Adesso però, sembra un momento in cui queste rigidità si stanno spezzando, fondamentalmente per due motivi: il primo è il collasso del cinema italiano d’ordinanza che, fino a poco tempo fa, andava col pilota automatico, il secondo è il palesarsi di spinte interessanti a partire da una nuova legge sul cinema e dalla presenza di persone competenti, come Paola Malanga, a Rai Cinema. Comunque finché non ci sarà un sistema di crescita sano e strutturale non credo ci saranno singoli attori in grado di modificare la situazione italiana. Non arriverà mai la persona o l’istituzione perfetta con cui relazionarsi, è come Lincoln di Spielberg: sarà sempre qualcuno che ai tuoi occhi sembrerà quantomeno ambiguo, ma è con lui che devi fare l'accordo! Relegarsi in una nicchia non porta da nessuna parte e rimarrà sempre una strategia fallimentare.
In Italia, girare i film con ciò che si ha a disposizione è sempre stata una pratica comune, che ha permesso a un cinema escluso dai canali istituzionali di sopravvivere ma anche reso estremamente debole il sistema nostrano rispetto a quello di altre nazioni…
Beh sì, dal lato produttivo senza dubbio c'è una distanza importante da altri sistemi, ma da un altro punto di vista l'Italia è andata molto avanti, come dicevo prima, si deve galleggiare tra la produzione e la prassi. In Italia si è imparato, soprattutto nel documentario, a creare un'officina nella quale le cose vengono messe al loro posto e ci sono determinati collaboratori che, secondo me, hanno contribuito e contribuiscono tanto quanto gli autori ad un determinato risultato. Sarebbe importante che a questa “avanguardia artigianale” si affiancasse un produttore consapevole di dove vuole portare il film, che abbia nel proprio arsenale delle armi capaci di far compiere a quel film il tratto in più. È sempre una questione di equilibrio, e per questo credo che il produttore debba ragionare su ogni singolo film sfuggendo una prassi consolidata, propria e dell'autore. Non credo ci sia una ricetta produttiva migliore, ma sono convinto che il lavoro vinca su tutto!