Parlare di Neruda evitando la banalizzazione della poesia per immagini. Parlare del poeta per ricondurre la sua esistenza all’identità cilena contemporanea, divisa tra il desiderio di riscatto e il senso di colpa per il silenzio e l’ignavia. Larraín si avvicina a uno dei santini inattaccabili del proprio Paese – ma anche della cultura pop occidentale e del merchandising per innamorati – per raccontare la caccia alle streghe di Videla, quando anche una figura amata in patria come Neruda ha dovuto scegliere di partire per evitare il carcere. Ma la figura del poeta è solo il riflesso dell’immagine che ne ha di lui l’ispettore “mezzo brutto e mezzo stupido” Oscar Peluchonneau, incaricato di scovarlo e consegnarne il destino al volere dell’autorità politica. Così, il biopic promesso sin nel titolo viene disatteso, e il film diventa la storia di un ispettore che insegue un poeta, ma anche di un individuo dimenticato dalla storiografia ufficiale che reclama il proprio posto nel mondo attraverso il cinema. E, in fondo, quella di un bastardo, figlio di una prostituta, che cerca un padre abbastanza perfetto da renderne liberatoria l’uccisione.
Larraín non fa nulla per celare la propria presenza dietro alla macchina da presa, ma lascia che a dirigere la narrazione siano la voce e soprattutto la fantasia di Oscar. Così, se la prima parte del film spoglia Neruda della sua effigie di difensore del popolo per riportarlo a quella più terrena di viveur narcisista, più incline all’”io” che al “noi”, ben presto comprendiamo che questa è semplicemente la versione di Peluchonneau. Seguendo con ironia i cliché del romanzo hard-boiled e del cinema noir, Peluchonneau si riscrive infatti come una sorta di implacabile detective a un passo dalla propria preda, ma rimane vittima di questo meccanismo nel momento in cui comprende la precarietà del proprio status di creatura che abita la finzione. Questa incertezza tra l’universo attestato storicamente e il puro gioco creativo si riflette visivamente nelle incursioni postmoderne nel passato del cinema, tra scene reiterate con risoluzione e illuminazione diverse, immagini quasi virate seppia, e i tragitti in macchina dei personaggi messi in scena con evidenti retroproiezioni.
Ironico, misterioso e in fondo imprevisto, nonostante la fiducia di cui gode il regista cileno, Neruda è una delle grandi visioni di questa edizione di Cannes, destinata a rimettere in discussione i canoni rappresentativi della grande Storia nel cinema di finzione e la loro sclerotizzazione nelle formule del biopic. [Francesca Monti]
NAUFRAGIO DI COPPIA
Poco conosciuto in Italia (in cui è stato distribuito soltanto Proprietà privata), Joachim Lafosse è un regista che fa della modestia – delle sue storie e della sua regia – la sua maggior qualità e il suo limite di fronte alle selezioni dei festival. Da anni a Cannes, sempre in sezioni parallele, il cineasta belga continua a raccontarci piccole storie private, che attingendo al quotidiano sanno spesso assumere i toni alti delle tragedie (basti pensare al magnifico A perdre la raison, storia di una violenza domestica diffusa e taciuta, che porterà al collasso di una madre trasformata in Medea).
Con L’économie du couple, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs, il regista belga torna a indagare la relazione tra sentimenti individuali e regolamentazioni sociali. In una bella casa, circondata da un giardino, vive una famigliola composta da una coppia quarantenne e due bambine: il matrimonio dei genitori è in crisi, condividono lo stesso tetto ma ormai dormono in stanze separate, in attesa che uno dei due abbandoni la dimora. Nonostante le continue tensioni, nessuno dei due sembra intenzionato a farlo, finché il loro patrimonio comune (la casa, appunto; delle bambine si parla tangenzialmente) non sarà equamente diviso dalla legge. Se a leggere la sinossi del film si potrebbe pensare agli scempi sulla fine di un amore borghese operate da registi come Gabriele Muccino, Lafosse gestisce questa rischiosa (e abusata) materia in tutt’altra maniera, quella di chi sa che è inutile parlare delle motivazioni e delle colpe di ciascuno nel naufragio di una coppia. Meglio restare sui piccoli gesti quotidiani che segnano una frattura, ormai irreparabile. Le promesse non mantenute di lui, l’attaccamento alla vita borghese di lei, la distanza di colei che è stata ferita e l’urgenza di chi non ha avuto il tempo per essere perdonato. Tra questi due coniugi, che si ritrovano per un attimo in ballo insieme alle figlie in una sequenza di grande intensità emotiva, non c’è più nulla se non le parole fredde della legge che sanciscono, con una divisione economica, quella conciliazione evidentemente tra loro mai avvenuta. Lo sguardo di Lafosse riposa non sulle azioni ma sulle reazioni dei due protagonisti, in un crescendo emotivo raggelato dall’unico finale possibile. Bérénice Bejo e Cédric Kahn dimenticano i vezzi d’attore per entrare sotto la pelle dei personaggi e offrire una delle interpretazioni più convincenti della loro carriera. [Daniela Persico]
POESIA PER IMMAGINI / 2
Gira la voce che il “vero” film di Jim Jarmusch a Cannes quest’anno sia il documentario sugli Stooges Gimme Danger, presentato fuori concorso, e non Paterson, visto in competizione. C’è da attendere qualche giorno per avere conferma o smentita, ma intanto il regista americano sembra aver conquistato il cuore di molti con il suo ritratto discreto e pacato di un guidatore di autobus, che condivide il proprio nome, quello del titolo, con l’omonima cittadina del New Jersey, luogo d’elezione per poeti come William Carlos Williams e Allen Ginsberg (oltre che città natale di Lou Costello, aka Pinotto). Anche il protagonista del film trova nella poesia una forma di evasione dalla ritualità quotidiana: tra la sveglia delle 6.45 e la birra serale nel pub di fiducia, Paterson (Adam Driver) verga sul proprio taccuino versi liberi ispirati alla tradizione degli autori locali o a quelli della New York School (il nome di Frank O’Hara ricorre spesso). Le parole prendono forma sullo schermo, componendo paesaggi mentali di sobria quotidianità, accompagnate da dissolvenze incrociate che sono i momenti più deboli del film.
Il respiro dell’opera è dato dal succedersi di giornate solo all’apparenza identiche a se stesse, e caratterizzate invece da piccole illuminazioni, fragili incantesimi del quotidiano che l’occhio attento del protagonista riesce a cogliere proprio perché di esse si nutre. Così, l’incontro con una bambina che ugualmente si diletta a mettere parole in versi, o le strampalate abitudini della compagna, punteggiano con gentilezza un andamento narrativo che ricorda da vicino quello di Broken Flowers, simile a questo anche per l’afflato malinconico che lo pervade. Ma più che Bill Murray, Driver, alto e dinoccolato, ricorda l’attore feticcio del primo Jarmusch, John Lurie, anche nel suo straniato relazionarsi al mondo esterno, mentre il suo rifiuto di produrre copie delle proprie poesie scritte a penna su carta (una scelta che nel finale avrà gravi conseguenze) conferma la propensione del regista a favore di una visione “analogica” dell’arte, meravigliosamente espressa nel precedente Only Lovers Left Alive. Il finale, criptico e rivelatorio allo stesso tempo, chiude nella maniera più adeguata un’opera lieve e volutamente sottotono, che trova il proprio, intimo senso senza cercare la profondità e senza fornire facili scappatoie. Ora non ci resta che aspettare di sentire la puntina che raschia sul vinile e goderci la “lettera d’amore” (così l’ha definita il regista) a Iggy e compagnia, che sarà, evidentemente, altra poesia per immagini. [Alessandro Stellino]