Non ci sono azzardi nella grande macchina di Cannes, pronta a triturare nomi di rilievo invitandoli con un film sbagliato ma che garantisce la presenza delle star (come succede al malcapitato Sean Penn invitato con il suo film-spot su Medici senza frontiere) e a servire alle distribuzioni internazionali il cinema d’autore più digeribile (e già digerito) dei Paesi più disparati (basti pensare al già visto Aquarius di Kleber Mendonca Filho). La competizione – seppur di ottimo livello, quest’anno – continua seguire uno schema ben stabilito, mostrandosi timorosa nell’accogliere il nuovo, anche quando si tratta di un’opera che omaggia la storia francese e il suo cinema. Non siamo gli unici a sostenere che La mort de Louis XIV di Albert Serra avrebbe meritato una collocazione differente dal fuori concorso: relegato in una delle sale marginali del festival, lo spettacolo dell’agonia del grande Jean-Pierre Leaud arriva a chiudere un cerchio tra questo mitico corpo cinematografico e Cannes (dove esordì bambino, al fianco di Truffaut) e ad aprirne uno nuovo per l’affermazione del cineasta catalano che, dopo la vittoria al Festival del film di Locarno con Historia de la meva morte, approda alla selezione ufficiale del festival, seppur da una porta accessoria.
Da qui, arriva potente e maestoso, ironico e raggelante, il nuovo affresco storico di un autore che sta mettendo in scena le trasformazioni del pensiero occidentale. Come già per il film precedente, in cui il gioioso edonismo di Casanova era risucchiato dai prodromi di un romanticismo vampiresco, anche La mort de Louis XIV racconta di un trapasso: non solo la lenta morte del monarca francese dal più lungo regno (settantadue anni di sovranità) ma soprattutto la fine macilenta di un simbolo del potere il cui male affiora poco a poco sulla pelle. Nel corpo gonfio e sterile di Jean-Pierre Leaud è covata una malattia che si impossessa di lui, come del resto nel suo lungo regno germinano i semi di quell’illuminismo che porterà alla Rivoluzione e segnerà la fine della monarchia. Protagonisti invisibili, nascosti nell’ombra e oscurati dalla potenza del Re Sole, sono i medici riuniti attorno al letto del sovrano: saranno le loro scelte a decretarne la morte per putrefazione e saranno loro i protagonisti di un’autopsia finale in cui Dio ridiventa pura materia, ridotto alle sole viscere. A loro è affidata l’ultima parola: di fronte all’evidente errore per non aver tagliato la gamba in cancrena del sovrano, dichiarano “La prossima volta faremo di meglio”, velando di distanza ironica questa maestosa ricostruzione di un tempo passato.
Interamente ambientato nella camera da letto del sovrano, La mort de Louis XIV sembra un epilogo del celebre film di Rossellini, a partire da quell’invenzione del potere assoluto come macchina della messa in scena che segna le prime sequenze del film. Già provato dalla malattia, Luigi XIV è ancora pronto a offrirsi come attore principale dello spettacolo, circondato dai suoi cortigiani che applaudono per ogni suo gesto e per ogni briciola di cibo ingurgitato. Il teatro di Versailles si trasforma nel quadro dell’immagine cinematografica, in cui il formato 2.35:1 è interamente ingombrato da questo corpo che vediamo solamente disteso. Il cinema-scope rivela una nuova potenza espressiva, riunendo in un’unica inquadratura un volto che resta impassibile di fronte alla morte e un corpo esausto che diventa preda dell’infezione più terribile. In una sequenza statica, centrale nel film, un lungo piano medio di Jean-Pierre Leaud colto in uno degli ultimi momenti di lotta contro il proprio destino di uomo, appare il soffio dell’effimera potenza del regnante, ma anche la forza di un cinema che sa elevarsi ad arte. [Daniela Persico]
FARE SESSO CON LA MORTE
C’è una sequenza di The Neon Demon che esemplifica al meglio la propensione cinematografica del suo regista, Nicolas Winding Refn: il montaggio alternato in cui la giovane protagonista Jesse (Elle Fanning) si fa oggetto immaginario del desiderio di Ruby (Jena Malone), intenta, nel mentre, a un rapporto saffico con un cadavere. Mai come in questo film è evidente la componente necrofila che caratterizza l’immaginario dell’autore danese, cosi perfettamente (e involontariamente?) teorizzata dalla scena appena descritta: si sogna di fare l’amore con la vita, ma si sta facendo sesso con la morte. Un profondo senso di impotenza attraversa il film dall’inizio alla fine, risultato di un gesto puramente contemplativo che non riesce (o non vuole) farsi concretamente possessivo, e non potendo trovare soddisfazione si risolve in atto cannibalico. Così il film, narcisisticamente, divora se stesso, si autofagocita, e non è certo un caso se, nel macabro finale, una delle modelle ossessionate dalla propria immagine raccoglie dal pavimento un bulbo oculare vomitato da un’altra per inghiottirlo a sua volta.
Chi non abbia ancora visto il film (in uscita nelle sale italiane l’8 giugno) potrebbe trovare criptiche queste considerazioni ma, nella volontà di non svelare tutto, possiamo quanto meno riassumere le linee di fondo del racconto: la sedicenne orfana Jesse arriva a Los Angeles dalla provincia, attratta dalle luci della grande città e da un futuro come modella, ma entra in contatto con un universo spietato, deciso a vampirizzarne l’immagine di virginale purezza. Fermiamoci qui. The Neon Demon procede animato da un demone fosforescente che fa di ogni immagine, di ogni inquadratura, una seducente esposizione di superfici, la coreografia per una danza di morte che solo nel terzo atto, cupo e visionario, trova un’impennata degna dei capolavori cui si ispira (Suspiria, Carrie). Ma il resto è vacua illustrazione di uno mondo privo di afflato vitale, riproduzione di uno scenario illusorio esattamente come il cinema che intende rappresentarlo.
Diventato già brand di se stesso, tanto da marchiare i titoli di testa con l’acronimo del proprio nome (NWR), Refn sembra essere schiavo di uno stile che vorrebbe bastasse a se stesso ma rischia, in mancanza di un pensiero, o quanto meno di una sceneggiatura che non sia solo abbozzata, di rivelarsi specchio dei commercial che viene chiamato a dirigere. Se Jesse è un agnellino sacrificale in mezzo ai lupi, anche il regista dovrebbe guardarsi dal dare loro in pasto il proprio cinema (come sceglie di non fare il protagonista di Rester vertical di Guiraudie, nel finale di un’opera ben più densa e significativa). “Beauty isn’t everything. It’s the only thing” (“la bellezza non e tutto, è l’unica cosa”), dice a un certo punto lo stilista alla giovane protagonista e Refn, in fondo, dietro l’apparente critica al mondo che descrive in maniera così spietata, condivide tale visione. Ed è libero di condividerla anche lo spettatore, ammaliato dal trip estetico, rischiando di realizzare, però, che sotto il vestito non c’è niente. O al massimo, il corpo in procinto di putrefarsi, di una bellissima donna morta. [Alessandro Stellino]
THIS MUST BE THE PLACE
A dispetto del titolo inglese After the Storm, l’ultimo film di Kore-eda Hirokazu ci mostra in realtà soprattutto quello che avviene prima del tifone cui Ryota, investigatore privato con velleità letterarie naufragate, si trova ad assistere a casa della madre, da poco vedova, in compagnia dell’ex moglie e del figlio. Siamo introdotti così nella frustrata quotidianità di Ryota, tra gioco d’azzardo compulsivo, richiesta di denaro ai parenti e la domanda che si pone costantemente su ciò che lo ha portato ad essere un fallito: “How did my life turned out like this?”. Il tutto però è registrato da Kore-eda con malinconica leggerezza e un sottile umorismo che ricorda sia certi manga sia Tati, non da ultimo nella rappresentazione degli spazi.
La madre di Ryota, Yoshiko (interpretata da Kiki Kilin, alla sua quinta collaborazione con il regista giapponese), abita in un condominio alla periferia di Tokyo nel quale lo stesso regista ha trascorso la sua infanzia: un progetto abitativo avveniristico costruito negli anni ’60, abbandonato progressivamente a se stesso e rimasto ad ospitare soltanto persone anziane e sole. Il regista è magistrale nel rappresentare questa sensazione di promessa mancata, in bilico tra squallore e affettuosa malinconia: se all’inizio siamo portati a osservare il caseggiato, con i suoi abitanti e le sue abitudini consolidate, come se fosse un microcosmo addormentato, Kore-eda invita lo spettatore ad avvicinarsi, a entrare dentro a uno di questi appartamenti. La casa di Yoshiko è vecchia, affollata di polvere e ricordi accumulati, ma calda, reale, fatta di rapporti basati sulla condivisione dello spazio della quotidianità domestica, di riti cristallizzati nel tempo (il bagno serale ma soprattutto il cibo). Una dimensione domestica che diventa un tesoro prezioso e inevitabilmente lo spazio adatto a ricostituire la possibilità di un legame. Nulla ci svela però cosa accadrà dopo l’epifania della tempesta. La ricomposizione del matrimonio di Ryota appare improbabile, ma il tifone sembra destinato a segnare, più che una svolta nella sua esistenza, un momento di crescita nella sua percezione della vita: l’occasione cioè per riconsiderare le proprie priorità, per smettere di ambire a un percorso al quale non era destinato, fare i conti con i suoi limiti e tornare così ad abitare se stesso. [Elisa Cuter]