CREEPY / Kurosawa Kiyoshi
Cosa si nasconde al di là dell’anticamera di casa? In questa domanda sta tutta la lacerante inquietudine su cui gioca magistralmente Kurosawa Kiyoshi con un film incomprensibilmente escluso dalla competizione principale del festival. Creepy è una parabola sulla ricerca della verità da parte di un detective ligio al dovere, il cui unico peccato è di appartenere alla classe borghese. La sua vita si divide tra la ricerca di un serial killer – che lo porterà a riaprire ferite del proprio passato – e la dimensione affettiva domestica, con la bella moglie reclusa nella villetta familiare pronta a cucinare ottime cenette e a tenere i rapporti di buon vicinato. Ma il male è molto più vicino di quanto si pensi: un dirimpettaio eccentrico e solitario può trasformarsi in un maniaco seriale, che reclude e sevizia intere famiglie. Se il plot narrativo è tanto semplice da apparire scontato, il discorso che sottende la narrazione si manifesta attraverso le eleganti scelte di regia che, nel repentino cambiamento delle luci, lasciano intravvedere i diversi punti di vista dei personaggi. Al centro di Creepy c’è l’orrendo vuoto dei rapporti umani fuori dalla gabbia della società, ben metaforizzato da un’ordinata anticamera che si affaccia sugli antri oscuri e sordidi in cui si gioca la vera partita tra vita e morte. In questa dimensione, il serial killer si trasforma in figura anarchica pronta a mettere in crisi un ordine economico prestabilito, rapendo e plagiando i figli adolescenti di una borghesia troppo consenziente. Atti sovversivi che, anche quando vengono ricondotti all’ordine, si cristallizzano in un grido primordiale capace di far venire i brividi. [Daniela Persico]
JÁ, OLGA HEPNAROVÁ / Petr Kazda, Tomas Weinreb
Olga Hepnarová, colpevole di aver investito e ucciso otto persone con un autocarro nel 1973, è stata l’ultima donna giustiziata in Cecoslovacchia. La ragazza, all’epoca ventiduenne, rivendicò pubblicamente la strage come vendetta verso la società che aveva fatto di lei una Prügelknabe (“capro espiatorio”, nella parola tedesca che lei stessa usa). Il film di Petr Kazda e Tomas Weinreb, ispirato alla vicenda della donna, lascia solo intuire l’emarginazione, il bullismo e gli abusi di cui deve essere stata vittima durante l’infanzia, e prende le mosse dal suo tentativo di suicidio a 13 anni, per arrivare all’esecuzione attraverso una serie di momenti significativi. In questo arco di tempo assistiamo ai suoi tentativi, costantemente frustrati, di costruirsi un’identità – anche sessuale – adulta, in un ambiente che, più che ostile, sembra colpevolmente e deliberatamente indifferente al disturbo paranoico che ormai la affligge. La struttura austera e misurata della narrazione, il gelido bianco e nero, e infine la severità delle inquadrature con cui è narrato lo sviluppo impossibile della giovane donna, consentono ai registi la distanza “moralmente” necessaria nel proporre il biopic di un’assassina, ma soprattutto rimarcano ancora una volta la disperata solitudine di quest’ultima. Tanto più si fa asfittico il rigore formale, che non cede nemmeno nel finale, tanto meglio viene rappresentata l’impotenza autodistruttiva di un gesto solo apparentemente eterodiretto. Proprio per questo, a visione terminata, resta a lungo il riverbero di un film che sembra letteralmente implodere, come la rabbia della sua protagonista. [Elisa Cuter]
KATE PLAYS CHRISTINE / Robert Greene
“In keeping with Channel 40’s policy of bringing you the latest in blood and guts, and in living color, you are going to see another first—attempted suicide.” Queste le esatte parole con le quali la presentatrice Christine Chubbuck inaugurò la puntata del 15 luglio 1974 di Suncoast Digest, talk show mattutino che all’epoca conduceva su Channel 40, prima di puntarsi una pistola calibro .38 alla tempia e uccidersi in diretta TV. Si tratta di uno dei casi più clamorosi di suicidio televisivo ed è fuori di dubbio che se il drammatico evento avesse avuto luogo ai giorni nostri, le immagini si sarebbero trasformate immediatamente in un fenomeno mediatico virale che da Youtube avrebbe invaso Facebook e gli altri social network; ma del fatto non esiste alcuna testimonianza video, dal momento che l’unica registrazione dell’accaduto è stata secretata e resa inaccessibile. Proprio a partire da una propensione vouyeuristica destinata a restare inappagata, il regista Robert Greene elabora un docudrama di rimessa in scena nel quale l’attrice Kate Lyn Sheil interpreta il ruolo della defunta Chubbuck, alla ricerca di un’immedesimazione emotiva e mimetica sempre più profonda. Con Kate Plays Christine, Greene aggiunge un ulteriore tassello alla propria personale indagine sul ruolo della performance nel campo della nonfiction dopo il precedente Actress, indagando il discrimine sottilmente ambiguo entro il quale, nell’arte documentaria, il desiderio di vedere sfuma, talvolta pericolosamente, nel desiderio di credere in ciò che vediamo. [Alessandro Stellino]
A QUIET PASSION / Terence Davies
Torna a stretto giro Terence Davies, apparentemente confinato alla realizzazione di opere cinematografiche di grande eleganza formale volte a raccontare le vite di figure femminili eccentriche e solitarie. Nel ripercorrere la breve esistenza di Emily Dickinson, l’autore inglese si scontra con il fascino potente e oscuro delle sue poesie, che sembra totalmente svincolato dalla biografia della scrittrice. Proprio a partire da questa intuizione, Davies elabora la struttura di un film che mette in scena gli anni della ribellione della Dickinson, dopo il rifiuto di un’educazione piegata agli stretti precetti anglicani. Da qui s’innalza la sua voce poetica, che diventa un vero e proprio contraltare delle vicende quotidiane messe in scena come un piccolo dramma da camera ottocentesco. Non stupisce, dunque, che l’esile ricerca della felicità di Emily debba scontrarsi con le chiacchiere all’ora del tè e i pettegolezzi nelle feste da ballo, ma al contrario di quanto accade alle sorelle Bennett (e con loro a tutto l’Ottocento ormai rimasticato dal cinema mainstream), la Dickinson ha soltanto la propria sagacia da esibire in pubblico. Ed è proprio l’ironia a trasformare questo composto biopic, che a tratti soffre di soluzioni registiche da (seppur raffinata) serie televisiva, privilegiando la parola e i volti, in un’opera originale che riesce nella difficile impresa di tenere insieme il lirismo poetico e il cinismo quotidiano, raggiungendo nel tragico finale l’imprevedibile asciuttezza di una morte per isteria. [Daniela Persico]
LA ROUTE D’ISTANBUL / Rachid Bouchareb
Secondo stime recenti, sono all’incirca 6000 gli europei che hanno raggiunto la Siria per combattere tra le fila dello Stato Islamico. La maggior parte di essi è composta da giovani. Giovani cresciuti in occidente, che partono per arruolarsi in guerra in nome del fanatismo religioso. Come si fa a spiegare un fenomeno del genere? Non lo si spiega, appunto: lo si racconta. Lo si racconta mettendo al centro della narrazione proprio l’esclusione radicale, il senso di estraneità e sgomento che il cittadino occidentale medio prova nei confronti di una scelta tanto incomprensibile. Così Rachid Bouchareb, in La Route d’Istanbul, non racconta la conversione e il viaggio della diciottenne belga Elodie alla volta dell’ISIS, bensì quello di sua madre Elizabeth alla sua disperata ricerca. La trama si concentra sul suo viaggio solitario ed elude la domanda, alla quale neanche la madre sa rispondere, sulle motivazioni di Elodie, della quale ci viene mostrata esclusivamente l’ostinata e incrollabile convinzione. Così, la sua può sembrare tanto ottusità quanto autentica vocazione – conseguenza della fede e per definizione, allora, inspiegabile. Un po’ come la decisione irrazionale e kamikaze di Elizabeth di mettersi da sola a cercare la figlia che non vuole essere trovata. Grazie al parallelo tra madre e figlia Bouchareb parte da una storia individuale per parlare dei temi della fede e della libertà, senza “spiegare” niente, e risollevando invece l’eterno dubbio su quali ne siano i limiti, specialmente quando si ha a che fare con chi si ama. [Elisa Cuter]