Una luce di taglio illumina la prima inquadratura dell’ultimo film dei fratelli Coen: filtra dall’uditorio di un confessionale e segna la presenza di qualcuno che, oltre la quinta, ascolta le parole del penitente. Non importa quale peso abbiano i peccati, ne ha molto di più l’intangibile fuoricampo in cui gli atti si traducono in discorso e il discorso si scioglie in un’assoluzione. Il cinema (secondo i Coen) è anticipato in questa prima sequenza, luogo di culto, tempio in cui avviene una trasformazione, tra la luce e l’ombra: confessionale nella sua vocazione a ordinare il mondo e a liberarlo dai desideri più reconditi, attraverso una rappresentazione tanto ludica quanto espiatoria.
Questo è il cinema. O almeno, alcuni la pensano così. Sicuramente lo è per Eddie Mannix, produttore che attraversa gli studi Capitol (gli stessi con cui ebbe a che fare Barton Fink) con un’energia instancabile, mosso soltanto da un obiettivo: portare a termine i propri film, nonostante le lotte sindacali e i vezzi delle star, nonostante le giornaliste pettegole e le disquisizioni teologiche. Anche lui un ingranaggio nella macchina, soggetto a continui stimoli che lo muovono tra il risolvere un imminente blocco delle riprese (dovuto alla scomparsa dell’attore protagonista) e il gestire l’immagine pubblica delle sue star, ognuna con troppi scheletri nell’armadio per corrispondere al proprio ruolo sullo schermo. Eddie è l’uomo che porta l’ordine nel mondo a qualunque costo, è l’antitesi della teoria del caos che soggiace a ogni film dei Coen. Sotto lo sguardo mansueto e il passo deciso si rivela come il loro vero nemico: convinto di agire in nome di una causa superiore a se stesso, perpetua i gesti precisi di un meccanismo che occulta e cancella, costringe e punisce. Nonostante ciò, è lui l’artefice primo della magia del cinema, quello sincronico delle ballerine-nuotatrici e quello sofisticato delle commedie romantiche, quello scenografico delle immense praterie o quello artefatto dei peplum. Nella teoria di generi che sfilano lungo il film si respira la perfezione di una macchina rodata, nella quale l’errore è alieno, i fisici sono perfetti, la prestazione insuperabile, i movimenti sinuosi e avvolgenti. Hollywood è il Paradiso perduto, l’ingranaggio perfetto, l’utopia raggiunta, o forse no?
Siamo nel tempo organizzato dello spettacolo, in cui ogni pedina batte il giusto pedale senza mai intralciare il risultato finale, così che la mascolinità di una sirena sia trasformata in atletismo, il passo leggero di un uomo affettato si trasformi in un ballo di travolgente machismo, la prestanza di un ragazzo semplice diventi “poesia” del lazzo, almeno fino a quando è lasciato nel suo mondo. Attori, registi e sceneggiatori sono tutti mine vaganti in un sistema complesso, pronti a far esplodere balletti in orge collettive, sermoni storici in convegni politici, la compostezza del cinema classico nelle urgenze (in)espressive della modernità. E quindi non stupisce che all’interno della macchina sia inclusa la sua stessa potenziale sovversione, qui rappresentata da una Scuola di Francoforte che mangia panini al prosciutto e discetta di dialettica mentre attende un aiuto sovietico per evadere dal regno della finzione.
Ma i personaggi di Hollywood restano tali fuori e dentro lo schermo, lo dimostra un George Clooney pronto ad applicare il marxismo ai pettegolezzi di cui è fatta la sua quotidianità di fronte a un Marcuse perplesso, ma soprattutto un Channing Tatum che salta sulla scaletta del sommergibile con la prodezza propria di Fred Astaire, lasciando annegare i resti di un capitalismo che lo ha forgiato e di cui non potrà liberarsi fino in fondo. La società dello spettacolo avanza insieme a loro, ritrasformando il pensiero in parola, l’azione in mossa, l’intervento in sentimento, sublimando il peccato e ricomponendo ogni deviazione in un’apparente armonia, che trasuda irrisolte tensioni opposte.
Dentro alla macchina, guidata da un Dio assente (il grande produttore, unico a poter interrompere lo spettacolo come il meccanismo del tempo nella fabbrica di Hula Hoop), resta soltanto un burocrate sicuro nelle azioni quanto incerto sulle motivazioni, pronto a incorrere nella banalità di un male che permetterà a questo atroce e luccicante meccanismo di continuare a perpetrarsi. Nel tempo immateriale di un capitale che ha forgiato le nostre visioni e ci ha assolto da ogni peccato.