Da diversi anni, ormai, le forme audiovisive nel novero dell’universo della nonfiction si trasformano e si evolvono con una velocità e un grado di ibridazione esponenzialmente crescenti, dando luogo a una costellazione, a un orizzonte estetico di eterogenee modalità di rappresentazione. È pertanto significativo che Visions du Réel, uno dei festival dediti alla nonfiction che presta più ascolto a questi sommovimenti che agitano l’anima del documentario, con il fervore di artisti, performer che popolano festival, biennali, triennali, abbia dato spazio a una figura come Dominic Gagnon. Nato in Québec, con all’attivo diversi film tramite i quali ha esplorato diverse forme di rappresentazione per approdare, oggi, alla realizzazione di film-collage composti con immagini tratte da Youtube, una forma di found footage film dotata di una forte connotazione sperimentale, performativa, antropologica, dando atto della ricettività dell’universo cinematografico e audiovisivo rispetto alla Rete e alla via della contaminazione e dell’ibridazione come unica risposta alla liquidità e all’inafferrabilità di uno spazio virtuale che, nel giro di 10 anni, sarà composto per il 90% di immagini. Un immenso vulcano che ogni giorno vomita centinaia di ore di immagini, ponendo questioni radicali legati al concetto di archivio, di memoria, alla relazione fra visibile e invisibile che è una dimensione cruciale per interpretare il rapporto che l’uomo oggi ha instaurato con l’audiovisivo, per mezzo del sussistere di un universo acefalo, esploso e policentrico come la Rete.
In particolare, il suo ultimo film, Of the North, consiste in un’opera realizzata raccogliendo immagini da Youtube che raccontano i modi in cui il popolo esquimese si autorappresenta. Gagnon intendeva tornare indietro di un secolo alla realizzazione del film che, all’inizio degli anni ’20, ha inaugurato la storia del cinema di nonfiction, Nanook of the North di Robert Flaherty, rispetto al quale Of the North vuole proporsi come un gesto di sintesi e di ricongiunzione storico-sociologica: chi sono oggi gli Inuit, quella comunità raccontata da Flaherty? E qual è il modo per raccontarla dando atto della potenza rappresentativa del documentario e del suo compito di raccontare la realtà, ivi compresa la mole di frammenti di auto-rappresentazione che ne costituiscono un residuo, una traccia, e ne restituiscono una visione certamente parziale, ma indubitabilmente riflessiva e provocatoria?
Gagnon sceglie di raccontare il popolo eschimese con il suo linguaggio: il montaggio del film collaziona immagini, spesso di bassa qualità, in cui gli Inuit si prestano ai gesti più surreali: video grossolanamente girati e montati da ventenni che replicano le magie di Meliès; bambini di pochi mesi che ridacchiano, cani, gatti, incidenti di skidu sulle strade ghiacciate, manovre e panorami degli immensi impianti di estrazione petrolifera che costellano Canada, Groenlandia e Artide, scene di caccia alle anatre riprese con rigorosissimo stile POV dalla canna del fucile. Le immagini sono poi postprodotte con l’ausilio di una colonna sonora costituita da eterogenee e differenti forme sonore (immancabili i karaoke che reinterpretano famosi brani pop), che affondano la sequenza di ritualità domestiche degli esquimesi in un’atmosfera surreale e, a tratti, inquietante.
In effetti, l’approccio di Gagnon al montaggio è uno dei primi elementi di interesse che emala dal suo cinema: come lui stesso ha dichiarato, nel montaggio che predilige 1+1 non fa due, bensì 11: il valore delle immagini non è dato dalla logica del senso che esse acquisiscono quando vengono legate in una relazione causa-effetto, ma sta nella capacità di evocare un legame reciproco, una solidarietà ideale, direbbe Godard, di concatenarsi in un flusso organico e continuo. Per questo, Gagnon descrive le sue sessioni di montaggio come permeate da una storia di ritualità nella quali egli, come posseduto, si aggira per questa mole immensa di materiale costruendo in tempo reale una combinazione di immagini, dando luogo a una vera e propria performance il cui sforzo è costantemente visibile e udibile oltre la superficie delle immagini. Una concezione di montaggio che, se applicata al documentario, ci restituisce in pieno la volontà di Gagnon – simile a quelle di altri autori che oggi si misurano con la “realtà” – di mettere in discussione l’approccio classico al racconto del reale, non basandolo più sul racconto verosimile ma sulla sfida, sulla provocazione, finanche politically uncorrect, un tratto molto evidente in Of the North.
La prima parola che è stata associata a Of The North è trash: il film sembra raccogliere le immagini seguendo accuratamente questo criterio anche, si direbbe, con un certo compiacimento. In realtà, tale approccio rende l’operazione ancora più interessante, perché mette in luce il minimo comune denominatore della morfologia audiovisiva dell’immagine di youtube: un gesto di auto-rappresentazione che vive sul confuso crinale tra intimità e sfera pubblica e che si carica, direbbe Guy Gauthier, di un surplus performativo che restituisce la volontà e il desiderio di un anonimo esquimese di mettere sulla bilancia di questo precario equilibrio un gesto nel quale offrire di sé un’idea profondamente sovrastrutturata, eccedente, extra-quotidiana. Gauthier parla di tale dinamica rappresentativa come ipotesi teorica sul documentario tout court, ma certamente Of the North pone tutto questo in evidenza, e fa assurgere l’immagine di Youtube, l’immagine qualunque, verrebbe da dire, a oggetto cinematografico, che testimonia di un universo audiovisivo nel quale questa dinamica è ancora più forte e visibile. Questa frizione così forte tra pubblico e privato, quotidiano ed extra-quotidiano, pone delle questioni radicali: ogni immagine di Youtube si connota di questo carattere privato e domestico, e forse finchè era su Youtube non la vedeva nessuno e intima rimaneva; ma nel momento in cui essa finisce in un film oltrepassa un limite, diventa pubblica, e questo crinale confuso diventa un vero e proprio corto-circuito.
Il film pone, dunque, delle questioni di carattere socio-antropologico: il film ci restituisce qualcosa di concreto e tangibile nel racconto degli Inuit? In che modo ha luogo questo racconto? Al di là di quelli ovvi, come ad esempio l’inculturazione occidentalizzante che ricorre spesso in molte clip, un tratto ricorrente dei filmati raccolti sembra essere una concezione del tutto particolare della violenza fisica, anche nei confronti degli animali. Questo aspetto ci racconta qualcosa del popolo Inuit? Alla domanda se dentro il film ci fosse una presa di posizione chiara in merito a questioni antropologiche, Gagnon risponde di non avere una formazione specifica in tal senso. Eppure il film, volente o nolente, solleva l’interrogativo e istiga lo spettatore e chiedersi cosa ci sia di vero, di comune, di riconducibile a una specificità culturale. A tal proposito, Gagnon racconta che un elemento centrale della sua pratica di filmmaker è la distanza: a partire dai suoi film precedenti fino all’attuale adozione del found footage film, la questione della distanza rispetto ai soggetti-partecipanti dei suoi film si è sempre configurata, come spesso capita nel caso del documentario, quale fattore cruciale. Ma cosa accade quando questa distanza si declina rispetto a un qualcuno che non si è mai ripreso dal vero, del quale abbiamo solo un’immagine girata chissà quando che è stata “rubata” da Youtube? Eppure, vedendo il film si percepisce fortemente la presenza dell’autore e si ha comunque la sensazione che sia venuta a formarsi una relazione tra l’autore/selezionatore/montatore e i soggetti ripresi, che il film restituisca un punto di vista specifico e personale su di essi. Certamente, anche la costruzione del montaggio, che spesso annovera una colonna sonora over, contribuisce ad accrescere un senso di osservazione distanziata, entomologica, come se Gagnon stesse studiando i soggetti dei film, configurando in questo modo un approccio relazionale.
In conclusione, la poetica di Dominic Gagnon, e On the North in particolare, sembrano inserirsi in una temperie culturale, tutta propria del cinema contemporaneo di nonfiction, di riconfigurazione provocatoria e radicale dell’atto di fimare e del principio classico di realtà. Un approccio tramite il quale Gagnon riformula nuovamente il rapporto del documentarista con la rappresentazione del reale, sempre meno schiavo delle norme etiche e sempre più votato al gesto, all’atto estetico che pone lo stile innanzi a certi presunti obblighi del cinema verso la realtà, un diktat che, dopo decenni nei quali è stato interpretato nella direzione di una riverenza verso la realtà, oggi si riconfigura come spunto per un’espressione parziale, soggettiva, provocatoria, anarchica.