Come nel caso dell’appena successivo La vergine sotto il tetto (The Moon is Blue, 1953), la prima virtù di questo film (Seduzione mortale, Angel Face, 1952) è quella di liberarci di alcune idee preconcette riguardanti il suo autore; a forza di apprezzare, nella sua opera, la sapiente ambiguità dei soggetti e la morbidezza acquatica e l’arguzia dei movimenti di macchina, nel giro di poco non saremmo stati più capaci di vedere al di là di tutto questo, e rischieremmo di ridurre il grande talento di Otto Preminger a dimensioni del genere – dimensioni che sono, ammettiamolo, piuttosto ristrette. Per prima cosa, dunque, siano rese grazie a questi due film per la loro modestia, per l’esiguità delle scenografie, per la qualità “tirata via” della fotografia, che ci dimostrano, se mai ce ne fosse bisogno, che egli è capace di ben più che di sfruttare al meglio le abili sceneggiature, gli eccellenti attori e le risorse tecniche di una major facoltosa.

Abbozziamo dunque l’elogio della povertà, anche qualora i suoi benefici si limitassero al costringere all’ingegnosità per poterla nascondere, spronando così l’inventiva; non bisognerebbe forse costringere ogni cineasta affermato a confrontarsi con essa almeno una volta? È noto che la ricchezza intorpidisce; cosa resterebbe, dopo una prova del genere, di più di un talento sicuro di sé? Con a disposizione mezzi che, confronto agli apparati e ai macchinari della Paramount, fanno pensare al cinema amatoriale, Preminger riduce la sua arte all’essenziale, a quello scheletro un tempo sapientemente dissimulato sotto le attrattive dell’immagine, architettura segreta della sceneggiatura come della mise en scène: gli elementi del cinema qui sussistono pressoché allo stato brado; all’opposto del trattamento enfatico caro alle produzioni Selznick o MGM, Seduzione mortale e La vergine sotto il tetto stanno a Preminger come Due esseri (Två människor, 1945) sta a Dreyer, Il grande caldo (The Big Heat, 1953) sta a Fritz Lang, La donna della spiaggia (Woman on the Beach, 1947) a Renoir: la prova più decisiva del talento, o del genio, di un regista. Intendiamoci; non sto dicendo che questi due film siano i suoi migliori, bensì quelli che maggiormente ci permettono di avvicinarci agli altri suoi e al segreto del suo talento, quelli che certificano ciò che già prima si poteva presagire: che questo segreto è prima di tutto la funzione di una idea precisa del cinema.

Ma qual’è questa idea? Io stesso, perché nasconderlo?, ancora non so bene cosa pensare di Preminger; a dirla tutta, mi intriga più di quanto non mi esalti, ma di questo voglio fare subito un primo elogio, e non il più piccolo: il numero di cineasti che meritano di intrigarci, dopotutto non è poi così grande. A questo punto, ne sono ben consapevole, sarebbe il caso di soffermarmi come da prassi sul soggetto, o sui personaggi, su quello di Jean Simmons per esempio, e sulle analogie o divergenze tra quello e varie altre eroine del nostro autore eccetera… Ne sono ben consapevole; un diavoletto però è lì che mi sussurra: “è proprio necessario? Nella purezza menzognera e criminale, ecco, non è forse lì, appunto, che si annidano la convenzione e l’artificio?”. Questo personaggio banale, sì, così voglio definirlo, ma allo stesso tempo nuovo e sorprendente, come potrebbe essere tale se non per via di un qualche mistero non dovuto alla sceneggiatura?

Guardiamoci, peraltro, dal sopravvalutare i non di rado adulterati prestigi del mistero; il fatto è però che questo film non si tira per nulla indietro dall’essere quel film segreto che esso è; ben presto siamo costretti a constatare che un primo enigma, effettivamente parecchio facile, viene doppiato da un altro che non si lascia penetrare. Se la metà delle azioni rimane inesplicabile, è più che altro perché la spiegazione che di esse propone la logica della storia è priva di una misura comune con l’emozione che esse suscitano: un interesse che non è quello per la trama non cessa di far sì che ci attacchiamo ai gesti dei personaggi – la cui assenza di qualsiasi vera profondità ci viene al contempo palesata dalla riflessione. È tuttavia alla profondità che essi vorrebbero tendere, e a quella più artificiale, perché non viene dalla alquanto sospetta e contestabile complessità degli esseri, ma appunto dall’arte, ossia dall’utilizzo di tutte le risorse che il cinema offre al cineasta.

Non starò mai a formalizzarmi sul fatto che un regista scelga come pretesto una data sceneggiatura che gli permetta di tornare nuovamente dietro la macchina da presa, di dirigere degli attori, di inventare di nuovo. Ho detto forse “sceneggiatura-pretesto”? Non credo sia esattamente questo il caso; credo però che in essa Preminger veda innanzitutto l’occasione di mettere in presenza alcuni esseri, di studiarli pazientemente, di spiare le reazioni degli uni davanti agli altri, di ottenere insomma da loro determinati gesti, atteggiamenti, riflessi – che sono la ragion d’essere del suo film, e il suo vero soggetto.

Non che il tema gli sia indifferente. Sto per fare un grande elogio: Preminger non è di quelli che sono capaci di fare tutto; è facile qui riconoscere, attraverso l’alternarsi di passaggi riusciti e di altri di tranquilla goffaggine, ciò che gli interessa davvero. Si fa fatica a immaginare una qualche esegesi di Preminger fondata sullo studio comparato delle sinossi, ma ci si figura già meglio uno studio di certe costanti che sarebbero meno elementi delle storie che ossessioni di un autore che sa quali siano i temi che incontrano il suo favore[1].

Ci si può domandare che tipo di fede egli abbini a questa storia: ci crede? Prova almeno a farci credere a noi? Di certo non si fa scoraggiare dall’inverosimile; e spesso è proprio nel momento stesso in cui esso deflagra, quando Laura resuscita o quando il Dr. Korvo si auto-ipnotizza davanti allo specchio, che si è meno che mai disposti a rifiutargli credibilità. Ma qui, essendogli vietati i sortilegi formali, come in Vertigine (Laura, 1944) o Il segreto di una donna (Whirlpool, 1949), il vero problema è meno quello di far credere a una storia incredibile, che quello di trovare, al di là della verosimiglianza drammatica o romanzesca, una verità puramente cinematografica. Prediligo maggiormente un’idea di cinema diversa, ma chiedo altresì che si comprenda bene quello che tenta Preminger, e che è acuto abbastanza da attirare l’attenzione; preferisco dunque la concezione, forse più naif, della vecchia scuola, Hawks, Hitchcock o Lang, che credono innanzitutto ai loro soggetti e su questo credere fondano la forza della loro arte. È alla mise en scène che prima di tutto crede Preminger, alla creazione di un complesso preciso di personaggi e di ambienti, di un fascio di rapporti, di un’architettura di relazioni, mobile e come sospesa nello spazio. Che cosa tenta, se non di incidere un cristallo: trasparenza dai riflessi ambigui, dagli spigoli netti e affilati – di far sentire certi accordi rari e mai sentiti prima; l’inesplicabile bellezza della modulazione giustifica tutt’a un tratto l’insieme della frase. Ecco indubbiamente la definizione di una certa preziosità, ma anche la sua forma più alta e più segreta, poiché essa non si cura dell’uso di artifici, bensì della ricerca ostinata e perigliosa di una nota, una di cui, approfondendola, non ci si possa stancare, né vantarsi, di esaurire il suo enigma: apertura su un qualche al di là dell’intelligenza, che sfocia sull’ignoto.

Sono queste le potenzialità della mise en scène, ed è questo l’esempio che mi sembra offrirne Preminger, di una fede nell’esercizio della propria arte tale da permettere di ritrovarne di converso la parte più profonda. Perché non vorrei con questo suggerire una qualche esperienza astratta da esteta: “a me piace innanzitutto il lavoro”, mi diceva. Sì, io credo che per Preminger un film sia innanzitutto un’occasione per lavorarci, per farsi delle domande, per incontrare e risolvere queste e queste difficoltà; l’opera è meno un fine che un percorso: lo appassionano i suoi incidenti, gli espedienti che gli imprevisti incoraggiano, l’inventare sul momento, sulla scia dell’istante fortunato e votato all’essenza fuggitiva degli esseri e dei luoghi. Se una parola potesse definire Preminger, essa sarebbe in effetti metteur en scène, anche se la sua esperienza sulla scena qui non sembra influenzarlo più di tanto; a contatto con uno spazio drammatico nato dall’affrontarsi degli uomini, egli piuttosto sfrutterebbe all’estremo la facoltà del cinema di captare il caso – ma un caso voluto – di scrittura dell’accidentale – ma un accidentale inventato – attraverso la prossimità e l’acutezza dello sguardo; i rapporti tra i personaggi creano un circuito chiuso di scambi, in cui nulla è lì giusto per sollecitare lo spettatore.

Che cos’è la mise en scène? Mi scuso di porre così all’improvviso, senza preparazione, senza un preambolo, una domanda così perigliosa, tanto più che non ho intenzione di rispondervi; semplicemente, non dovrebbe essa forse fare da sfondo a qualsiasi cosa affermiamo? Farò piuttosto un esempio: la passeggiata notturna della protagonista in mezzo alle tracce del passato, parente stretta di quella di Dana Andrews tra ciò che rimane di Laura, ecco quella che sulla carta è la tentazione-tipo in cui incappano i mediocri; ma più che l’autore di questa idea, Preminger è colui che inventa l’andatura irregolare di Jean Simmons, il suo starsene raggomitolata sulla poltrona; ciò che potrebbe essere troppo facile o semplicistico si salva grazie a una grande assenza di compiacimento, alla durezza del fraseggio filmico e alla lucidità dello sguardo, o meglio non ci sono più temi né trattamenti, non ci sono più mezzucci né espedienti, bensì la presenza nuda, lacerante di evidenza, del cinema sensibile al cuore.

E quindi La vergine sotto il tetto era meno la brillante messa in opera di una commedia spirituale da parte di un abile direttore di attori, che (grazie all’incessante inventare atti e intonazioni, e alla precisione con cui viene circoscritta la perfetta libertà dei personaggi) l’affermazione chiara di un potere, un’affermazione più commovente di qualsiasi favola. Se mai è esistito un film che sia espressione della mise en scène limitata a nulla più che al suo esercizio puro e semplice, è proprio questo: che cos’è il cinema, se non la recitazione[2] dell’attore o dell’attrice, del protagonista e della scenografia, del verbo e del volto, della mano e dell’oggetto?

La nudità di questi film, lungi dal nuocere a ciò che è essenziale, palesa quest’ultimo fino alla provocazione; ciò che in altri casi potrebbe compromettere l’essenziale, dal gusto delle apparenze e del naturale alla sapiente sorpresa del caso alla ricerca del gesto accidentale, tutto, invece, ritrova in questa nudità quella parte segreta del cinema o dell’uomo che protegge l’uno e l’altro dal nulla; di meglio non potrei chiedere.

L’essentiel, in Cahiers du Cinéma, n.32, febbraio 1954


[1] Tra essi la fascinazione (Vertigine, Il segreto di una donna, Seduzione mortale), gli interrogatori (Vertigine, Un angelo è caduto, Il segreto di una donna, Sui marciapiedi, Seduzione mortale), la rivalità amorosa (Vertigine, Un angelo è caduto, L’amante immortale, Seduzione mortale, La vergine sotto il tetto).

[2] Rivette qui fa leva sull’ambiguità del termine “jeu”, che significa sia “gioco” che “recitazione”. In buona sostanza, con questa sua definizione Rivette suggerisce che il cinema consiste nel “far recitare” non solo attori e attrici, ma anche oggetti inanimati quali scenografie, verbi, volti, mani, etc.; allo stesso tempo, il cinema consisterebbe nel rapporto (sempre “jeu”) di tutti questi elementi tra loro [NdT].